row-9qr2_yarx-83tm Statuetta fittile di vignaiolo Vigevano Castello Visconteo Sforzesco, Piazza Ducale 20; Corso della Repubblica La statuetta è un raffinato manufatto fittile, databile ai primi decenni del I secolo d. C., rappresentante un personaggio maschile, a figura intera, reso in modo realistico, con corta tunica dotata di cappuccio. Vuole essere la rappresentazione di una scena di vita quotidiana: il vignaiolo che, con abbigliamento da lavoro, ritorna dai campi tenendo in una mano lo strumento utilizzato per cogliere l'uva, la roncola, e nell'altra un grappolo d'uva.Il Vignaiolo è esposto nel primo suggestivo ambiente, scandito in tre navate da due file di colonne e coperto da volte a crociera, della cosiddetta terza scuderia del Castello Visconteo Sforzesco, attribuita a Leonardo da Vinci (1490) che, come ingegnere ducale, interviene nel castello stesso e nelle campagne vigevanesi.Il manufatto, rinvenuto nel 1978 proviene da una tomba della necropoli di Gropello Cairoli, podere Panzarasa in località Marone, località che ha restituito numerose testimonianze archeologiche. Nei corredi funebri delle tombe di età romana della Lomellina, accanto ai manufatti d'uso corrente (piatti, bicchieri, coppe in ceramica, balsamari in vetro, ornamenti) si rinvengono spesso statuette fittili, simili a questa. Il repertorio di statuine è molto vario, solitamente a figura intera, raro il busto, sono generalmente rappresentati personaggi di genere (uomo, donna, giovane, anziano, la coppia, la madre col figlio) intenti nelle occupazioni quotidiane (oltre al vignaiolo, la donna con l'olpe o col cesto) o figure divine o mitologiche (Venere, Minerva, Europa su toro, Eroti), ma anche animali, come la colomba sacra a Venere. Non risulta sempre chiaro il significato di tali manufatti all'interno della tomba, sicuramente costituivano per il defunto un legame simbolico con il mondo terreno in riferimento alla vita quotidiana o ai culti praticati.Le terrecotte figurate venivano realizzata a stampo, da matrice bivalve, con ritocchi a stecca. Sono peculiari della zona Lomellina, con limitata diffusione in Piemonte, nella zona del Verbano e nel Canton Ticino, in cui si riscontrano esemplari identici. Il ristretto ambito di diffusione fa presumere l'esistenza di centri di produzione locale, attivi tra l'età augustea e la metà del I sec. d.C. row-e7pd_i6mp-kzsn Collezione del Museo Archeologico San Lorenzo Cremona Via S. Lorenzo, 4 La collezione del Museo Archeologico San Lorenzo è composta da una ricchissima varietà di materiali provenienti in massima parte dalla città di Cremona. Risalenti all'età romana, essi ci restituiscono l'immagine di una città ricca e vivace, sempre aggiornata sulle mode e sui costumi provenienti da Roma. La bellezza degli edifici pubblici e privati, tanto declamata dagli scrittori, tra i quali lo storico Tacito, è testimoniata dai bellissimi pavimenti mosaicati e dagli intonaci dipinti che decoravano le pareti delle case. La magnificenza degli edifici pubblici si ritrova in un imponente capitello ornato da coppie di leoni e nei frammenti di una splendida statua in terracotta che decorava il frontone di un tempio e che è il pezzo più antico di Cremona romana. Della collezione fanno ancora parte oggetti in bronzo per l'arredo domestico, vasellame da mensa in vetro e in terracotta, anfore provenienti da ogni parte dell'impero e pregevoli opere in marmo per la decorazione dei giardini privati. Da non trascurare i reperti riferibili all'ambito funerario della vita della colonia, trai quali vanno annoverati gli ossi lavorati che rivestivano i letti funebri della necropoli di San Lorenzo, ritrovati in centiaia di frammenti. Tra il 2005 e il 2007 la collezione si è enormemente arricchita grazie agli scavi di piazza Marconi, che hanno restituito materiali eccezionali, sia per qualità che per quantità. Prima dell'apertura del Museo Archeologico San Lorenzo, nel 2009, la collezione archeologica è ospitata presso il Museo Civico "Ala Ponzone", allestito nella prestigiosa sede di palazzo Affaitati. La sezione archeologica, posta al piano terreno, accoglie materiali provenienti da scavi o ritrovamenti casuali effettuati a partire dall'Ottocento a Cremona e nel suo territorio. Nel corso degli anni, l'allestimento subisce diverse risistemazioni, a causa del continuo incremento dei materiali che affluiscono in Museo grazie a sempre nuove scoperte. Nel 1993, i locali, i cui muri sono intaccati da una grave umidità, vengono sgomberati per una ristrutturazione che dovrebbe essere a breve termine. I mosaici della collezione, sottoposti a restauro, vengono trasportati nella ex basilica di San Lorenzo, temporaneamente adattata a laboratorio. Ma un progetto più ambizioso ha già preso piede: recuperare la splendida basilica romanica, che versa in condizioni di grave degrado, e costituire un museo archeologico interamente dedicato alla città. Il progetto sarà portato a compimento nel 2009. Nel nuovo museo, accanto ai reperti di più antica acquisizione, vengono esposti per la prima volta anche i materiali emersi dagli scavi di piazza Marconi, che arricchiscono il patrimonio della collezione con una quantità eccezionale di reperti unici e preziosi. row-7ut5~vji8-jnpm La Dogana Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Una grande vetrina nella sala detta "stüa granda", al secondo piano del museo di Campodolcino, presenta la serie completa, in fogli sciolti montati per l'esposizione, della rara edizione delle stampe del volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga", edito a Milano intorno al 1824. Si tratta di 16 vedute dal vero eseguite dall'artista Friedrich Lose, sia per il disegno che per l'incisione, che raffigurano luoghi e panorami lungo il percorso che da Chiavenna porta a Coira attraverso il passo dello Spuga. Le stampe sono realizzate con la tecnica dell'acquatinta e vennero colorate a mano. Le tavole relative alla parte di percorso lungo la Val San Giacomo presentano vedute di Chiavenna, del santuario di Gallivaggio, della contrada delle Corti di Campodolcino, della cascata di Pianazzo, di una galleria paravalanghe ora non più esistente, della casa cantoniera di Teggiate e della dogana e dell'albergo a Montespluga. Intorno al 1824 Friedrich Lose elaborò per l'editore milanese Francesco Bernucca il volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga" dedicato alla strada carrozzabile dello Spluga, voluta dal governo austriaco e inaugurata pochi anni prima, nel 1822.Il "viaggio pittorico" o "viaggio pittoresco" era un tipo di pubblicazione molto diffuso nella prima metà dell'Ottocento, una via di mezzo tra la guida turistica e il libro d'arte. Nei volumi numerose tavole illustravano scorci e panorami dell'itinerario accompagnate da un commento descrittivo. Questo raffinato prodotto era rivolto a un pubblico d'élite, nobili e intellettuali, gli unici, all'epoca, che potevano permettersi di viaggiare per diletto. L'autore lavorava spesso a questi progetti con la moglie Caroline, anch'essa pittrice. Il connubio artistico fra i due vedeva solitamente Friedrich impegnato nel disegno dei paesaggi ad acquerello, mentre Caroline provvedeva all'incisione delle tavole in acquatinta e successivamente alla loro coloritura. row-u8yb_vqp3.58b9 Milano Via Manzoni, 12 row-9jun~v3aq-th46 L'urto Gallarate Via De Magri, 1 Opera pittorica caratterizzata da forme geometriche (es. triangoli, rettangoli, semicerchi e poligoni irregolari), il dipinto si offre all'osservatore come opera dai colori piatti e freddi, in cui prevalgono i grigi, i neri e i bianchi. La stesura della pittura è tesa e uniforme, mentre la linea di contorno è continua. La struttura dell'opera è dinamica e ritmica, mentre la luce è contrastata.Le figure dipinte dall'autore si ammassano al centro della tela, quasi quadrata e disposta orizzontalmente, catalizzando l'attenzione dell'osservatore mediante una forza centripeta che le porta a collidere, a sovrapporsi e a frangersi in luci e ombre, mostrando il contrasto tra toni chiari e toni scuri. Afferente all'Astrattismo e al Concretismo italiano, quest'opera appartiene alla serie delle "Geometrie nere" realizzata da Vedova tra il 1946 e il 1950. Il dipinto tratta il tema della violenza grazie alla costruzione astratta di figure disposte in modo vorticoso intorno ad assi obliqui.Il tema affrontato è quello drammatico della Grande Guerra, che fortemente ha influenzato la società contemporanea e la coscienza di molti letterati e artisti. Conseguentemente l'opera acquisisce volutamente un forte impatto sociale e politico, divenendo denuncia del dolore accumulato dall'esperienza della guerra. Questo tipo di impegno, che coinvolge Vedova, si ritraccia anche in numerosi altri artisti italiani, che hanno combattuto per la libertà della patria, poi riunitisi sotto il nome di Fronte Nuovo delle Arti. Questa posizione di Vedova caratterizzerà tutta la sua produzione, che manterrà anche come maestro indiscusso della pittura informale europea. row-pgqc.2i2k.k5xa Le Muse Voghera Piazza Castello In una sala al piano nobile dell'ala est, a circa due metri d'altezza, campeggia un ciclo affrescato di notevole qualità scoperto nel 1997 nel corso dei lavori di restauro al castello. Gli affreschi, frammentari, raffiguranti le nove Muse sono attribuiti a Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, uno dei pittori più raffinati del XVI secolo.Il ciclo, rinvenuto sotto una controsoffittatura, conserva due figure quasi integre e perfettamente leggibili, mentre delle altre restano splendidi lacerti: Erato, musa della lirica amorosa, con capelli biondi, tunica rossa e manto verde, compasso nella mano destra, uno strumento musicale a corde nella sinistra e ai piedi tavolette con figure geometriche in prospettiva; Urania, musa dell'astronomia, avvolta in un manto chiaro, con ghirlanda di stelle sul capo, volge lo sguardo al cielo che indica con il gesto della mano destra, mentre nella sinistra tiene la sfera armillare. Le Muse sono inserite in un colto impianto architettonico trompe l'oeil, una sorta di loggia dipinta: entro una fascia color porpora che finge una cornice in porfido risaltano, su uno spazio aperto, le figure sedute in trono, con il nome iscritto sopra il capo e, dove sopravvive, un verso celebrativo sulla trabeazione. Le pareti sono scandite da lesene che fingono il marmo bianco con specchiature a racemi in forma di lira e capitelli corinzi.Pur presentandosi come fortemente lacunosi, tuttavia, grazie alla complessiva leggibilità dell'impianto narrativo, gli affreschi, si connotano come un importante manufatto che testimonia non solo un'eccellente qualità pittorica, con colore pieno e inquadrature suggestive indicativo dell'alta levatura dell'autore, ma anche una raffinata committenza che affidò la dipintura a uno dei più grandi artisti lombardi del Rinascimento. Difficile l'identificazione del committente, anche se le ipotesi orientano verso il conte di Ligny, cui fu affidato il feudo di Voghera tra il 1499 e il 1503, alla caduta del ducato sforzesco e che ebbe documentati rapporti di committenza artistica con il Bramantino. row-gm4q.s3wx.2i24 Eracle e figure di divinità Milano Corso Magenta, 15 row-yy76_b65i~kj7j Milano Via San Vittore, 21 row-aqte-9bjz_x7xx San Cristoforo guada il fiume con Gesù Bambino sulle spalle, Sant'Antonio Abate Castiglione Olona Piazza Garibaldi Eretta sul modello della brunelleschiana Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, la chiesa di Villa Branda presenta una facciata scandita da sottili lesene in tre zone: quella centrale è occupata dal portale, mentre le due laterali da due monumentali altorilievi in arenaria riparati da due piccole tettoie.Sulla sinistra è raffigurato Sant'Antonio Abate, in posizione frontale con la mano destra sollevata in un gesto benedicente (oggi limitato dalla perdita di alcune dita della mano): l'uomo, con lunga barba e baffi, indossa un abito da monaco e con la mano sinistra si appoggia ad un bastone piegato nella parte alta a forma di "tau", dal quale pende una campanella, suo caratteristico attributo.Sulla destra è invece raffigurato San Cristoforo, anch'egli in posizione frontale, con le gambe divaricate immerse nell'acqua del fiume, scolpita a bassorilievo direttamente sulla facciata della chiesa, in una porzione di parete priva dell'intonacatura superficiale. L'uomo, raffigurato con la barba corta e riccia, indossa una corta tunica legata in vita da una cintura; nella mano destra regge un nodoso e alto bastone mentre con la sinistra sostiene la gamba di Gesù Bambino, seduto sulla sua spalla con in mano una sfera che rappresenta il globo terrestre. Durante le battute finali della costruzione della Collegiata di Castiglione Olona, fece la sua comparsa in città una bottega di scultori assestati su un gusto molto diverso da quello del Gotico internazionale: la loro opera, gradita al promotore primo della trasformazione cittadina, il cardinale Branda Castiglioni, ben presto si diffuse in tutti cantieri del borgo, a partire dall'intero apparato scultoreo della Chiesa del Corpo di Cristo, più nota come chiesa di Villa Branda.Ai cosiddetti "Maestri caronesi" vengono dunque fatte risalire dalla critica, dopo molte incertezze attributive, anche i due monumentali rilievi raffiguranti santi posti in facciata, soprannominati nelle cronache dell'epoca "colossi", per via delle loro imponenti dimensioni. Costretti a confrontarsi con un'architettura estranea alla loro cultura, poiché ispirata a modelli toscani e centro-italici, qui i maestri scultori diedero prova di eccezionale duttilità, piegando il loro repertorio decorativo e iconografico ad una monumentalità e ad un richiamo al classico, sicuramente mai visto prima in Castiglione Olona.La presenza in facciata dell'immagine di San Cristoforo, in particolare, assume un particolare significato anche in funzione della dedicazione della Chiesa che, oltre ad essere consacrata al "Corpus Domini", era connessa anche al culto dell'Assunzione della Vergine, cui doveva essere dedicato il vano centrale. San Cristoforo, il cui nome significa letteralmente "portatore di Cristo" diventa in questo senso indicativo del percorso ideale di fede che conduceva a Cristo tramite l'accettazione di Maria Vergine, che lo portò in grembo. row-naga~f9js.chif Pavia Via Ferrata, 3 Le due lampade ad arco conservate nella vetrina, furono prodotte, quella a sinistra posta in verticale, dalla ditta Siemens & Halske di Berlino, ed è datata 1892, mentre quella a destra con la grande sfera in vetro dalla Siemens - Schukertwerke G.m.b.H. e risale al 1903. Il manufatto nella teca a sinistra proviene dalla Collezione Enel S.p.A. e nel 1999 è stata ceduto al museo pavese con un contratto di comodato, l'altro a destra è stato donato nel 2007 dalla Siemens (Collezione dell'Università di Pavia). Ciascuna delle due lampade costituisce un pezzo di eccezionale importanza in quanto rappresenta ciò che precede la lampadina.La lampada ad arco è un dispositivo di illuminazione basato sull'emissione luminosa di un arco voltaico. Si può considerare una particolare forma della lampada a scarica in aria atmosferica, dove in questo caso avviene una vera e propria scarica elettrica. Le prime dimostrazioni dell'utilizzo di tali dispositivi si hanno a partire dall'inizio del XIX secolo da parte del chimico inglese Humphry Davy, nella seconda metà dell'Ottocento tale lampada viene utilizzata esclusivamente per l'illuminazione pubblica e nei potenti proiettori in uso fino alla seconda guerra mondiale, successivamente, tranne qualche rara eccezione, viene soppiantata dalla lampada a scarica. Attualmente la tecnologia è ritornata in uso, ma con l'ausilio del gas xeno. Il primo esperimento di illuminazione elettrica pubblica avviene nel 1877 in piazza Duomo a Milano, ma in realtà la tecnologia della lampada ad arco è sperimentata già dal 1853. A tale spettacolare dimostrazione milanese, giudicata dalla stampa dell'epoca un evento eccezionale, prende parte una gran folla di curiosi. Questa tipologia di lampada che precede la costruzione della prima centrale Edison nel 1898, si utilizza esclusivamente per l'illuminazione pubblica di strade, piazze o di grandi ambienti (Galleria Vittorio Emanuele, ridotto del Teatro alla Scala, Bar Biffi, Caffè Gnocchi).Questi primi esperimenti di illuminazione stradale vengono effettuati con lampade ad arco Siemens, mentre nel 1886 altre lampade ad arco del tipo Thomson-Houston sono installate per illuminare altre centrali vie milanesi, quali corso Vittorio Emanuele e via Manzoni.Nel 1883 Milano è quindi la prima città in Europa a disporre di un servizio di illuminazione elettrica regolarmente organizzato. row-7j5d-guh6~t5vz Bambina con fiori Varese Via Cola di Rienzo, 42 Il soggetto del dipinto a olio è una bambina che regge un fascio di fiori. La figura è rappresentata in un contesto boschivo dove il terreno sembra ricoperto da foglie. La bambina domina la composizione asimmetrica, ma complessivamente armonica. Il soggetto, che è tagliato ai piedi, indossa un cappello di paglia a falde larghe e un vestito azzurro. Le forme sono leggermente geometrizzate e conferiscono agli elementi compositivi solidità. I colori sono contrastanti: le tinte calde del terreno e del viso della protagonista si oppongono all'azzurro del vestito mentre i fiori variopinti hanno una dominanza di bianco che illumina l'intera composizione. Il dipinto perviene ai Musei Civici di Varese nel 1965 con la donazione di Amelia Bolchini De Grandi, che l'aveva acquisita intorno agli anni Trenta del Novecento. Fino ai primi anni del XXI secolo la critica indicava il soggetto come riconducibile a Luce Balla, figlia dell'artista: l'ipotesi era stata basata sul confronto con il "Ritratto di Luce Balla" del 1908 e quello del 1910, mentre per lo sfondo era stato suggerito un confronto con il dipinto "Fontana a Villa Borghese" del 1906. Più di recente, studi condotti per la mostra milanese dell'artista nel 2007 hanno fatto chiarezza sulle vicende della formazione dell'artista, sottraendo alla tela l'identificazione del soggetto e inserendola pienamente nella produzione romana di Giacomo Balla. La critica ha dunque ricondotto il dipinto ai primissimi anni del Novecento, ovvero immediatamente dopo la sua permanenza a Parigi (1900-1901), proponendo anche alcuni confronti con dipinti realizzati dall'artista con una simile tecnica pittorica. In tele quali il "Ritratto della signora Pisani" e alcuni ritratti della moglie Elisa Marcucci, si ritrova infatti l'uso di una pennellata a puntini e virgole che intreccia la figura allo sfondo: in quest'opera, in particolare, la tecnica divisa è prodotta con segmenti radi e non compatti, lo spessore materico è allentato e in più punti viene lasciata a vista la tela di supporto, ad eccezione della zona centrale dove pennellate rapide e dense danno forma al mazzo di fiori.L'ipotesi cronologica di una realizzazione del dipinto intorno al 1902 porta a supporre che l'opera venne esposta quello stesso anno alla mostra della Società Amatori e Cutori di Belle Arti di Roma. Il taglio particolare della composizione, che esclude parte dei piedi del soggetto che giganteggia nella composizione, probabilmente deriva dalla formazione di fotografo del pittore che, appena conclusi gli studi nel 1891, trovò impiego presso lo studio del pittore e fotografo Pietro Paolo Bertieri. Qui assimilò l'interesse per lo studio della luce e della figura in movimento di cui certamente fece memoria nel corso dei suoi sviluppi futuristi. row-b5fz~w3h3~q8dq Milano Via San Vittore, 21 row-fyes~chne-b6b7 San Simonino da Trento, Sant'Antonio abate, Sant'Antonio di Padova, Madonna con Bambino e san Girolamo Breno Piazza S. Antonio La decorazione frammentaria si presenta divisa in scomparti, che accolgono figure e rappresentazioni votive. A sinistra, in alto, troviamo l'effige di S. Simonino da Trento, il fanciullo di due anni ucciso nel 1475 a Trento e per il quale furono accusati ingiustamente un gruppo di ebrei considerati rei di un terribile rito sacrificale. In basso, entro nicchie, sono dipinti S. Antonio abate e S. Antonio di Padova, entrambi riconoscibili per la veste e per i tratti fisioniomici. A destra, due arcate aperte su un paesaggio, accolgono una Madonna, frammento, come suggerisce il disegno sottostante, di una Madonna in trono con Gesù Bambino, e S. Gerolamo in meditazione. I dipinti testimoniano la fase decorativa della chiesa precedente l'intervento di Romanino sulle pareti del presbiterio. Databili negli anni a cavallo fra il XV e il XVI secolo, rivelano analogie tecniche e stilistiche con altri dipinti murali lasciati in Valle Camonica dalla bottega di Giovanni Pietro da Cemmo, artista camuno attivo a partire dall'ottavo decennio del XV secolo con un linguaggio tipico delle valli subalpine, che associa in uno stile originale, riferimenti gotici, arcaismi della tradizione bizzantina, influenze tedesche e forme dotte rinascimentali, in direzione soprattutto di Vincenzo Foppa. Lo stesso artista tra l'altro è attivo in Sant'Antonio, dipingendo sulla volta del presbiterio i quattro Evangelisti e i quattro dottori della Chiesa. Di particolare interesse è l'immagine frammentaria della Madonna in adorazione, di cui si è potuto recuperare la sinopia sottostante. Da essa emergono le tracce dell¿attività progettuale dell'autore, che prevedeva il Bambino posto a destra e la Madonna inginocchiata rivolta sempre a destra, secondo una soluzione poi ribaltata nell'opera finale, che presenta appunto la testa e il busto della Madonna rivolti a sinistra. row-pgjr~mrba_phmv guerriero Milano Via Tortona, 56 row-fffz-pqvj-bhqk Milano Via San Vittore, 21 row-cq4c.dxjs.u8ts Pescarenico Lecco Via Don Guanella, 1 Pescarenico (attuale quartiere di Lecco) viene qui rappresentato nel suo aspetto caratteristico, con le case affacciate sull'Adda, poche figure sulla riva ed una barca in primo piano. Il piccolo borgo, descritto da Alessandro Manzoni nel IV capitolo de "I Promessi Sposi", ispirò molti illustratori del romanzo manzoniano. A questo proposito si possono identificare due distinte tipologie: una che predilige il paesaggio 'idealizzato' e l'altra la veduta reale, dipinta direttamente sul posto. Questo esemplare rientra nella seconda categoria e ritrae una situazione tuttora esistente: è rappresentata piazza Era, su cui si affaccia casa Monti, distinguibile per la caratteristica loggetta al piano superiore, ancora presente. L'artista utilizza una pennellata sfatta, che conferisce alla veduta un'aura evanescente. L'opera fu realizzata da Giovanni Battista Todeschini (1857-1938), pittore lecchese, nipote dell'abate Antonio Stoppani. Frequentò per breve tempo l'Accademia di Brera, dove ebbe fra i suoi compagni Pompeo Mariani, con il quale restò in contatto per tutta la vita, ma la sua fu, sostanzialmente, una formazione da autodidatta. row-42j9_f9d6-enfa Natura morta con palla Milano Piazza Duomo row-8cyq_hdgu.bwpy Soncino Via Lanfranco, 8 Il macchinario poggia su quattro piedi in ferro. Essi reggono una base lignea a forma di parallelepipedo a sezione rettangolare su cui veniva appoggiata la risma di fogli da rilegare, in cui sono inseriti due cilindri in ferro che fungono da sostegno della pressa. Quest'ultima è formata da un blocco rettangolare in ferro che funge da morsa, sovrastato da un volante a quattro prese per lo scorrimento verticale della stessa lungo un cilindro filettato centrale. I due cilindri laterali di sostegno sono assicurati alla sommità, mediante grossi viti e bulloni, ad un blocco ligneo a forma di parallelepipedo a sezione rettangolare. L'oggetto serviva per pressare le risme di fogli per la rilegatura di libri: la risma di fogli veniva appoggiata sul basamento in legno e pressata mediante la morsa in ferro, abbassata mediante il movimento manuale circolare del volante. E' stato prodotto dalla Società Augusta Unione Nazionale Fonderia Caratteri e Fabbriche Macchine di Torino (1908-1918). Nel 1906 la ditta tipografica torinese Nebiolo si trasformò in società per azioni e nel 1907 stipulò un accordo di cartello con la concorrente milanese Urania. Nel 1908, nacque così la Società Augusta Unione Nazionale Fonderia Caratteri e Fabbriche Macchine, con sede a Torino e stabilimenti nel nord Italia. Lo stabilimento di Torino si trasferì su un'area di 6.000 mq coperti, tra Corso Regio Parco, Corso Firenze e Corso Palermo. Nonostante i successi dell'Augusta, specialmente all'estero, nel 1911, anno in cui morì l'amministratore delegato Lazzaro Levi, la Nebiolo ebbe una prima battuta d'arresto. Per rilanciare le vendite si propose il rinnovamento del prodotto, il potenziamento della pubblicità e la ricerca di nuovi mercati. Durante la prima guerra mondiale, sia l'Augusta sia la Nebiolo attraversarono un momento di crisi; venne avviato un piano di salvataggio industriale basato su misure finanziarie e riorganizzazione produttiva, con conseguente riduzione dell'organico. Nel 1918, le assemblee straordinarie di Nebiolo e Urania deliberarono la fusione tra le due aziende. Nell'autunno dello stesso anno venne sciolta l'Augusta. La nuova società fu denominata Fonderia di caratteri e Fabbrica di macchine Ditta Nebiolo & Comp.. row-2szz.2inr~zjze Raccolte di Palazzo Vertemate Franchi Piuro Via Cortinaccio, 1 La dimora risale alla seconda metà del XVI secolo, mentre vanno ricondotte al periodo tra l'ottavo decennio del '500 e l'inizio del secolo successivo buona parte delle decorazioni pittoriche ad affresco e gli arredi lignei fissi, come le ricche boiseries, i soffitti intagliati e le caratterisiche stufe monumentali in maiolica dipinta. Quasi tutti gli oggetti mobili che si possono ammirare nelle verie stanze, invece, non fanno parte dei beni originali del palazzo, dispersi nel corso dei secoli, ma furono acquistati nel corso del Novecento sul mercato antiquario. Letti a baldacchino, tavoli e scrittoi, lampade, busti in marmo, sculture lignee e tappeti, capitelli, mappamondi, tavoli da gioco, la riproduzione in scala di un galeone, strumenti e contenitori da farmacia sono alcune delle opere che oggi compongono la collezione, tutti oggetti d'epoca confacenti al gusto tardo rinascimentale e barocco. Quasi un centinaio sono poi le tele ad olio distribuite tra la villa e la vicina chiesa familiare di S. Maria Incoronata. La quadreria comprende innanzitutto i ritratti di vari esponenti della famiglia Vertemate vissuti tra XVI e XVIII secolo, in particolare quelli di Luigi e Guglielmo, fautori della fioritura artistica della residenza. Vi sono inoltre dipinti di tema religioso di scuola lombarda e di area veneta, esempi di pittura barocca meridionale e straniera, bozzetti e copie antiche di buona fattura, come quelle da Tiziano, Correggio, Parmigianino e dal Veronese. Sono presenti anche soggetti profani e vedute: fra queste le due grandi tele che mostrano il territorio di Piuro prima e dopo la frana che nel 1618 cancellò l'intero borgo, di non alta qualità ma di grande interesse documentario. Quando nel 1879 la famiglia Vertemate-Franchi si estinse, la proprietà e i beni che essa conservava, arredi mobili, opere e suppellettili, vennero via via degradandosi o furono dispersi nel tempo con vendite e alienazioni. Solo una minima parte di quello che doveva essere la ricchissima dotazione originaria del palazzo si è conservata; di questa fanno parte, fortunatamente, i raffinatissimi arredi lignei fissi, parte della quadreria che oggi è possibile ammirare lungo il percorso espositivo della casa-museo e l'arredo dell'oratorio privato dedicato a S. Maria Incoronata. Quando nel 1902 Napoleone Brianzi e la moglie Mina Arrigoni, noti antiquari di Milano, divennero proprietari della tenuta, l'edificio e le sue pertinenze versavano in pessime condizioni. Brianzi stesso scriveva: «Purtroppo delle ricchezze degli arredi non ci rimane che il lontano ricordo. Poco e tutto si lasciava andare in rovina - e molti segni di tale vandalismo si vedono su muraglie e pareti - tutto si spogliava, specialmente nella seconda metà del secolo XIX». I coniugi cominciarono allora ad acquistare sul mercato antiquario numerosi arredi di pregio, compresi i quadri che andarono ad aggiungersi alla collezione di ritratti della famiglia Vertemate che ancora sopravvivevano. Altri materiali giunsero a palazzo quando la proprietà passò ad Antonio Feltrinelli e Luigi Bonomi, nel 1937. Allo stato attuale il palazzo è completamente arredato con pezzi d'epoca, opportumamente scelti e inseriti nei vari ambienti, che hanno riportato la villa di delizie dei Vertemate all'antico splendore. row-cuaq_pxrv~62rq Motivi decorativi a volute e rosoncini Chiavenna Piazza don Pietro Bormetti, 3 L'opera conservata presso il Museo del Tesoro di Chiavenna è un prezioso calice in argento della fine del XVII secolo: presenta un piede a base circolare dal profilo morbido e bombato, traforato da sei rosoncini stellati tra una fitta trama di ricci e volute. Il nodo che decora il fusto presenta due rigonfiamenti con effetto a pera rovesciata, mentre il sottocoppa è costituito da sei petali lobati con motivi decorativi serrati, a contrasto con la superficie liscia della coppa vera e propria. La finissima filigrana con la quale è realizzato è simile a un merletto veneziano.Sotto il piede è incisa la scritta: PER LA CHIESA DI S. MARIA DI FONDO IL SIG. CARLO CROLLALANZA COME SIND.CO FECE FARE DA D. GIUSEPPE GAROTTI VEN.O IN CHIAVENNA L'AN:O 1690. Il calice fu ordinato dalla chiesa di S. Maria in Borgonuovo, il quartiere sorto fuori dalla più antica cinta muraria di Chiavenna. Fu pagato 304,15 lire milanesi, delle quali 140 offerte dal fabbriciere Carlo Crollalanza, cui vennero aggiunte altre 16 lire per il costo dell'astuccio, tuttora conservato. L'oggetto va messo in relazione con l'emigrazione a Venezia, area da cui certamente proviene stando all'analisi stilistica, indipendentemente dalla interpretazione della scritta "ven.o" (venuto o veneziano) presente sotto il piede. Il Crollalanza, almeno nella scelta dell'orafo Giuseppe Garotti, dovette affidarsi agli emigranti chiavennaschi, presenti a Venezia in numero consistente nel corso del XVII secolo. row-jzmh~zn9x_dxcg Collezione privata Luigi e Piero Lechi Montichiari Via Martiri della Libertà, 33 Le collezioni appartenute ai conti Luigi e Piero Lechi si compongono di circa 360 opere suddivise tra dipinti databili tra la fine del Quattrocento e la fine del Settecento, disegni e incisioni dal Cinque al Settecento e un servizio di porcellane da tavola di primo Ottocento. Nell'insieme i dipinti afferiscono a più categorie tematiche, tra le quali si individuano soggetti mitologici e religiosi, allegorie, ritratti, pittura di genere, battaglie, paesaggi e nature morte. Degno di particolare nota è il nucleo di dipinti legati alla pittura "della realtà" e alla ritrattistica di ambito lombardo, con opere di Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Giulio Campi, Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto e Antonio Cifrondi. Si annoverano, inoltre, notevoli esempi di pittura del Sei e Settecento lombardo, romano, napoletano e veneto realizzati da celebri artisti quali Giulio Cesare Procaccini, Giovanbattista Gaulli detto il Baciccio, Mattia Preti e Giovanbattista Pittoni. Di notevole pregio è la serie originale dei sedici fogli con i Dodici Apostoli, S. Paolo, Maria Vergine, Gesù Cristo e il Padre Eterno incisi su disegni di Giovan Battista Piazzetta. La raccolta rispecchia il gusto collezionistico dei due proprietari, discendenti di una nobile famiglia bresciana dedita al collezionismo di opere d'arte dai primi decenni del Settecento, lei stessa committente di alcune tra le opere più pregevoli oggi conservate dall'istituzione museale, tra cui il Ritratto di Maria Gertrude Lechi e il Ritratto dell'abate Angelo Lechi, di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto. Nel corso del XIX secolo alcuni capolavori arricchiscono la collezione per eredità da nobili casati bresciani, quali i Fenaroli Avogadro, i Polini e i Valotti. Un terzo e più consistente nucleo è il frutto di acquisti sul mercato antiquario nel tentativo, brillantemente riuscito, di ricostituire un'ideale raccolta artistica del Settecento lombardo. Le collezioni sono donate al Comune di Montichiari tra il 2005 e il 2008. row-6bbs~4v28.f3xh Elasticità Milano Piazza Duomo row-2f3x.3ubz.2duh testa umana e testa leonina Milano Piazza Castello row-47qc~nvxk_8wcx Le due madri Milano Via Palestro, 16 row-6zv3~5sb8_yq8q Chiavenna Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Una grande vetrina nella sala detta "stüa granda", al secondo piano del museo di Campodolcino, presenta la serie completa, in fogli sciolti montati per l'esposizione, della rara edizione delle stampe del volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga", edito a Milano intorno al 1824. Si tratta di 16 vedute dal vero eseguite dall'artista Friedrich Lose, sia per il disegno che per l'incisione, che raffigurano luoghi e panorami lungo il percorso che da Chiavenna porta a Coira attraverso il passo dello Spuga. Le stampe sono realizzate con la tecnica dell'acquatinta e vennero colorate a mano. Le tavole relative alla parte di percorso lungo la Val San Giacomo presentano vedute di Chiavenna, del santuario di Gallivaggio, della contrada delle Corti di Campodolcino, della cascata di Pianazzo, di una galleria paravalanghe ora non più esistente, della casa cantoniera di Teggiate e della dogana e dell'albergo a Montespluga. Intorno al 1824 Friedrich Lose elaborò per l'editore milanese Francesco Bernucca il volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga" dedicato alla strada carrozzabile dello Spluga, voluta dal governo austriaco e inaugurata pochi anni prima, nel 1822.Il "viaggio pittorico" o "viaggio pittoresco" era un tipo di pubblicazione molto diffuso nella prima metà dell'Ottocento, una via di mezzo tra la guida turistica e il libro d'arte. Nei volumi numerose tavole illustravano scorci e panorami dell'itinerario accompagnate da un commento descrittivo. Questo raffinato prodotto era rivolto a un pubblico d'élite, nobili e intellettuali, gli unici, all'epoca, che potevano permettersi di viaggiare per diletto. L'autore lavorava spesso a questi progetti con la moglie Caroline, anch'essa pittrice. Il connubio artistico fra i due vedeva solitamente Friedrich impegnato nel disegno dei paesaggi ad acquerello, mentre Caroline provvedeva all'incisione delle tavole in acquatinta e successivamente alla loro coloritura. row-6ppm~f9mh_gdte Collezione della Sezione di Fisica del Museo per la Storia dell'Università Pavia Corso Strada Nuova, 65 La collezione si compone di circa 800 strumenti conservati nel Gabinetto di Fisica di Alessandro Volta, inaugurato in occasione delle celebrazioni per il bicentenario dell'invenzione della pila il 20 marzo 1999, e nel Gabinetto di Fisica dell'Università che raccoglie gli strumenti ideati o acquistati dai successori di Volta alla cattedra di Fisica. Il Gabinetto voltiano, con una consistenza di circa 150 strumenti, costituisce una sorta di ricostruzione dell'antico laboratorio dello scienziato comasco, con due tavoli da lavoro appartenuti all'illustre fisico sui quali poggiano le sue invenzioni originali - l'elettroforo, la pistola elettrico-flogo-pneumatica, gli eudiometri, gli elettrometri, e una copia moderna della pila (le originali sono andate distrutte nell'incendio del 1899 all'esposizione a Como per le celebrazioni del centenario) - e gli strumenti acquistati o fatti costruire dallo scienziato, attivo a Pavia fino al 1819. Il Gabinetto di Fisica dell'Università, ospita circa 650 strumenti quasi tutti del XIX secolo, alcuni dei quali unici al mondo, raccolti dai successori di Volta, attivo sino al 1819, quali Giuseppe Belli e Giovanni Cantoni. Tra gli strumenti di Belli si segnalano il generatore elettrostatico ad induzione, che lui chiamò "ad attuazione" e il suo famoso duplicatore. Si tratta di una ricca raccolta di strumenti finalizzata alla didattica ed alla ricerca e divisa in sezioni: elettrologia e magnetismo (la più consistente), ottica, pneumatica, termologia, meccanica, geodesia, permette di osservare gli ambiti di ricerca e le attrezzature presenti in un gabinetto di fisica ottocentesco. Nello spazio espositivo si conserva anche una camera iperbarica di Carlo Forlanini, utilizzata per lo studio e la cura delle patologie polmonari. row-4vg2-n8w5.f65j Scena campestre con figure Milano Piazza Castello row-ydtf-usnq.6zmj Ritratto di un conte Martinengo Montichiari Via Martiri della Libertà, 33 Il dipinto, acquistato a Brescia nel 1974 dalla collezione Salvadego, presenta una buona conservazione pittorica, seppur guastata da piccole e isolate abrasioni documentate da fotografie di archivio relative al restauro che le ha recentemente ricomposte. L'assenza dei margini d'inchiodatura della prima tela lascia presupporre un'inquadratura originaria più ampia, che quantomeno doveva includere la mano sinistra dell'effigiato, oggi tagliata. I netti contorni di questo giovane uomo dallo sguardo docile avanzano sullo sfondo plumbeo acceso nell'angolo inferiore dal tappeto che riveste un tavolo d'appoggio. Un'occasionale riflettografia ha segnalato l'assenza di disegno preparatorio sul volto del giovane, a conferma del "modus operandi" del maestro bresciano che svolge liberamente la costruzione delle fattezze dei visi stendendo il colore in poche velature di incarnato sulla preparazione bruna. L'identificazione del ritratto con un membro della famiglia Martinengo si deduce ipoteticamente dalla provenienza Salvadego dell'opera, la cui casata entra in possesso nel 1861 del grande palazzo cittadino dei Martinengo del ramo "di Padernello", nonché dell'omonimo castello nella bassa pianura bresciana. Curiosamente passato pressoché inosservato alla moderna letteratura critica, l'opera è stata per lungo tempo attribuita a Girolamo Romanino, così come risulta in un inventario della quadreria Salvadego stilato da Antonio Boschetto nel 1968. La recente rimozione di una spessa vernice cerosa che opacizzava il dipinto ha sciolto gli indugi sulla piena autografia ad Alessandro Bonvicino detto il Moretto, ulteriormente confortata dal confronto con alcuni ritratti del celebre pittore bresciano eseguiti nel quinto decennio del Cinquecento, tra cui quello di Federico Martinengo presso il Museo civico di Abano Terme, la Dama in bianco della National Gallery di Washington e il ritratto di Fortunato Martinengo Cesaresco, oggi alla National Gallery di Londra. row-7ngz~armk-4xrx Pescarolo ed Uniti Via Mazzini, 73 Macchinario composto da una struttura lignea portante verticale a due alti montanti e due gambe d'appoggio, unite tra loro mediante l'incastro di quattro assi orizzontali a loro perpendicolari, e da un cerchio assicurato perpendicolarmente alla struttura. Alla parte superiore del cerchio sono fissati sedici rocchetti incannati con filo di seta, rotanti contemporaneamente attraverso un sistema di ingranaggi messi in moto da una manovella dal manico ligneo. Al di sopra dei rocchetti, assicurato alla struttura portante, vi è un altro cerchio ligneo munito di sedici ganci uncinati, ognuno corrispondente ad un rocchetto, per il passaggio dei singoli fili. Infine, in cima alla struttura montante vi è un aspo rotante a quattro bracci. L'oggetto, proveniente dall'area cremonese e risalente alla fine del XIX secolo, serviva per torcere o ritorcere il filo di seta. Il macchinario veniva caricato con sedici rocchetti incannati con filo di seta con torsione di tipo "S". Girando la manovella, si azionava il sistema di ingranaggi che consentiva la messa in moto rotatorio dei rocchetti, del cerchio munito di uncini e dell'aspo, procedendo così alla torcitura, trasportando il filo dai ganci uncinati all'aspo per la formazione della matassa.Dopo la torsione, le matasse di filo di seta venivano collocate in sacchetti e bollite in acqua saponata per eliminare la gomma naturale che poteva ostacolare la tintura. Venivano poi sciacquate in acqua pura e messe ad asciugare. Quelle di colore perlaceo venivano successivamente sbiancate con vapori di zolfo: così il filo bianco era pronto per la tessitura e la tintura. row-h7vk-4y26_6z8z Storie della Vergine e dell'infanzia di Cristo Castelseprio Fuori dall'antico tracciato delle mura di Castrum Sibrium (Castelseprio, Varese) sorge la piccola chiesa di Santa Maria foris portas, edificio ad aula unica con tre absidi disposte a trifoglio ed atrio rettangolare. Al suo interno, nella zona presbiteriale e absidale, si conserva uno straordinario ciclo di affreschi alto-medievali di datazione assai problematica. Le scene si susseguono su due registri sovrapposti su uno zoccolo dipinto, la cui lettura procede da sinistra a destra sulla fascia più alta e in senso opposto su quella bassa.L'insieme consta di due nuclei tematici che descrivono episodi tratti dalla vita della Vergine e dall'infanzia di Gesù, ispirati ai testi evangelici canonici e ai vangeli apocrifi, quei vangeli non ritenuti ufficiali dalla Chiesa. Secondo l'organizzazione spaziale studiata dagli artisti, il registro inferiore è composto dalle scene dell'Annunciazione, della Visitazione, della Prova delle acque amare, del Sogno di Giuseppe e dell'Andata a Betlemme. Nel registro superiore, invece, si possono ammirare gli affreschi raffiguranti la Natività con l'Annuncio ai pastori, l'Adorazione dei Magi (questa sulla controfacciata dell'arco trionfale dell'abside) e la Presentazione al tempio. A causa del pessimo stato di conservazione ulteriori tre scene non più decifrabili sul registro inferiore. Completano il ciclo tre clipei sopra le finestre dell'abside, dei quali solo quello centrale raffigurante il Cristo benedicente si è conservato.Nell'arco gli anonimi artisti eseguirono l'Etimasìa, allusione alla seconda venuta di Cristo.L'alto esito qualitativo denuncia un'ampia familiarità delle maestranze con la cultura antica, riscontrabile, in particolare, nell'equilibrio strutturale delle composizioni e nell'attenzione per il dato naturalistico e la resa dei volumi. Il ciclo di affreschi fu riscoperto nel maggio del 1944 dal noto storico e archeologo Gian Piero Bognetti. Sebbene analisi scientifiche su campioni di varia natura siano state condotte anche di recente (2012), l'unica datazione certa è l'anno 948, termine entro il quale gli affreschi furono certamente conclusi. Tale data è suggerita da alcuni graffiti incisi sullo zoccolo, insieme ad altre iscrizioni meno determinanti, sotto ad un'intonacatura del XV secolo che fanno riferimento ad Arderico, generalmente riconosciuto nell'arcivescovo di Milano (936-948). Dal momento del rinvenimento sono state avanzate ipotesi di datazione discordanti. Queste si fondano, per lo più, su considerazioni di ordine stilistico tutte basate sul riscontro dei medesimi caratteri ellenistici, di volta in volta applicati a differenti ambiti cronologici. Le molte proposte avanzate, dalla fine del VI alla prima metà del X secolo, ruotano attorno alla diversa valutazione delle pitture come una estrema sopravvivenza della cultura antica o, in alternativa, come la prova di una sua consapevole e più tarda riscoperta. Gli esami scientifici più recenti, anche se non del tutto risolutivi, sembrerebbero supportare la seconda ipotesi spingendo la datazione verso il X secolo, ipotesi già formulata nel 1951 ma sinora poco accreditata. Anche l'origine effettiva delle maestranze resta una questione irrisolta: sebbene una provenienza da Costantinopoli non sia del tutto dimostrabile, il riferimento generale all'area dell'Oriente cristiano è unanimemente accettato, aspetto che permette di definire il ciclo come una rarissima testimonianza di pittura "bizantina" in Lombardia, il cui valore ha contribuito nel 2011 all'inserimento del sito nel patrimonio Mondiale dell'UNESCO. row-3jpu-v3de~gxgv Camera delle Imprese Mantova Viale Te, 13 Proseguendo il percorso di visita a Palazzo Te, dalla Camera di Ovidio si accede alla Camera della Imprese, analoga alla precedente nell'impostazione dello spazio e delle decorazioni alle pareti. Sempre ideata da Giulio Romano, l'ambiente prende il nome dal soggetto principale del fregio: un'antologia di quindici imprese appartenenti a Federico II Gonzaga e alla sua famiglia. Al bisnonno Ludovico II, nel caso degli emblemi del guanto e della torre, e al padre Francesco II relativamente alle divise del crogiolo e della museruola. Le imprese personali di Federico, riprese con insistente frequenza anche in altre sale del palazzo, sono, per quanto concerne la sfera privata, la salamandra e il boschetto, mentre il Monte Olimpo si riferisce al versante ufficiale della sua vita. Figure di putti, che indossano perizomi di foglie e collane di viticci, si alternano ai cartigli che contengono le imprese gonzaghesche. Nei quattro angoli della camera i putti sono raffigurati a coppie, abbracciati. Sotto le imprese una serie di maschere dalle smorfie irrispettose appaiono tra i girali vegetali. Spicca al centro del fregio della parete Sud lo stemma delle quattro aquile della famiglia Gonzaga. Nata nel Medioevo, l'usanza di ricorrere alle imprese si diffuse durante il Rinascimento, proseguendo poi nel Seicento e nel Settecento. Essa poteva essere tramandata di padre in figlio o donata a persone fidate e veniva utilizzata per esprimere, attraverso simboli e frasi, un desiderio, un proposito o un modo d'agire, oppure per riferirsi a vicende storiche o a segreti amorosi rappresentati in modo enigmatico. Il letterato Paolo Giovio, infatti, affermava che l'impresa non deve mostrarsi troppo esplicita da essere intesa da tutti, né del tutto oscura. Nobili, uomini d'arme, prelati, letterati, dame potevano creare ed esibire le proprie imprese, che non vanno quindi confuse con lo stemma araldico, composto per concessione sovrana e legato al casato.Grazie all'iscrizione dedicatoria incisa sul camino in marmo rosato, F<edericus> II M<archio> M<antuae> V, è possibile datare la decorazione di questo ambiente a prima del 1530, anno in cui il committente della villa venne nominato duca. Sulla cappa un medaglione include l'impresa della salamandra, emblema personale di Federico II. row-dg7d.2iah~nn99 Lampdog Briosco Via Col del Frejus, 3 Scultura costituita da un profilo metallico modellato a costruire la struttura di un cane gigante tridimensionale, all'interno del quale sono posizionate in corrispondenza degli organi interni dell'animale, lampade di varie fogge e dimensioni. L'opera è alta complessivamente 2,50 metri. L'opera, realizzata nel 2000 in 9 differenti esemplari dall'artista Dennis Oppenheim, appartiene alla collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini: l'artista tedesco conobbe l'imprenditore e collezionista brianzolo Alberto Rossini nel 1997, quando si trovava in Italia per la realizzazione di una personale negli spazi dello stabilimento SIV-Pilkington di Marghera, durante la 47° Biennale di Venezia. Rossini rimase folgorato dall'artista e gli propose di lavorare insieme alla progettazione e realizzazione di una serie di pezzi di grandi dimensioni per il proprio Parco di sculture a Briosco, impiegando le attrezzature e le risorse dell'azienda di famiglia, la Ranger Italiana S.p.A. Oppenheim realizzò quindi presso le officine dell'industriale le nove versioni della "Lampdog", una struttura fatta da un esile filamento ferroso che riproduce la sagoma tridimensionale di un cane, all'interno del quale sono inserite varie tipologie di lampade, tutte acquistate presso mercati, antiquari e rigattieri, che simbolicamente prendono il posto degli organi interni dell'animale. Delle nove opere prodotte, quattro vennero donate a Rossini, tre rimasero all'artista e due furono vendute ad un collezionista privato. Dopo una partenza artistica legata alle esperienza della Land Art e della Body Art, Oppenheim passò alla creazione di elementi instabili e precari, disegnati con un tondino di ferro che sembra ingabbiare lo spazio e che spesso contiene al suo interno diversi materiali, dai più deperibili come erbe o piante, a oggetti dal gusto volontariamente kitsch, quali le lampade di fogge differenti utilizzate in questo caso. Quella dell'artista tedesco è una scultura fatta di pochissima materia, che addirittura diventa evanescente una volta che le luci vengono accese: l'energia elettrica che percorre il cane si indentifica, in un certo senso, con l'energia mentale degli uomini, che danno vita e senso ad un mondo in via di generale deterioramento. Nello stesso tempo Oppenheim mette in atto una sorta di decontestualizzazione dell'oggetto comune - la lampada che diventa organo animale - che risulta vagamente surreale e contribuisce a dargli una nuova funzione per certi versi ludica ed ironica. row-sivw.j8xz_c94t Resurrezione di Cristo, Annunciazione, Santi e apostoli, Dio Padre tra angeli Milano Piazza Castello La Cappella Ducale costituisce ancora oggi uno degli ambienti interni del Castello Sforzesco che meglio ha mantenuto traccia dell'immagine di sfarzo che il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza voleva trasmettere alla propria corte. Fulcro della composizione è la figura di Cristo risorto avvolto in una mandorla in rilievo dorata e circondato da angeli che campeggia al centro della volta; ai suoi piedi, inseriti a forza nello spazio limitato tra i peducci, sono dipinti il sarcofago sigillato circondato dalle guardie, appena svegliatesi e stupefatte di fronte all'apparizione divina. Accanto a Gesù, sull'altra metà della copertura, si colloca l'immagine di Dio Padre entro un tondo di cherubini, circondato da schiere angeliche. E' probabile che in origine questa seconda immagine fosse stata pensata come centro del soffitto, mentre Cristo doveva essere collocato sulla lunetta centrale della parete nord, tuttavia gli artisti decisero alla fine di spostare entrambe le immagini sacre sulla volta e di decorare il centro della parete settentrionale con una Madonna col Bambino (ad oggi occupata da una scultura rinascimentale di medesimo soggetto). Nelle altre due lunette laterali della parete settentrionale è raffigurata l'Annunciazione. Sulla sinistra della scena appare, infatti, l'Arcangelo Gabriele, avvolto da un ampio panneggio rosato, con la mano destra sollevata in avanti e il giglio sorretto tra le dita della mano sinistra, mentre sulla destra è dipinta Maria, inginocchiata con le mani incrociate sul petto all'interno di un'ampia struttura architettonica lignea, che comprende una seduta alle sue spalle e un leggio davanti a lei.Le volte delle lunette delle due pareti laterali sono invece decorate con raffinate ghirlande che racchiudono stemmi e insegne araldiche, al di sotto delle quali si sviluppa una teoria di Santi, purtroppo ad oggi molto lacunosa. Si riconoscono da sinistra: un santo martire, Santa Chiara, San Pietro Martire, Sant'Alberto da Trapani, due figure quasi scomparse, un santo monaco (Sant'Egidio?), un santo martire, Santa Caterina da Siena e Sant'Antonio Abate. Sulla parete settentrionale, dove doveva collocarsi l'altare, la processione continua con San Michele Arcangelo, Sant'Ambrogio, San Giovanni Battista, San Bernardo da Chiaravalle, Sant'Agostino e San Giorgio. Sulla parete orientale sono invece raffigurati San Gerolamo, un santo frate (Sant'Antonio da Padova?), Santo Stefano, San Lorenzo e San Pietro. Difficilmente leggibile risulta attualmente l'effetto prospettico ottenuto dal piano in finto marmo su cui poggiano i santi, completato dalla balaustra il cui motivo decorativo è quasi completamente svanito. Gli sfondi su cui si stagliano le immagini appaiono oggi rivestiti in stucco dorato sul quale è stato impresso con una matrice un disegno geometrico polilobato all'interno del quale è racchiuso un raggiante: tale decorazione è frutto di un restauro moderno, che andò a coprire l'originale fondale dipinto di blu con solo le cornici e le stelle dorate. Anche il pesante fregio con motivi vegetali "a palmetta" che corre sopra la cornice a dentelli e sotto l'imposta dei capitelli è riferibile al medesimo intervento. Tale decorazione fu appositamente commissionata utilizzando un'opera conservata ai Musei Civici per coprire una precedente fascia con motivo a girali. L'opera, commissionata da Galeazzo Maria Sforza, costituisce l'unica decorazione sacra superstite all'interno delle due principali dimore sforzesche, il Castello di Milano e quello di Pavia. Nel 1467 infatti, il duca aveva trasferito la sua dimora presso l'allora Castello di Porta Giovia, trasformando l'antica fortezza in una lussuosa residenza. La Cappella Ducale, costruita dall'architetto toscano Benedetto Ferrini entro il 1472, rientrò in questo programma di riqualificazione sebbene oggi sia molto difficile identificare l'originaria struttura architettonica a causa dei numerosi rimaneggiamenti subiti nel corso dei secoli. Ricerche documentarie hanno portato a pensare che originariamente l'attuale ambiente della Cappella fosse un tutt'uno con l'attigua "Sala Verde", entrambe coperte da un'unica volta a padiglione e separate da un tramezzo che non raggiungeva la volta (l'attuale muro di fondo è opera di un restauro novecentesco), così da permettere ai fedeli di seguire le funzioni religiose pur nel rispetto dello spazio privato del duca. Resta ancora da capire come la decorazione affrescata nel luogo sacro potesse raccordarsi ai motivi araldici presenti nella "Sala Verde".Incerta è anche la paternità del ciclo pittorico, eseguito in meno di cinque mesi a partire dal marzo 1473 e il cui programma iconografico fu elaborato con la consulenza di un religioso, forse da identificare con Paolo da San Genesio, confessore del duca. Nelle lettere e nelle note di pagamento ducali si menzionano tre artisti che probabilmente si associarono in consorzio per realizzare l'opera in tempi brevi e con costi relativamente bassi: il più anziano Bonifacio Bembo, già noto alla committenza sforzesca per aver lavorato nel Castello di Pavia, il poco noto Giacomino Vismara e il più giovane Stefano de' Fedeli. La loro collaborazione parrebbe testimoniata dallo scambio di cartoni preparatori e modelli, evidente nell'uniforme tipologia degli angeli e nei dettagli dei panneggi delle figure di santi. Durante la breve signoria di Francesco Sforza (1521-1535) la "schola cantorum" della "Cappella Palatina" risulta già in graduale declino, a favore di quella presente in Duomo, mentre nel corso del XVI secolo si perdono notizie del luogo. Con il XVII secolo alcune testimonianze documentarie descrivono la cappella come un ambiente frequentato da una comunità civile e dal presidio militare e ne illustrano i lavori di trasformazioni effettuati all'interno. Nel 1661 fu demolita la primitiva parete divisoria e venne modificata la forma della porta d'ingresso. A quella da, oltre all'altare maggiore, di cui è ignota la collocazione, viene segnalata la presenza di altri due altari, forse disposti sui lati maggior. Nel XVIII secolo il luogo di culto, dedicato al Santissimo Sacramento, viene descritto come una vera e propria chiesa che si estendeva ben oltre l'attuale Cappella Ducale, con una distinta sagrestia nella sala attigua, oggi detta dei Ducali. Allo stesso periodo risalgono anche notizie sull'inserimento in essa di tombe e opere commemorative. Tali arredi possono considerarsi l'ultima aggiunta prima della dismissione della chiesa del 1859 e la sua riconversione ad uso ospedaliero.Il ciclo affrescato presente in Cappella sarà liberato dallo scialbo tra l'ottobre e il novembre del 1893 da Paul Müller-Walde con l'aiuto del restauratore Oreste Silvestri, per poi divenire oggetto di un lungo e intermittente restauro portato avanti fino al 1924. Nonostante la creazione di un apposito comitato per la direzione dei lavori, tale intervento si rivelò pesantemente arbitrario: oltre alla ricostruzione della parete meridionale con due aperture laterali, si operarono rifacimenti della pellicola pittorica e della superficie dorata e nelle vele delle lunette furono addirittura inseriti ex-novo due angeli simili ai quattro che circondano il Cristo in mandorla. Tali ridipinture vennero parzialmente rimosse da Ottemi della Rotta in una seconda campagna di intervento nel 1956. row-n4ah_seqc~g5vx Natività di Gesù con San Sebastiano Morbegno Piazza S. Antonio A seguito di un consistente restauro, è oggi possibile passeggiare fra le arcate del primo chiostro dell¿ex complesso conventuale di S. Antonio e ammirare sulle pareti le numerose immagini affrescate, in buona parte risalenti al XVII secolo, che narrano la vita di san Domenico. Poco rimane invece della prima fase decorativa risalente al Cinquecento, cui appartiene la tenera scena familiare della "Natività di Gesù con San Sebastiano", posta alla destra dell'ingresso che conduce alla chiesa. In primo piano è raffigurata Maria inginocchiata che guarda il Bambino accudito da due angioletti, alle loro spalle sono san Sebastiano trafitto dalle frecce - suo attributo iconografico -, san Giuseppe e, in secondo piano, il bue e l'asino. Nella parte alta del dipinto si riconoscono le rovine di un'architettura all¿antica e sullo sfondo un paesaggio collinare e montuoso al tramonto, mentre nel cielo si scorge, lontanissimo, un angelo che annuncia la nascita di Gesù a due pastori. Il dipinto è attribuito al bresciano Vincenzo de' Berberis, artista documentato presso il cantiere della chiesa conventuale di Morbegno dagli anni venti del Cinquecento, quando lavora con Bernardino Donati agli affreschi con "Storie di Sant'Antonio Abate" e probabilmente anche nella cappella intitolata a san Martino. Dopo la formazione in ambito milanese, il pittore è presente con continuità in Valtellina, dove si aggiorna sui modi di Gaudenzio Ferrari e Bernardino Luini. row-cgvm-ffbc.jup3 Noli me tangere Busto Arsizio Piazza Vittorio Emanuele II, 2 L'opera è pervenuta al Museo con l'attribuzione a Giuseppe Nuvolone, ma con un titolo diverso "Cristo e la Samaritana al pozzo", intestazione non condivisibile a causa dei segni dei chiodi nelle mani del Cristo. L'opera sarebbe stata tagliata e risulterebbe mutila della sua parte inferiore, prima del suo ingresso in museo. L'attribuzione al Nuvolone è stata confermata dalla Soprintendenza ai Beni artistici di Brera e da Filippo Maria Ferro, cui si deve un dettagliato studio sull'intera famiglia Nuvolone. La scena, disposta su una tela a sviluppo orizzontale, ha un taglio ravvicinato, le figure infatti sono ritratte in primo piano e tagliate appena sotto il busto. La Maddalena, in veste rossa con ampie maniche panneggiate coperte da un velo che scopre i capelli rossi, è disposta sulla sinistra, leggermente genuflessa, con lo sguardo rivolto verso il Cristo risorto, la mano destra al petto e il volto che esprime stupore e venerazione. Il Cristo sulla destra è ritto in piedi, avvolto in una veste bianca coperta dal mantello azzurro, ha il braccio destro teso verso la Maddalena e con la mano sinistra regge il bastone al quale si appoggia. Nelle mani sono riconoscibili i segni della Passione. Il fondale paesaggistico è poco definito, il cielo è buio. row-r7m3~4ify-yb7f Collezione dipinti Museo Morando Bolognini Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 Realizzato nei primi decenni del Novecento, il Museo apre al pubblico 24 saloni riccamente arredati secondo lo stile di "Casa-Museo", offrendo al visitatore la possibilità di rivivere antiche e suggestive atmosfere. Si possono ammirare i dipinti lungo tutto il percorso di visita. I dipinti sono circa un centinaio che coprono un vasto arco di tempo, dal 1500 al 1700, spesso incentrati sulla celebrazione della famiglia Bolognini. Al Museo si accede dall'atrio dell'ala di levante che introduce le sale di rappresentanza del Castello, caratterizzate da alti soffitti a volta, decori alle pareti e arredamento austero. Si passa poi alla Sala del ricevimento, un tempo destinata agli ospiti del castello, la Sala del Trono dove un'itera parete raffigura l'albero genealogico del casato, la Sala degli Antenati con i ritratti della famiglia, la biblioteca, la Sala del Polittico, la cappella privata, la Sala della tessitura e la cucina. I dipinti si dispongono lungo tutto il percorso espositivo del Castello e testimoniano la grande passione della famiglia Bolognini per il collezionismo.Dell'importante colelzione originaria, una prima parte viene donata nel 1865 al Comune di Milano per costituire il nucleo primitivo delle "Raccolte civiche d'Arte del Castello Sforzesco", mentre quanto rimaneva costituiva l'attuale Museo Morando Bolognini dal 1933. Degni di nota sono: nella Saletta del ricevimento, due grandi quadri mitologici di manifattura lombarda; Sala del trono, i ritratti della famiglia che si ritrovano anche nella Sala degli Antenati; Saletta del Polittico, il polittico ricomposto con parti di diversa fattura e datazione; Cappella, un dipinto con la "Consegna delle tavole a Mosè" di scuola lombardo-emilina della prima metà del XVII secolo. row-echm~sqzu-g6n2 Cristo risorto, Profeti, Apostoli, Angeli, Incoronazione della Vergine Lodi Via Cavour, 31 Il grande tabernacolo poggia con un piede mistilineo con doppio gradino, il primo ritmato da mascheroni, il secondo con specchiature includenti scene smaltate: la Lavanda dei piedi, Ultima Cena, Orazione dell'orto, Cattura di Cristo, Salita al Calvario, Crocifissione, intercalate da busti di Profeti ad altorilievo. Gli smalti proseguono verso il fusto (con Profeti e paesaggi), scorrendo sotto cornucopie d'argento dalle quali escono busti di angeli musicanti. Le facce del nodo esagonale ospitano riquadri con Profeti eseguiti a rilievo. Sul cornicione corrono sei putti a tutto tondo, con cornucopia conclusa da una sferetta di corallo e scudi rossi. Smaltate sono anche le sei volute che raccordano il fusto alla teca, dalle quali pendono festoni in argento e corallo. Il sotto-teca presenta sei scudi e dietro vi sono sei vescovi. Il tempietto esagonale reca aperture a tutto sesto delimitate da paraste su cui si stagliano le statuette a tutto tondo degli Apostoli, le altre sono sopra il cornicione. La cupola ha motivi vegetali sbalzati e la raffigurazione di santi e vescovi nei medaglioni, tra cui si riconosce San Bassiano. Nella lanterna è posta la rappresentazione a tutto tondo dell'Incoronazione della Vergine e sul cupolino Cristo risorto, ornato di delfini, opera di rifacimento. Donato dal vescovo Carlo Pallavicino (1456-1497) alla cattedrale di Lodi, questo straordinario capolavoro orafo si inserisce, secondo Paola Venturelli, entro la concezione fortemente lombarda di architettura ornata e scolpita, con un gusto per il colore e della decorazione che strutturano la materia e la modellano rendendo difficilmente scindibile l'apporto plastico da quello architettonico e coloristico, in un orientamento generale che punta alle facciate della cappella Colleoni di Bergamo e alla Certosa di Pavia. Il tempietto a pianta centrale sembra tenere conto dell'interno della chiesa dell'Incoronata di Lodi, sorta a partire dal 1488 su disegno di Giovanni Battaggio per volere dello stesso Pallavicino. Per quanto riguarda le statuette a tutto tondo d'argento con gli Apostoli, dall'acuto patetismo e dagli esiti spezzati e nervosi dei panneggi degli abiti, così come per i Profeti ad altorilievo, confermano l'orientamento verso i Mantegazza, mentre per gli smalti con la Passione di Cristo è visibile un'influenza di Giovan Pietro Birago della fase giovale rappresentata dai corali del duomo di Brescia. Gli smalti dei Profeti illustrano, invece, un orientamento padovano-ferrarese con riferimenti sia all'arte dei Mantegazza sia a quella di Butinone della tavoletta centrale della Crocifissione del Polittico di Treviglio. row-z7qg-id75_qb85 Crema Piazzetta Winifred Terni De Gregory, 5 Sopraveste in seta di colore bianco, composta dal fronte e dal retro uniti mediante cucitura e due fiocchi laterali in fettuccia, con mezze maniche e collo a barchetta impreziositi ai bordi da fettucce color oro e da frange. Al centro sia del fronte che del retro è ricamato un grande stemma gentilizio. Lo stemma, impreziosito dall'inserto di sottili lamine color celeste e porpora, raffigura un'aquila bicipite incoronata sovrastante lo stemma della Città di Crema, formato da uno scudo rosso e bianco sormontato da una corona marchionale e recante al centro due corna di cervo e impugnante una spada d'argento con elsa d'oro. La livrea veniva indossata sopra gli abiti dell'araldo del Comune di Crema durante le cerimonie pubbliche nel corso del domonio asburgico (1815-1859). Nel 1815, dopo la dissoluzione dell'impero napoleonico, Crema divenne parte del Regno Lombardo-Veneto, dipendente dall'Impero d'Austria. In questo periodo riprese lo status di capoluogo della Provincia di Lodi e Crema. row-5i6w~4vhc.ztg6 Madonna annunciata Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Il pregevole grande piatto 'da pompa', rientra nella tipologia di ceramiche da parata, quindi non da tavola, graffite, a monocromo, di grande formato e in prevalenza di colore bruno, eseguita nella seconda metà del XVII secolo dal Antonio Maria Cuzio, protonotario apostolico della Cattedrale di Pavia. La produzione di Antonio Maria è realizzata per essere donata a membri della famiglia o ad amici, in particolari ricorrenze dell'anno, reca spesso il nome del destinatario, brevi motti o proverbi e sovente la data graffita che assicura l'esatta cronologia d'esecuzione. Questo grande piatto istoriato, in particolare, ha graffito il nome Giovanni Brizio Cuzio, canonico della Cattedrale e fratello di Antonio Maria, e la data 25 marzo 1677. Al centro l'episodio dell'Annunciazione: l'Arcangelo Gabriele in piedi su una nuvola con un giglio in mano, sta scendendo dal cielo verso Maria, inginocchiata e con le mani al petto, in alto la colomba dello Spirito Santo con un fascio di luce che investe il capo della Vergine. Sul manufatto compare anche lo stemma araldico di Antonio Maria, molto simile a quello della nobile famiglia Cucchi, preso a modello dal Cuzio, per omonimia, quando diviene protonotario del Capitolo della Cattedrale di Pavia. I sacerdoti pavesi quando venivano chiamati a ricoprire cariche nel Capitolo, usavano infatti far delineare un loro proprio stemma gentilizio, se non ne possedevano uno, scelto per affinità o per omonimia.A partire dall'Ottocento la critica ha dibattuto a lungo sull'esistenza o meno di una fornace Cuzio: alcuni studiosi ritenevano la produzione di maioliche Cuzio un fatto isolato e dilettantistico, pur avendo raggiunto pregevoli livelli qualitativi, altri sostenevano che il nome Cuzio (esistono tre componenti della famiglia: Giovanni Antonio Barnaba, Giovanni Brizio e Antonio Maria) dovesse essere aggiunto a quello dei fabbricanti pavesi di maioliche della seconda metà del XVII sec. La critica recente sostiene che solo Antonio Maria realizza ceramiche (infatti unicamente i suoi piatti recano l'iscrizione "fecit"), si tratta quindi di un fenomeno di tipo amatoriale, un passatempo, eseguito per diletto presso una qualche fornace attiva in città. A Pavia e in Borgo Ticino, infatti, sono documentate numerose fornaci, sia di laterizi che di maiolica, il cui sviluppo è favorito dalla presenza in grande abbondanza sul territorio della materia prima, l'argilla. Il piatto, con altri due simili, proviene della collezione di Camillo Brambilla, aristocratico pavese, esperto di storia antica, collezionista di numismatica e di ceramica, autore del libro "Antonio Maria Cuzio e la ceramica in Pavia " che nel 1891 cede la sua ricca raccolta al Civico Museo di Storia Patria. row-ypps-7awz-uxc3 Collezione di dipinti della Pinacoteca del Castello Sforzesco Milano Piazza Castello Il patrimonio della Pinacoteca comprende oltre millecinquecento dipinti, di arte italiana e fiamminga, dal XV al XVIII secolo. Secondo l'impronta data dai primi nuclei collezionistici le opere sono prevalentemente di ambito veneto, lombardo e fiammingo. La pittura lombarda è rappresentata dai dipinti di Bonifacio Bembo, Vincenzo Foppa, Giovan Battista Moroni, il Cerano, il Morazzone, Daniele Crespi, Francesco Cairo e Giacomo Ceruti. Il Rinascimento veneto è documentato dalla presenza di dipinti di Carlo Crivelli, Lorenzo Lotto, Giovanni Bellini, Tiziano eTintoretto e dai vedutisti Canaletto, Francesco Guardi e Bernardo Bellotto. Due sale accolgono i grandi Maestri dell'arte Italiana: Filippo Lippi, Antonello da Messina, Andrea Mantegna, Correggio, Bronzino. Le collezioni della Pincoteca si costituiscono a partire dal 1861, con il succedersi di numerosi legati e donazioni. Tra i primi, ricordiamo il legato di Antonio Guasconi del 1863 comprendente centosessantatre dipinti, dei quali solo una cinquantina vengono accettati sulla base delle perizie effettuate. Nel 1865 il conte Gian Giacomo Attendolo Bolognini destina alla città le proprie raccolte, nelle quali erano confluite le opere acquistate dai fratelli Alberico e Pio Attendolo, a Milano e all'estero, nella prima metà dell'Ottocento. La raccolta comprende circa duecento quadri antichi e quaranta moderni, disegni, sculture e oggetti d'arte; tra le opere più significative della collezione la "Madonna" del Correggio. Del 1876 è la collezione Malachia De Cristoforis, con trentotto quadri e oltre duecento oggetti d'arte, che annovera, tra i pezzi più importanti, il "Ritratto di giovinetto con libro" di Lorenzo Lotto. Negli stessi anni vengono recuperate le tele seicentesche della sala del Tribunale della Provvisione di Milano, che vanno ad arricchire la sezione del Seicento della raccolta. Cospicua è anche la collezione Tanzi Dell'Acqua del 1881, cui segue, nello stesso anno, la collezione De Bernardi. La Pinacoteca si propone come luogo di custodia di affreschi staccati da edifici o chiese cittadine sottoposti a demolizione, tra questi i cicli li S. Maria del Giardino, del monastero di S. Orsola, di casa Atellani, del convento delle Grazie di Monza. Prezioso è il dono della contessa Josèphine Melzi d'Eril Barbò, il Polittico di Cesare da Sesto, affidato alla Pinacoteca nel 1914. Nel 1935 viene realizzato l'acquisto della collezione Trivulzio, comprendente opere fondamentali per la raccolta, con autori come Filippo Lippi, Andrea Mantegna, Giavanni Bellini, Tiziano, Bronzino. Negli anni cinquanta vengono acquistate la lunetta di Bergognone, il "Cristo Morto" del Cairo", le due "Burrasche" del Magnasco e la "Filatrice" di Ceruti. Un anno importante è il 1995 quando Regione Lombardia acquista e deposita presso la Pinacoteca la tavola con "San Benedetto" di Antonello da Messina. Nello stesso anno vengono acquistate due pregevoli vedute di Venezia del Canaletto. Tra le ultime acquisizioni si annovera la "Madonna", già attribuita a Leonardo, donata dall'ingegner Lia nel 2005. row-dv7n-vsfd.m6kh Madonna con Bambino e Santi Castiglione Olona Via Cardinal Branda La lunetta, inserita nella strombatura del portale centrale della Collegiata di Castiglione Olona, è realizzata in marmo chiaro, in netto contrasto con il paramento murario in cotto dell'edificio. il monumentale altorilievo raffigura al centro la Madonna in trono con in braccio il Bambino: il piccolo Gesù, in piedi sulle ginocchia di Maria, si sporge verso la sinistra della composizione alzando la mano destra in gesto benedicente. Ai suoi piedi, inginocchiato con le mani giunte in preghiera, appare il cardinale Branda Castiglioni, che viene presentato alla Sacra Famiglia da San Lorenzo, il quale poggia le sue mani sulle spalle del cardinale. Tra Branda e il Bambino, alla destra della Vergine, si colloca anche la figura di San Clemente, in piedi con in mano un libro. Sull'altro lato di Maria invece, alla sua sinistra, appaiono Sant'Ambrogio, in piedi, riconoscibile perché regge tra le mani un libro e lo staffile, suo caratteristico attributo, e Santo Stefano, inginocchiato a terra con le mani incrociate sul petto.La lunetta poggia su un basamento diviso in quattro riquadri decorati a rilievo con la raffigurazione del Tetramorfo, ovvero dei quattro simboli degli Evangelisti: da sinistra verso destra appaiono qui l'angelo di San Matteo, l'aquila di San Giovanni, il leone di San Marco e il toro di San Luca. Tutte e quattro le figure hanno corpi umani e ali spiegate e vengono rappresentate in posizione frontale mentre reggono tra le mani il relativo libro del Vangelo aperto. L'opera fa parte del ricchissimo patrimonio scultoreo distribuito tra le chiese e i palazzi del borgo di Castiglione Olona, la cui trasformazione e decorazione fu fortemente voluta dal cardinale Branda Castiglioni dalla fine del terzo decennio del XV secolo fino alla sua morte nel 1443. I lavori promossi dal cardinale presero avvio dalla costruzione della Collegiata intitolata ai SS. Stefano e Lorenzo, la cui fabbrica venne affidata ad alcuni architetti che avevano lavorato per il Duomo di Milano alla fine del Trecento e a maestri scultori locali. Intorno al secondo decennio del XV secolo fece però la sua comparsa nel cantiere della Collegiata una bottega di scultori non più improntati sul gusto tipicamente cortese del Gotico internazionale, bensì attenti ad una resa più accentuata della consistenza plastica e chiaroscurale. A questi anonimi artisti, chiamati "Maestri caronesi", viene fatta risalire l'esecuzione del rilievo della lunetta del portale centrale della Collegiata, datata 1428. Il caratteristico ovale bombato delle testi dei personaggi, i loro grandi occhi sgranati, le barbe e i capelli ricchi di ciocche scompigliate, così come i panneggi solcati da pieghe nitide e profonde diventeranno una costante di tutta la scultura castiglionese successiva la realizzazione di quest'opera, da cui il certo apprezzamento del cardinal Branda nei confronti dell'operato di questi scultori. row-y2uz.cq8i_si5u Collezione del Museo Didattico della Seta di Como Como Via Castelnuovo, 9 Le raccolte del Museo didattico della seta comprendono circa 400 tra macchinari e strumenti di lavoro del XIX e XX secolo provenienti da numerose aziende tessili attive nel territorio di Como nel corso del Novecento. Il percorso espositivo illustra l'intero processo di lavorazione della seta, a partire dall'allevamento del baco e alla produzione del filato, per giungere fino ai vari tipi di tessitura, tintura e stampa del prodotto finito. Accanto alle macchine tessili e agli strumenti di lavoro il museo conserva anche fotografie, libri e documenti tecnici, disegni per tessuto e campionari tessili per abbigliamento e arredamento, confluiti nella collezione grazie a donazioni di aziende del territorio e di privati cittadini. Il primo nucleo delle collezioni di quello che nel 1990 sarà inaugurato come Museo Didattico della Seta si formano all'inizio degli anni Ottanta, con l'acquisizione dei macchinari e degli strumenti di lavoro resi disponibili dalla chiusura della Tintoria Pessina di Como, attiva a partire dal 1904. A questo nucleo si aggiunsero rapidamente altri materiali donati da aziende tessili del territorio comasco o da privati cittadini, consentendo di ampliare la tipologia di oggetti esposti nel percorso del museo. row-tt2g-ryct~zzvs Pinacoteca del Seicento e Settecento Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Il percorso espositivo, che segue un ordinamento basato sugli ambiti geografici di pertinenza, con una selezione di 90 opere, è aperto da alcuni quadri di grandi dimensioni di Camillo Procaccini e di Carlo Francesco Nuvolone in deposito da Brera e uno di Daniele Crespi, proveniente dalla cappella del vecchio Ospedale San Matteo.Numerosi gli esempi di pittura del XVII secolo di varia provenienza e di maestri del calibro di Francesco Cairo, del Morazzone, di Jan Van Kessel e di Jacques Hupin, ma anche di artisti lombardi quali Federico Bianchi, Filippo Abbiati, Antonio Busca, Andrea Lanzani. Degni di nota due straordinari bozzetti a monocromo del genovese Alessandro Magnasco e due oli del romano Pompeo Batoni.La pittura veneziana del XVIII secolo è rappresentata da Gregorio Lazzarini, Antonio Zanchi e da Giandomenico Tiepolo con due autentici capolavori: 'Testa di vecchio' e 'Testa di orientale'.Notevoli due oli con soggetti omerici del cremonese Giuseppe Bottani, le composizioni agresti del più noto pittore del genere del secondo Settecento lombardo, Francesco Londonio e la 'Casta Susanna' del romano Pompeo Batoni.Concludono la sezione alcune opere provenienti dalla spoliazione di chiese pavesi, quali un affresco del pavese Carlo Antonio Bianchi e due scenografiche pale d'altare del varesino Pietro Antonio Magatti, che testimoniano l'alta qualità dell'arte barocchetta in città. La sezione accoglie circa 300 dipinti di notevole qualità artistica, acquisiti prevalentemente attraverso collezionisti privati, primo tra tutti Luigi Malaspina di Sannazzaro, quindi Giovanni Alessandro Brambilla e Giuseppe Radlinski, G.C. Francesco Reale. Deve esser vista come la prosecuzione ideale e il completamento, in sostanziale continuità, della Pinacoteca Malaspina stessa, allestita nel 1980 nell'adiacente ala est. Il definitivo ordinamento di questa sezione prende avvio dalla mostra "Collezioni del XVII e XVIII secolo" organizzata nel 1993 nelle sale del castello con l'esposizione di ottanta dipinti custoditi nei depositi, poi diventata, con alcune modifiche, permanente. row-9rrv-8eyv~v5f2 Cremona Piazza Marconi, 5 Questo violino di grande formato e dalla calda vernice arancione presenta un fondo intagliato in un pezzo unico, con marezzature accentuate e disposte orizzontalmente. Ciò che colpisce da questo punto di vista è il contrasto con gli altri violini di questo periodo, nonostante lo stesso tipo di acero sia stato usato più o meno regolarmente da Stradivari a partire dal 1709. Ancora in legno d'acero sono le fasce laterali.All'interno è ancora leggibile l'etichetta con la scritta: "Antonius Stradivarius Cremonensis/ Faciebat anno 1715". Sul piano acustico, il Cremonese dimostra di essere uno strumento dalle straordinarie qualità: la capacità di espansione del suono e l'eccellente emissione ne fanno un capolavoro assoluto. Lunga è la lista dei proprietari di questo famoso violino, prima che esso ritrovasse la sua definitiva collocazione nella città in cui fu costruito.Durante gli anni '70 del XIX sec. si trova a Parigi e appartiene al violinista Darius Gras. Dopo la morte di questi, è rivenduto nel 1877 a Jules Garcin, anch'egli musicista. Nel 1889 viene acquistato per essere donato al celebre violinista Joseph Joachim, da cui prende la vecchia denominazione. In seguito a passaggi successivi, approda alla rinomata azienda liutaria londinese Hill and Sons, specializzata anche nel restauro, nella certificazione e nella vendita di strumenti ad arco antichi. Da qui arriva direttamente a Cremona nel febbraio 1962. L'entusiasta promotore dell'acquisto di questo straordinario violino è Alfredo Puerari, allora presidente dell'Ente Provinciale per il Turismo e direttore del Museo Civico, che voleva restituire alla città uno dei suoi capolavori. Nonostante l'elevato prezzo richiesto, Puerari riesce a far fronte alla spesa e, dopo aver acquistato il violino a nome dell'Ente da lui presieduto, lo dona al Museo Civico. Quanto mai simbolica è la decisione di cambiare il nome da "Joachim" in "Cremonese", a sottolineare lo stretto vincolo che lega lo strumento alla sua città.Questa prima acquisizione diede forte impulso alla raccolta di altri importanti strumenti della scuola cremonese, che andarono a formare nel tempo la collezione degli archi di palazzo Comunale, che ora si trova esposta al nuovo Museo del Violino. row-vrjh-sbp4-y47f Motivi decorativi vegetali a festoni con nastri Cairate Via Molina Il soffitto della navata centrale della chiesa monastica si presenta diviso in campate strette e allungate, coperte ognuna da una volta a crociera affrescata con motivi decorativi vegetali. Ogni vela della crociera è caratterizzata da un profilo esterno decorato con un motivo ad ovoli dorati, che racchiude al suo interno un ricco festone di foglie e frutti, avvolto da nastri colorati che termina, in corrispondenza degli angoli, con delle ricche cornici contenenti specchi-gioiello. Gli archi che separano le singole campate sono anch'essi decorati ad affresco con motivi geometrici, intervallati da riquadri figurati oggi di impossibile interpretazione a causa dello stato di conservazione della pellicola pittorica.La decorazione del soffitto è interrotta bruscamente a metà dalla parete che funge da tramezzo tra l'allora chiesa claustrale e quella aperta al pubblico, dove la decorazione del soffitto doveva un tempo proseguire. Malgrado lo stato di conservazione attuale non ne permetta una completa e chiara lettura, è evidente che nella chiesa aperta ai fedeli tale decorazione venne modificata, se non nell'impostazione generale, almeno nei dettagli. Rimane infatti presente il motivo a festone vegetale, circondato però da cornici architettoniche lisce che agli angoli termina con volti dorati di putti. Inoltre il triangolo centrale di ogni vela, caratterizzato nella chiesa claustrale da una semplice riquadratura con tre rosette dorate alle estremità, viene qui sostituito da un motivo decorativo ad ondine dorate. Una rara testimonianza delle originarie decorazioni pittoriche che interessavano le volte rappresentata dalla copertura della navata centrale. Poche sono le notizie riguardanti la decorazione della copertura dell'originaria chiesa a tre navate con sette campate: indicativamente tra il 1580 e il 1590, in osservanza delle rigide regole prescritte alle chiese claustrali durante il Concilio di Trento, la chiesa venne infatti ridotta ad un'unica navata, e separata nettamente a metà da un tramezzo per dividere la chiesa riservata ai fedeli da quella prettamente monastica. Questa parete doveva originariamente essere aperta sulla sommità, così da far intravedere ai fedeli la figura di Dio Padre tra gli angeli affrescata sulla parete di fondo, tuttavia nell'Ottocento, dopo la soppressione del monastero sotto il dominio dei francesi, questa apertura venne chiusa tagliando a metà una delle campate. A questo periodo risale anche la decisione di abbattere le prime due campate della chiesa pubblica e l'idea di controsoffittare quella claustrale per ottenere un nuovo piano.Non è noto il nome dell'autore della decorazione del soffitto, sebbene la critica sia concorde nell'assegnargli anche l'esecuzione della grande lunetta di Dio Padre collocata sulla parete di fondo e delle lunette laterali presenti nella navata centrale, oggi quasi del tutto illeggibili. Anche per quanto riguarda la datazione vi sono forti dubbi e la critica rimane divisa. Alcuni studiosi, infatti, sostengono che la realizzazione di lunette e soffitto sia stata eseguita anteriormente agli affreschi del Luini, datati 1560, ad opera di una bottega di artisti milanesi formatisi tra i seguaci di Callisto Piazza. Tale bottega sarebbe poi stata licenziata dalla badessa Antonia Castiglioni, che decise di far proseguire l'esecuzione degli affreschi della parete di fondo alla bottega di Aurelio, probabilmente per imprimere una nuova e più moderna svolta alla vita artistica del monastero. Altri studiosi ritengono invece che volta e lunette siano state realizzate nel 1590, posteriormente alla parete di fondo, come sembra testimoniare la scritta latina che corre lungo il cornicione della chiesa claustrale. A tale data (1587-1590) alcuni documenti fanno risalire anche una serie di interventi sulle volte della chiesa pubblica, cui presero parte i pittori Giovanni Antonio di Val Lugano, Salvatore Fontana e Giovanni Antonio Pozzi, membro di una prolifica famiglia di artisti originari di Puria in Valsolda, cui probabilmente si devono le modifiche effettuate nei dettagli della decorazione. row-q64v.y4bc_dj43 Collezioni d'arte del Museo Poldi Pezzoli Milano Via Manzoni, 12 Le collezioni del Museo Poldi Pezzoli sono costituite dalle opere acquistate dal conte Gian Giacomo Poldi Pezzoli, tra le quali dipinti, sculture, reperti archeologici, oreficerie e porcellane, e dagli arredi e dai decori originari della dimora di famiglia sfuggiti alle distruzioni belliche. Il palazzo che ospita il museo risale al XVII secolo, ed era stato acquistato da Giuseppe Pezzoli, antenato di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, alla fine del Settecento. L'architetto Simone Cantoni (1736-1818) l'aveva riadattato in stile neoclassico, con un ampio giardino interno all'inglese ricco di statue e fontane. Tra il 1850 e il 1853 Gian Giacomo affida a Giuseppe Balzaretto (1801-1874) un'ulteriore modifica, in contemporanea con la ristrutturazione del suo appartamento. Ogni ambiente della dimora si ispira ad uno specifico stile del passato. Tra i preziosi esempi rimasti della decorazione originaria della dimora è il Gabinetto Dantesco, il piccolo studio privato di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, progettato da Giuseppe Bertini e Luigi Scrosati e allestito tra il 1853 e il 1855. La stanza si ispira al Medioevo e a Dante, raffigurato negli affreschi e nelle vetrate dello stesso Bertini. In questa stanza Gian Giacomo Poldi Pezzoli teneva le opere più preziose delle sue raccolte di arti applicate. Della Sala Nera, così chiamata per il rivestimento in ebano delle pareti e del soffitto distrutto nel 1943, si sono conservate le porte e i raffinatissimi mobili, tavoli e sedie, ideati appositamente da Giuseppe Bertini e realizzati da Giuseppe Speluzzi, Luigi Barzaghi e Pietro Zaneletti tra il 1855 e il 1880. La Sala degli Stucchi, era stata decorata in stile Rococò e destinata ad ospitare le collezioni di porcellane settecentesche. Vi sono conservate le mensole, le "console" e le sedie in stile "rocaille" eseguite da Giuseppe Speluzzi tra il 1870 e il 1876. Lo Scalone Antico è stato ideato come scenografica entrata all'appartamento di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, sfruttando un antico scalone barocco già presente nel palazzo decorato con otto monumentali statue in pietra arenaria collocate in nicchie, opera di uno scultore milanese del XVIII secolo. Per enfatizzare lo stile barocco Giuseppe Bertini aggiunge una elegante fontana neo-barocca. Oggi nelle sale storiche, restaurate dopo i bombardamenti del 1943, e negli ambienti nuovi sono esposte le preziose collezioni di dipinti dal Trecento all'Ottocento, sculture, armi, vetri, orologi, porcellane, tappeti e arazzi, mobili ed oreficerie, a creare uno straordinario insieme. Giuseppe Bertini è il primo direttore del museo e ne incrementa le raccolte senza alterarne le caratteristiche. Alla sua morte, nel 1898, la direzione passa nelle mani dell'architetto Camillo Boito (1836-1914), direttore dell'Accademia di Brera. Boito procede ad un riordino della casa-museo secondo più aggiornati criteri museografici, con lo scopo di rendere le opere più accessibili al pubblico. Promuove inoltre una campagna fotografica del museo, un'importante testimonianza storica del gusto museografico dell'epoca. Nel 1939, durante la Seconda Guerra Mondiale, il Museo viene chiuso e le opere sono portate in salvo in diversi rifugi antiaerei. Nell'agosto del 1943 i bombardamenti aerei distruggono, in una sola notte, i principali musei milanesi. Anche il palazzo di via Manzoni è gravemente danneggiato e i danni sono in larga parte irreparabili: crollano i tetti e i lucernari, e con loro gli stucchi e gli intagli lignei che decoravano soffitti e pareti. Questi elementi, che contribuivano a creare la speciale magica atmosfera della casa-museo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli sono purtroppo perduti per sempre. Alla fine della guerra lo Stato Italiano decide di finanziare la ricostruzione del museo, nella ferma volontà di farlo rinascere nello stesso luogo. Grazie a Fernanda Wittgens e Ferdinando Reggiori, vengono recuperate con attenzione quasi filologica le parti meno danneggiate come lo Scalone antico e il Gabinetto dantesco, mentre le ricchissime decorazioni delle altre sale sono solo evocate in una versione alleggerita, mantenendo comunque nell'allestimento l'atmosfera di 'casa'. Il museo riapre al pubblico il 3 dicembre 1951. Grazie anche a generose donazioni, più di mille oggetti negli ultimi cinquant'anni, il Museo Poldi Pezzoli può oggi vantare una delle più prestigiose collezioni europee. Nella singolare atmosfera delle sale ricostruite, dipinti di grandi Maestri coesistono in perfetta armonia con arredi ed oggetti di arte decorativa di straordinaria qualità. Nascono nuovi allestimenti d'atmosfera, come l'Armeria e la Sala degli Ori. Il museo, che il suo fondatore aveva voluto "ad uso e beneficio pubblico", resta fedele alla sua prima vocazione: essere al servizio della comunità. row-ttfs-4u4h-84je Trionfo delle Arti Cristiane Lodi Piazza Ospitale Il soffitto della biblioteca del Collegio S. Francesco presenta la centro il Trionfo delle Arti Cristiane: in alto la Grammatica (?) con il libro aperto e due putti, la Teologia, la donna con due facce con accanto un globo turchino con le stelle, la Retorica che porta nella mano destra uno scettro e nella sinistra un libro, la Matematica con il compasso e la tavole con le figure geometriche retta da un putto. Ai lati la Fortezza armata che trattiene una colonna spezzata, la Giustizia con un fascio di verghe e la scure legata insieme, la Prudenza con lo specchio e il serpente, la Temperanza con il freno nella mano destra. La decorazione della volta della biblioteca si deve alla mano di Sebastiano Galeotti, stilisticamente avvicinabile alla decorazione della cappella di S. Pietro d'Alcantara nella chiesa. La tavolozza schiarita dai colori pastello, sono caratteristici del suo stile così come la ripresa di figure già utilizzate in opere precedenti, come si può notare nella Prudenza che ricalca la figura di Galatea affrescata nella volta di Palazzo San Vitale a Parma (1719-1720). Simili la posa del capo e quel sorriso appena accennato e un po' canzonatorio, il tutto inquadrao dalle possenti quadrature forse di Francesco natali. La luce scivola sulle superfici, gioca con i dettagli e con le splendide pieghe dei panneggi, creando suggestivi trompe-l'oeil. row-d5eg_5eyw.ic4n I Tre Crocifissi Bergamo Piazza G. Carrara, 82 La scena è inquadrata entro un arco decorato da busti di Imperatori entro clipei circolari, reminiscenza degli archi di trionfo romani: la presenza della 'quinta' architettonica pare invitare l'osservatore a penetrare nel mistero della Crocifissione, centrale nel culto cristiano, e a considerarlo attraverso l'interpretazione offerta dalla Chiesa, ovvero come l'evento che insieme alla Resurrezione ha proiettato l'umanità in una dimensione di redenzione e salvezza. Appena oltre l'arco al centro si erge l'imponente croce di Cristo, eretta sul Golgota e affiancata dalle croci più piccole dei ladroni: a sinistra il ladrone pentito con il capo chino circondato dai raggi luminosi, simbolo della purezza ritrovata dopo il perdono che Cristo gli ha appena elargito, a destra il ladrone cattivo e arrogante che volge il capo verso il diavolo, pronto a carpirne l'anima. Il punto di vista dell'osservatore è in linea con il chiodo che trafigge i piedi del Cristo, oltre al quale si apre la visione di una strada in discesa che percorre il fondo valle tra due cortine di monti e che conduce alla città di Gerusalemme, collocata al centro in lontananza e simile alle città turrite e fortificate del Quattrocento italiano seppur in un aura fiabesca ancora permeata del gusto tardogotico. Questa prospettiva a precipizio, convergente verso la città, sembra indicare che gli effetti della morte e resurrezione di Cristo si riverberano sull'uomo nella sua quotidianità, salvandolo. L'opera, di piccole dimensioni e molto rifinita, era probabilmente destinata alla devozione privata, come stimolo e supporto alla preghiera individuale. Il dipinto, datato "1456" (o "1450" come sostengono recentemente alcuni critici) e firmato sul parapetto in primo piano, è la prima opera certa del pittore di origini bresciane Vincenzo Foppa, che può essere considerato l'iniziatore della pittura rinascimentale lombarda. L'aggiornamento alle novità del Rinascimento toscano, evidenti nell'applicazione della prospettiva geometrica introdotta da Brunelleschi, nel plasticismo dei corpi appesi sulle croci e nell'espressività dei volti e dei gesti, è forse possibile per il giovane Foppa studiando le opere che lo scultore fiorentino Donatello realizza a Padova -prima tra tutte l'Altare del Santo- durante il suo soggiorno in città dal 1443 al 1453. Il tracciato prospettico inciso sulla superficie del dipinto, come guida alla impostazione spaziale della scena, è un'ulteriore prova dell'attenzione alla costruzione geometrica dello spazio, che tuttavia l'artista non applica con rigore affidandosi piuttosto alle vibrazioni di luce per donare profondità e verità alla rappresentazione. Il paesaggio sullo sfondo, dai toni favolosi e dalla spazialità emozionale, pare svincolato dalla scena sacra in primo piano, essendo improntato invece alla cultura tardogotica lombarda ma anche alle invenzioni paesaggistiche di un maestro come Gentile da Fabriano. L'importanza capitale dell'opera non sfugge a Giacomo Carrara, che in una lettera del 1764 si dice entusiasta di averla appena acquistata, forse sul mercato antiquario bergamasco. row-bhxg~8vg9-v9xu Camera dei Venti Mantova Viale Te, 13 Il nome della Camera deriva dalle personificazioni dei Venti presenti sopra le lunette come visi dalle gote gonfie. L'iscrizione tratta da una satira di Giovenale DISTANT ENIM QVAE SYDERA TE EXCIPIANT, posta sulla porta che immette nell'attigua Camera delle Aquile, indica il tema della decorazione, caro alla cultura rinascimentale, ovvero la dipendenza della sorte umana dalle stelle, fauste o infauste, sotto cui si nasce. I sedici medaglioni distribuiti sulle pareti e sovrastati dalle personificazioni dei Venti che soffiano sono, infatti, veri oroscopi figurati e mostrano quanto le azioni umane siano determinate dalle sfere celesti: i nati sotto lo Scorpione, in congiunzione con la costellazione Ara, saranno sacerdoti - così come è spiegato in un tondo raffigurante un sacrificio - mentre in congiunzione con Centauro, nel tondo con il cocchio, saranno maestri nell'allevare i cavalli. Questa ultima rappresentazione potrebbe anche alludere alla passione dei Gonzaga per i purosangue. Al centro della volta campeggia l'impresa del monte Olimpo, circondata da dieci divinità affrescate e dai dodici segni zodiacali in stucco. Probabilmente alla base del complesso programma iconografico derivante dai testi classici vi è l'astrologo napoletano Luca Gaurico, i cui servigi erano stati richiesti da Federico II, o l'umanista e astrologo mantovano Paride Ceresara.Si hanno notizie dei lavori nella camera dal settembre del 1527 all'agosto del 1528. Sotto la guida di Giulio Romano, furono all'opera: per gli stucchi Nicolò da Milano e Andrea Pezi; per l'apparato pittorico Anselmo Guazzi, Agostino da Mozzanica, Benedetto Pagni e Gerolamo da Treviso. Considerata la qualità distinta del medaglione del Leone, plausibilmente questa scena è da considerarsi realizzata direttamente da Giulio Romano. row-dsxd_a5yt~vmer Ritratto di Sabba Castiglioni Castiglione Olona Piazza G. Garibaldi, 1 L'olio su tela di formato rettangolare con orientamento verticale, ritrae il cavaliere Sabba da Castiglione inginocchiato di profilo di fronte ad un tavolo su cui è poggiato un crocefisso. L'uomo, con barba e capelli grigi, mostra qui il suo profilo destro: le mani sono giunte in preghiera e stringono tra le dita una sottile catenella dorata. Il cavaliere indossa sopra l'armatura una corta tunica di colore rosso acceso, bordata d'oro e con una croce argentea sul petto; al collo porta una catena d'oro terminante con la croce di Malta (o croce di San Giovanni), riconoscibile per la caratteristica forma a otto punte. Ai suoi piedi, nell'angolo in basso a destra della composizione, è poggiato l'elmo piumato; alla vita porta legato un corto pugnale ricurvo.Nell'angolo in alto a sinistra del dipinto è presente una scritta latina in lettere capitali dorate riportante nomi e titoli nobiliari dell'effigiato, che sormonta lo stemma della famiglia Castiglioni: uno scudo raffigurante un leone argento su sfondo rosso, che sostiene con la zampa anteriore destra una torre d'oro. Non è noto a quando risalga l'idea di istituire una galleria di ritratti all'interno di Palazzo Branda, ma nella storia della famiglia Castiglioni fu sempre ben radicata l'abitudine di conservare immagini dei membri più rappresentativi del casato, e di esporle durante i giorni di festa davanti al Palazzo. Da tale orgoglio per la dinastia familiare risale forse la decisione, presa nel XVII secolo, di far eseguire da anonimi artisti lombardi una serie di copie dell'antico ciclo di ritratti dei Castiglioni, probabilmente in parte dispersi nei secoli.Il soggetto di questo dipinto è il cavaliere gerosolimitano Sabba da Castiglione, nato a Milano intorno al 1480. Dopo aver militato a Rodi dal 1505 al 1508, si stabilì a Roma, dove giunse alla carica di procuratore generale dell'Ordine. Ottenuta nel 1517 la commenda della chiesa di S. Maria Maddalena nel Borgo Durbecco, si stabilì a Faenza e lì visse fino alla morte, avvenuta nel 1554, dedicandosi a opere di pietà, all'istruzione dei poveri e al collezionismo d'oggetti artistici e libri rari. Viene ricordato per l'opera letteraria "Ricordi", completata all'inizio degli anni Quaranta del Cinquecento e pubblicata per la prima volta a Bologna nel 1545: l'opera è costituita da una serie di consigli isolati l'uno dall'altro (ammaestramenti), che l'autore rivolge al pronipote Bartolomeo Righi, anch'egli cavaliere gerosolimitano e dunque prossimo ad una vita simile alla sua, ispirandosi soprattutto ai rigidi principi della morale cristiana, ma inserendo anche curiose notizie riguardanti la storia dell'arte e del costume. La prima edizione conteneva 72 Ricordi; una seconda edizione fu pubblicata nel 1549 con 124 Ricordi, una terza nel 1554 con 133: da questo momento, le edizioni si moltiplicarono, tanto che fino al principio del XVII secolo se ne contano ben venticinque. L'originale olio su tela che lo ritraeva costituiva a sua volta una copia dell'affresco realizzato nel 1533 da Girolamo da Treviso (1498-1544) nell'abside della Chiesa della Commenda di Faenza, dove l'identica immagine di Sabba da Castiglione appare inginocchiata di fronte ad una Madonna con Bambino, vicino alle sante Maddalena e Caterina d'Alessandria. L'opera era inoltre un pendant del ritratto del pronipote Bartolomeo, suo successore nel ruolo di commendatario faentino dal 1544, di cui esiste una copia anch'essa conservata presso la galleria di ritratti di Palazzo Branda. La critica ritiene infatti che i due ritratti originali vennero eseguiti per volontà del giovane stesso come omaggio allo zio che aveva rinunciato alla carica in suo favore: la loro realizzazione dovrebbe dunque non superare di molto tale data e non oltrepassare il 1570, anno della morte di Bartolomeo. row-rccy.w37u.63je Deposizione di Cristo dalla croce con vescovo Bergamo Via Pignolo, 76 Nelle tre medaglie, delle quali due sono circolari e una ovale, Giacomo Manzù sceglie di raffigurare alcuni episodi della Passione di Cristo in modo completamente nuovo. L'artista attualizza i soggetti sacri inserendovi oggetti e personaggi ripresi dal mondo contemporaneo, come la sedia-trono su cui è seduto Cristo deriso, raffigurato con la corona di spine in testa mentre regge tra le mani uno scettro improvvisato, e la figura di un vescovo modernamente abbigliato, presente sia ai piedi della croce nella "Deposizione" sia di fronte al corpo di Cristo morto nella "Pietà". Manzù utilizza il bronzo come se fosse terracotta, lasciando affiorare le asperità del materiale fuso e alternando segni volutamente scavati a segni più delicati. Donate dall'autore al vescovo di Bergamo Adriano Bernareggi, le tre medaglie sono realizzate nel 1948 ed esposte alla XXIV Biennale di Venezia dello stesso anno. La scelta di trattare un tema sacro ad alto contenuto drammatico come quello della "Passione di Cristo", già affrontato dall'artista negli anni '30 e '40, deriva dalla volontà del Manzù di denunciare gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Le opere, che si collocano in un particolare momento di maturazione del linguaggio dell'artista, evidenziano il passaggio da un modellato morbido a forme energicamente definite da pochi e profondi solchi, come le pieghe del mantello del vescovo. Nel dopoguerra Manzù affronta nuovamente il tema della Passione di Cristo, facendo diventare uno schema meditativo sulla condizione umana. row-2rfc-epyp-azir Sipario - Da appunti di guerra Busto Arsizio Piazza Vittorio Emanuele II, 2 La tela ha un impianto quasi quadrato e, sulla destra, mostra una parete verticale che occupa circa metà dello spazio con la sua massa scura. Sul lato apposto, a contrasto, una intensa luce bianca "brucia" il paesaggio di fondo e lascia in primo piano una veduta desertificata di terra riarsa e ferita. Il dipinto si inserisce nel ciclo pittorico "Appunti di guerra", in cui il tema delle devastazioni della guerra in Kossovo è reso con la contrapposizione di bianchi e bruni ad evocare ceneri, ombre e sagome del conflitto. Lovaglio, col suo ritorno in Puglia, inizia una serie di paesaggi scarni ed essenziali che diventano il centro della sua ricerca pittorica, usando una tavolozza cromatica ridotta. L'opera in questione vinse il Premio Acquisto nel 2004. row-jv37-hnyh-t627 Tirano Piazza Basilica, 30 La struttura portante della macchina è costituita da una massiccia incastellatura lignea a forma di parallelepipedo. Nella parte posteriore è posto il subbio dell'ordito, ovvero un travetto a sezione tonda munito ai lati di ruote con impugnature o denti di bloccaggio della rotazione, intorno al quale si avvolgono i fili dell'ordito. Nella parte anteriore sono invece posti una panca di seduta per il tessitore e il subbio della tela, munito di una grande ruota dentata e relativo perno di bloccaggio, attorno al quale si avvolge la pezza di tela o il tappeto in via di realizzazione. Nella parte centrale del telaio sono appesi all'incastellatura due licci, collegati ai pedali posti a livello del pavimento; questi elementi servivano a sollevare ed abbassare le due serie di fili che costituiscono l'ordito, agevolando con questo movimento l'azione del posizionamento del filo di trama. Davanti ai licci è posto un lungo pettine basculante per compattare la tela via via viene realizzata. Telai simili a quello esposto presso il Museo Etnografico Tiranese sono ancora in uso in tutta la provincia di Sondrio, utilizzati per la produzione dei "pezzotti", i tradizionali tappeti realizzati con strisce di stoffa. Questo esemplare proviene da Tovo di Sant'Agata e venne realizzato intorno alla fine dell'Ottocento.Il tessitore, seduto sulla panca nella parte anteriore del telaio, infilava la navetta con spoletta o una striscia di stoffa tra le due serie di fili dell'ordito; completato il posizionamento scambiava l'ordine dei fili di ordito, agendo sulla pedaliera che muove i licci: i superiori passavano in basso e gli inferiori in alto, dopodiché sistemava un altro filo di trama e ripeteva l'operazione. La tela o il tappeto che via via si formavano venivano avvolti al subbio anteriore. row-inqa.gsha-aecg Portale minore sinistro di S. Stefano Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Il portale in arenaria con inserti in calcare ed esuberante corredo scultoreo, proviene dalla perduta cattedrale romanica di S. Stefano. La stratificazione di piani con rigoglioso partito decorativo, a palmette, tralci ondulati, motivi fitomorfi, nastri intrecciati, girali, lotte tra mostri, figure zoomorfe e umane costituisce la caratteristica distintiva e peculiare dei portali pavesi tra XI e XII secolo. Questo, formato da ben cinque ghiere riccamente decorate, reca nella lunetta un arcangelo aureolato, con i simboli del potere, scettro e globo, che ha il compito di purificare e redimere il fedele prima di accedere all'interno sacro. La figura angelica è inserita in un'edicola che rimanda agli angeli delle chiese di S. Michele e S. Giovanni in Borgo, ma soprattutto a quello del portale di S. Pietro in Ciel d'Oro. Ai lati due raffigurazioni simmetriche, con un calice nel quale si abbeverano due colombe affrontate e dal quale nasce l'albero della vita o eucaristico popolato da altri volatili. Sono motivi consapevolmente desunti dalla tradizione, dal repertorio scultoreo di origine tardo antica e altomedievale, ma derivati anche da tessuti orientali. Il lessico decorativo antico viene tuttavia riformulato e modernizzato, con la ricerca della varietà e con l'intreccio astrattizzante. I decori, apparentemente distribuiti in modo casuale, rivelano un'attenzione compositiva e una studiata ricercatezza formale, inoltre l'alternanza di calcare e arenaria, non consueta in ambito pavese, conferisce un ulteriore arricchimento cromatico al partito decorativo. Il portale, frammentario, si inserisce nel corpus dei resti scultorei superstiti della cattedrale estiva romanica di S. Stefano, affiancata in origine alla basilica invernale di S. Maria del Popolo, demolite a partire da fine Ottocento per permettere la conclusione del nuovo Duomo iniziato già in età rinascimentale. Nel 1899 il portale viene addossato al lato sud della Torre Civica e nel 1989, in seguito al crollo di quest'ultima, recuperato e riassemblato nella sala IX del museo, vicino agli altri due portali e a manufatti sempre di pertinenza dell'antica cattedrale. row-yaru-s4ef-svar Divinità marine Milano Piazza Castello row-9zm2-3x98~bprh Cristo alla colonna Milano Via Brera, 28 row-6swu~c592-m6jp Garlate Via Statale, 490 Lo strumento è una piccola e sensibile bilancia a colonna su base in ghisa con tre piedini e viti per la messa in bolla. Veniva utilizzata per distinguere i bozzoli contenenti maschi da quelli con femmine, senza aprire il bozzolo, solo tramite pesatura (le femmine, infatti, pesano circa il 10% in più): operazione preliminare per gli incroci per la riproduzione. Questo genicrino ponderale compare verso il 1890. row-58n9.ky92-b3a3 Cristo crocifisso con santa Maria Maddalena, Dio Padre, Madonna annunciata, Angelo annunciante, Tentazione e caduta di Adamo e Eva, San Giovanni Evangelista, Cristo in gloria, Agnus Dei, Madonna Gandino Piazza Emancipazione Questa croce lignea sagomata e dipinta presenta la foggia in voga alla fine del XIV secolo con terminazioni trilobate mistilinee, arricchite da pigne intagliate e dorate, simboli della nuova vita portata dall'albero della Croce. Le numerose raffigurazioni pittoriche sono dense di significati simbolici e intendono comunicare al fedele il senso della redenzione (la "Redemptio Nova" iscritta sul verso) e della salvezza profuse a tutti gli uomini mediante il sacrificio di Cristo. Le sofferenze e la morte di Gesù sulla croce si sono trasformate in vita e hanno lavato i peccati dell'umanità. Il Peccato originale con Adamo ed Eva ai lati dell'albero del bene e del male è esplicitamente raffigurato al verso della croce ma vi si allude anche sul recto nel teschio raffigurato sul Golgota accanto alla Maddalena piangente: è il teschio di Adamo, progenitore di tutti i peccatori, salvati dal sangue di Cristo. Il Cristo in gloria in alto è seduto sull'arcobaleno, segno della congiunzione tra cielo e terra. Al verso è raffigurato al centro l'Agnus Dei disteso sul libro dei Sette Sigilli, che è un'immagine tratta dall'Apocalisse alludente al sacrificio di Cristo, ai lati vi è l'Annunciazione, ovvero l'incarnazione di Cristo nel ventre della Vergine e quindi la sua venuta nel mondo. La croce presenta caratteri di assoluta originalità, in primis la pittura realizzata sia al recto che al verso della tavola, che denota una collocazione originaria dell'opera in modo da essere visibile da entrambi i lati. Infatti in origine era collocata al centro della chiesa quattrocentesca e forse utilizzata anche nei riti processionali, ma per ordine di San Carlo Borromeo, in visita apostolica a Gandino nel 1575, fu spostata sotto l'arco trionfale nel presbiterio. Nel 1711 si staccò accidentalmente dall'arco e cadde a terra: forse in quell'occasione fu restaurata con pesanti ridipinture e collocata in sagrestia. Dopo il restauro del 1984 il corpo di Cristo, liberato dalla spessa ridipintura, è apparso delicato e anatomicamente corretto, cosparso dalle numerose piccole ferite, provocate dalla flagellazione a cui fu sottoposto Cristo prima della crocifissione. La tipologia ancora trecentesca della croce con terminazioni trilobate suggerisce una datazione non dopo la prima metà del secolo XV, forse subito dopo la fondazione della chiesa di Santa Maria nel 1421 o dopo la consacrazione nel 1430. row-ustf.4aav-cswb grifo Cremona Via S. Lorenzo, 4 Come tutte le pitture parietali venute alla luce dallo scavo della casa del Ninfeo, anche questo frammento di affresco mostra una altissima qualità, sia esecutiva che tecnica. Esso raffigura un grifo, un animale mitologico con ali e testa d'uccello, qui rappresentato con la parte terminale del corpo a coda di pesce (?). Ancora sorprendentemente acceso è il rosso cinabro usato per lo sfondo. Questo frammento di affresco, proveniente dagli scavi di piazza Marconi, ornava le pareti di una camera da letto o di uno studiolo della casa del Ninfeo, così detta dalla momumentale fontana che ne abbelliva il giardino. Lo scavo della casa ha messo in luce un consistente strato di bruciato, testimonianza dell'incendio del 69 d.C., quando, durante la guerra civile per la successione all'impero, Cremona, che parteggiava per lo sconfitto Vitellio, viene messa a ferro e a fuoco dalle truppe del futuro imperatore Vespasiano. L'alta qualità dell'opera testimonia l'elevata condizione sociale del padrone di casa, nel quale è stato proposto di riconoscere un personaggio di rango sanatorio, unito da forti legami con gli ambienti politici e culturali di Roma. Ritrovato dopo quasi 2000 anni dal tragico evento, è ora esposto per la prima volta al Museo Archeologico San Lorenzo. row-uvzz~2b3i.ty2q Adorazione dei Re Magi Bergamo Piazza Rosate Il gruppo di nove arazzi, che appartiene alla serie convenzionalmente detta "fiorentina", raffigura i "Misteri di Maria" e "Storiel'infanzia di Gesù": la Presentazione di Maria al Tempio, lo Sposalizio della Vergine, l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività con la visita dei pastori, la Circoncisione, l'Adorazione dei Magi, la Fuga in Egitto e l'Assunzione di Maria. In ogni episodio sacro ricorrono vasi o canestri colmi di frutta a significare il grembo virginale della Madonna, simbolo di floridezza. Questo senso di abbondanza rigogliosa è rimarcato dalle splendie cornici colme di frutti, fiori, putti e busti femminili che circondano ogni singola scena. Nei medaglioni posti lungo le fasce laterali e verticali sono raffigurate immagini che sottolineano il significato sacro e simbolico dell'evento ritratto. Intorno al 1580 cominciò a prendere piede tra i deputati della Misericordia Maggiore l'idea di dotare la Basilica di arazzi destinati ad ornare l'edificio nelle occasioni solenni. Grazie a Girolamo Biffi, uomo d'affari bergamasco d'origine ma da anni residente a Firenze, si presero contatti con il Granduca di Toscana per ottenere i permessi necessari e con l'Arazzeria Medicea per l'esecuzione. I cartoni furono eseguiti dal pittore fiorentino Alessandro Allori e dalla sua bottega mentre la tessitura, realizzata nelle Manifatture Medicee tra il 1583 e il 1586, fu affidata a Benedetto Squilli di Michele. Gli arazzi giunsero a Bergamo in tre consegne successive: nel 1583 la Natività, l'Adorazione dei Magi e la Fuga in Egitto, tra il 1584 e il 1585 l'Annunciazione, lo Sposalizio della Vergine, la Visitazione, la Circoncisione e l'Assunzione della Vergine; infine, nel 1586, la Presentazione della Vergine al tempio. row-ugzu.mrei_hv7h Milano Piazza Castello row-2n8q.t3su~52sv Altare di S. Rita Pavia Piazza San Pietro in Ciel d'Oro L'abside minore destra rappresenta un punto di forte richiamo per molti fedeli, perché custodisce l'altare con la reliquia di S. Rita da Cascia, santa agostiniana particolarmente venerata dai pavesi e non solo, il cui culto è introdotto a Pavia dalla comunità degli Agostiniani che regge la basilica dal 1327. L'altare marmoreo a bassorilievo si compone di un paliotto raffigurante la "Miracolosa entrata di S. Rita nel convento delle Agostiniane di S. Maria Maddalena a Cascia, accompagnata dai Santi Agostino, Nicolò da Tolentino e Giovanni Battista Giovanni", sul quale si imposta l'alta pala scandita da undici riquadri figurativi che raccontano con uno stile semplice e sobrio la vita della Santa. Sopra il tabernacolo, disposto al centro, si inserisce l'emblema agostiniano, il libro aperto con il cuore di Gesù fiammeggiante sormontato da una croce e dai simboli episcopali (mitria e pastorale) con il motto "Tolle Lege Tolle Lege" ("Prendi e leggi" dalle Confessioni di S. Agostino). L'altare viene realizzato nel 1939 dallo scultore pavese Giovanni Scapolla, allievo del grande maestro Adolfo Wildt, su progetto dell'architetto Emilio Carlo Aschieri; insieme creano anche nel 1963 l'altare marmoreo del Sacro Cuore, pendant nell'abside minore sinistra. Il quadretto policromo al centro del pittore romano Tito Troja, raffigura "S. Rita in estasi che riceve da Cristo crocifisso la spina sulla fronte".Annualmente il 22 maggio si celebra la festa di Santa Rita che coinvolge l'intero quartiere nell'organizzazione della tradizionale fiera, caratterizzata dalla vendita delle rose benedette, legate al culto della Santa. row-4mbs_bj4m-ywex Trionfo della Croce Como Via Cesare Cantù, 57 L'affresco, collocato al centro della volta, raffigura il Trionfo della Croce, che viene sollevata verso i cieli da un gruppo di angeli e accolta dalla Trinità. In basso, da entrambi i lati sono dipinti gruppi di angeli musicanti, in omaggio alla santa cui è dedicata la chiesa, Cecilia, patrona della musica. La decorazione pittorica della volta della chiesa di Santa Cecilia fu realizzata tra il 1686 e il 1688 dall'artista milanese Andrea Lanzani. L'affresco principale, al centro della volta, rappresenza il Trionfo della Croce, un soggetto che trova spiegazione nella presenza nel monastero di un'importante reliquia della Croce di Cristo. L'esecuzione di questo dipinto rientra nei più ampi lavori di rinnovamento che interessarono la chiesa negli ultimi decenni del Seicento, rendendola uno dei complessi decorativi più importanti del tardo barocco lombardo, grazie al coinvolgimento di diversi artisti di primo piano, come lo scultore Giovan Battista Barberini, autore del ricchissimo apparato di stucchi, e i pittori Filippo Abbiati e Innocenzo Torriani, cui fu affidata l'esecuzione delle tele ancora visibili sulle pareti. Nell'affresco con il Trionfo della Croce Lanzani mette in opera una composizione razionale e ben leggibile, influenzata dalla pittura classicista romana conosciuta in occasione di un precedente soggiorno nella Città eterna. A essa si associa una tavolozza dalle tonalità schiarite e luminose che sembrano già anticipare esiti pittorici tipici del Settecento e garantiscono a Lanzani un ruolo di primo piano nel passaggio della pittura lombarda verso il nuovo secolo. row-bp4e_f24k_s4su Mesi di Novembre e Dicembre San Benedetto Po Piazza Teofilo Folengo, 22 Il frammento di marmo greco è stato scolpito con le personificazioni dei mesi di Novembre e Dicembre. All'interno di edicole sono rappresentate due figure maschili impegnate in attività lavorative contadine. Due iscrizioni in latino identificano i mesi: NO|VEM|BER è il personaggio inferiore, occupato a spargere le sementi tenute raccolte in un lembo della tunica; [DI]|CEM|BER è il personaggio superiore, che spacca la legna per l'inverno. Entrambi indossano tuniche al ginocchio e calzari legati alla caviglia, ma si differenziano nei volti: il primo ha baffi, barba e capelli corti, il secondo barba e capelli lunghi. La scultura proviene, con tutta probabilità, da un portale anticamente presente nella Chiesa abbaziale di San Benedetto Po. Lo stile con cui sono stati realizzati i Mesi polironiani ha la capacità di raccontare la vita quotidiana, attraverso dettagli come l'uccello sceso a beccare le sementi appena sparse da Novembre o il ciocco di legno nervoso che Dicembre sta spaccando. Per quanto riguarda la possibile attribuzione alla mano stessa di Wiligelmo, che si tratti del maestro o della sua scuola, sembra che l'esecuzione dei pezzi sia da collocare dopo il secondo decennio del XII ed entro il 1130. row-g9nt.e3vv_mf68 Crema Piazzetta Winifred Terni De Gregory, 5 Aratro rincalzatore costituito da vomere con doppio versatoio in ferro, assicurato alla bure in legno a sezione quadrata munita anteriormente di rotella di regolazione e del gancio per l'attacco degli animali da tiro, fissata al manubrio a due stegole in legno. L'oggetto, risalente alla fine del XIX secolo e utilizzato in ambito cremasco, serviva a rompere e frammentare la terra, smuovere le zolle e tracciare un solco nel campo. Alla bure veniva assicurato il bilancino collegato mediante tiranti al giogo applicato ad una coppia di buoi. L'aratore guidava l'attrezzo impugnando la stegola.L'etnografo Paul Scheuermeier (1980) informa che l'aratro nacque in tempi antichissimi dal perfezionamento della zappa. La sua efficacia dipendeva dalla sua costruzione, adattata alle caratteristiche e alla natura del terreno da dissodare e rivoltare. Lo storico Walter Venchiarutti (2005) scrive che, nel Cremonese, gli attrezzi adoperati dal contadino erano collocati nei barchessali oppure sotto il porticato delle cascine. Con l'aratro, il contadino scavava il solco in profondità, incidendo la terra per fare posto al seme. La pioggia ne avrebbe favorito la germogliazione. Tale processo, che rimanda simbolicamente alla fecondazione naturale, creava i prosupposti ideali per il sostentamento della comunità che permetteva la continuazione della specie. row-wie2~y8ne_hdyq Pala Cesi Abbadia Cerreto Piazza della Vittoria, 1 La pala d'altare presenta una grandiosa architettura sullo sfondo composta da poderose colonne doriche che inquadrano un arco a tutto sesto che genera una volta a botte a lacunari. Ai lati due setti murari racchiudono l'alto basamento su cui siedono la Madonna con il Bambino. Il gesto della Vergine sembra derivare da quello solenne di Aristotele della Scuola di Atena di Raffaello, nota ai pittori dell'Italia settentrionale mediante le incisioni, così come la torsione di Gesù e le figure dei santi laterali trovano riferimenti agli schemi raffaelleschi, come la Madonna del baldacchino, di cui dovevano essere numerose le stampe in circolazione. Ai piedi delle sacre figure San Giovanni Battista bambino con l'abitino di pelle, la croce nella mano sinistra con il cartiglio; a sinistra San Pietro con le chiavi del paradiso presenta il committente alla Vergine, mentre a destra San Paolo si riconosce per la spada e il libro. Alle spalle, quali chiusure della composizione, due santi Vescovi con pastorale a ricciolo, non identificabili. La grande tela è forse la pala d'altare della chiesa, spostata nell'attuale collocazione nel transetto sinistro probabilmente nel 1718. I documenti sembrano concorrere a identificare il personaggio inginocchiato e presentato alla Vergine da San Pietro, in Federico Cesi, subentrato al fratello Paolo Emilio quale commendatario -abate dell'abbazia nel 1534. A tale incarico fu associato anche il privilegio economico solo nel 1537 quando il fratello morì. Secondo una iscrizione settecentesca riportata nella chiesa, nel 1541 Federico operò una ristrutturazione dell'abbazia, mentre il fratello aveva precedentemente restaurato e riordinato il convento ed è in quella occasione che commissiona l'opera a Callisto. Questo anno ben si addice alla pala sia per il superamento di quella concitazione che pervade le Storie della Passione di Cristo dipinte nella chiesa dell'Incoronata di Lodi, sia perchè sembra che l'artista voglia mostrare allo spettatore, anche grazie la gesto di invito del piccolo Battista, l'evidenza e la grandezza dell'unione tra la chiesa trionfante e quella militante: legame che si traduce visivamente nell'atto d'intercessione con cui proprio il principe degli Apostoli presenta il committente, inginocchiato ma fiero nel suo abbigliamento curiale, alla Madre celeste. row-7igh~r6e3~uvri Soncino Via Lanfranco, 8 Il macchinario, funzionante con la corrente elettrica, si compone di una tastiera letterale per la composizione delle parole, illuminata da una lampada, fronteggiata da una sedia girevole e collocata sul fronte del compositoio. Quest'ultimo poggia su un piedistallo quadrangolare metallico, è a doppia distribuzione e a quattro magazzini sovrapposti per il contenimento delle matrici. Sul retro del macchinario è collocato il forno di fusione del piombo. La macchina compositrice Linotype si chiama così perché permetteva di creare una linea intera di caratteri in metallo, in inglese "line of types" (colloquialmente line-o'-type). Fu la prima macchina per la composizione tipografica automatica e consentì notevoli aumenti di produttività. Fu inventata negli Stati Uniti nel 1881 dal tecnico tedesco Ottmar Mergenthaler, un inventore e orologiaio naturalizzato statunitense. Venne definito il secondo Johannes Gutenberg perché la sua invenzione rivoluzionò l'arte della stampa, consentendo di impostare i caratteri mobili in una pagina in modo facile e veloce.La macchina fu installata per la prima volta nel 1886 al "New York Tribune". Venne impiegata per la prima volta in Italia per la composizione tipografica nel 1897 alla "Tribuna" di Roma, a quel tempo il principale quotidiano della capitale. Uno dei motivi dell'abbandono della linotype fu il passaggio dalla composizione tipografica a "caldo" (cioè col piombo fuso, propria della linotype ma anche della monotype) al cosiddetto sistema a "freddo", e cioè la composizione al computer. Le nuove tecnologie furono applicate alla stampa dei quotidiani a partire dai primi anni Settanta. Il piombo venne sostituito dal sistema a fotocomposizione e l'impaginazione divenne un lavoro di grafica, eseguito sugli schermi del computer. row-qxgw.v9zr.x6qg Signora in bianco Busto Arsizio Piazza Vittorio Emanuele II, 2 Sulla tela, di taglio verticale, è ritratta una figura femminile seduta su una poltrona in stile thonet. La donna è rappresentata in posizione frontale, con i capelli raccolti a crocchia sulla testa e un vaporoso ed elegante abito di raso bianco dalla generosa scollatura. Le spalle sono avvolte da un boa bianco e le braccia sono allungate sui braccioli della poltrona. Lo sfondo è occupato da una tenda bianca trasparente. La luce che giunge da sinistra accende l'abito e la tenda di riflessi cangianti. L'opera appartiene a un nucleo di dieci tele che il pittore Emilio Magistretti regalò nel 1927 alla Società Bustese di Storia e d'Arte, poi passate al Comune di Busto Arsizio nel 1931. Durante l'Esposizione Nazionale di Milano del 1906 Magistretti presentò due opere ("Ritratto di Signora" e "Ritratto"), il che farebbe presumere che il dipinto qui schedato possa essere identificato con una delle due tele milanesi. Il titolo attuale del dipinto infatti compare solo nel catalogo del 1926. Secondo lo storico dell'arte Sergio Rebora il taglio dell'opera ricorda gli esiti della pittura di Giacomo Grosso. row-vzez_efc6~43vf Scultura n. 15 Milano Piazza Duomo row-bkct~avrm-iq3j Sant'Antonio da Padova incontra Ezzelino da Romano Lodi Piazza Ospitale Il grande dipinto raffigura l'incontro avvenuto nel 1231 tra Sant'Antonio da Padova e il tiranno Ezzelino da Romano a Verona, dove il santo si era recato per chiedere la liberazione di alcuni vcavalieri gulefi. Rimproverato da Antonio per la sua crudeltà, si gettò ai suoi piedi miracolosamente convertito, proprio come narra l'iscrizione in latino in basso al centro. Sullo sfondo l'artista dipinge l'arco di trionfo della città scaligera, distrutto nel 1805. All'arco romano "dei Gavi" fa riferimento l'iscrizione sul basamento dello stesso. Il pittore cremonese Malosso rivela nella scelta del soggetto e nell'uso dei colori una vicinanza ai dettami della Controriforma. Sono evidenti, però, anche i debiti verso la cultura cremonese del Pordenone con le Storie della Passione nel duomo di Cremona e di Antonio Campi. La scelta di raffigurare Sant'Antonio da Padova si collega al nome di Antonio Fissiraga, per l'importanza che ebbe nella realizzazione e decorazione della chiesa. row-bthe.u7np-miyx Cupido dormiente con due serpenti Mantova Largo XXIV Maggio, 12 Questa scultura in marmo ritrae un bellissimo fanciullo dalle proporzioni perfette, dal viso angelico ammorbidito dal sonno. La presenza della corona di rose tra i capelli ricciuti, attributo di Venere, delle piccole ali e soprattutto dell'arco e delle frecce custodite entro una faretra rendono sicura l'identificazione con Cupido bambino. Il dio dell'amore, riverso sulla schiena, il braccio destro adagiato lungo il corpo, il sinistro piegato a proteggere in un gesto di possesso le armi, appare essersi lasciato andare ad un sonno profondo ed innocente direttamente sulla nuda terra. Il figlio di Venere è colto e raffigurato con una dolcezza disarmante rafforzata dalla tenerezza delle guance paffute e dalla resa setosa e morbida degli incarnati, lavorati nel marmo con notevole sapienza ed esaltati nella morbidezza grazie anche al contrasto con la lavorazione irregolare e scabrosa del ruvido giaciglio. Contrasta con l'innocenza del fanciullo la presenza delle due serpi che si fronteggiano sul suo ventre. La presenza dei due serpenti non è stata ancora decodificata ma è da leggersi in una dimensione allegorica. L'opera proviene dal Palazzo del Giardino di Sabbioneta, appartenuto alle collezioni di Vespasiano Gonzaga. Il soggetto è comunque tra i più amati dal collezionismo gonzaghesco. Nelle raccolte di Isabella d'Este sono documentati infatti due Cupidi dormienti: uno scolpito da Michelangelo nel 1496, opera giunta a Mantova nel 1502, l'altro ritenuto opera di Prassitele e acquistato nel 1506. row-7axh~c7fh-h8c6 Scene mitologiche / scene bibliche Milano Via Brera, 28 row-49vk_fdaq~dhv5 Monte Resegone Lecco Via Don Guanella, 1 E' raffigurato il Resegone: la montagna famosa per essere stata citata più volte da Alessandro Manzoni ne "I Promessi Sposi", divenuta simbolo della città di Lecco. Era un'immagine famigliare al pittore Carlo Pizzi che qui la raffigura con le pareti rocciose, illuminate dal sole al tramonto e con la caratteristica cresta a nove punte che ricorda il profilo di una sega. Sui declivi si scorge qualche piccolo casolare; l'intera veduta è dominata dalla natura incontaminata, su cui l'artista concentra la propria attenzione. Carlo Pizzi (1842-1908) è considerato il più importante paesaggista lecchese attivo nella seconda metà dell'Ottocento. Dal 1866 partecipò costantemente alle annuali Esposizioni di Belle Arti allestite nel Palazzo di Brera a Milano, dove presentò numerose tele con soggetti prevalentemente legati al territorio lariano. E' comunemente annoverato tra i pittori "veristi". Questa veduta del Monte Resegone rispecchia fedelmente l'aspetto morfologico della montagna, ma, nello stesso tempo, rivela l'animo 'panteista' del pittore lecchese, che traspare dalla rappresentazione della natura, sempre incontaminata, selvaggia e rigogliosa. row-q9he.bshf_2esv Cremona Piazza Marconi, 5 Violino dalle linee eleganti ed equilibrate, costruito in acero e abete rosso, per la forma dei fori di risonanza e il loro posizionamento si caratterizza come opera tipica del maestro Fiorini. Anche la sottile linea nera di vernice presente su tavola e fondo lungo la linea di incollaggio con le fasce è una connotazione peculiare dei lavori del liutaio bolognese. All'interno è conservata l'etichetta con l'indicazione dell'anno e del luogo di costruzione (Roma, 1924). I primi rapporti di Giuseppe Fiorini con Cremona risalgono al 1930, quando il liutaio bolognese dona al museo civico della città la sua collezione di cimeli stradivariani. La donazione viene subito esposta in una speciale sezione del museo cittadino e contribuisce a risvegliare l'orgoglio e l'interesse dei Cremonesi per il loro illustre passato. Nel 1932 Fiorini decide di omaggiare ancora Cremona, donandole, questa volta, un violino da lui costruito a Roma nel 1924. L'importanza di questo strumento non risiede soltanto nella testimonianza dell'affetto che lega Fiorini alla città di Stradivari, ma anche nel fatto, come leggiamo in una nota di don Illemo Camelli, direttore del Muso Civico, al podestà di Cremona, che il violino fu costruito seguendo i modelli stradivariani presenti tra i materiali della donazione. row-kbwk-edtp.m54v Iside Fortuna Piadena Piazza Giuseppe Garibaldi, 3 La statuetta raffigura Iside-Fortuna che reca con la mano destra un timone e con la mano sinistra una cornucopia. Attorto al braccio destro vediamo un serpente, altro simbolo di prosperità e salute. Sul capo la dea porta gli attributi tipici di Iside, il disco solare e il crescente lunare. L'elegante acconciatura è caratterizzata da una scriminatura centrale, che divide i capelli in due bande raccolte in un grosso nodo sulla nuca. L'ampia veste senza maniche e il manto, che la ricopre formando larghe pieghe, si contrappongono all'aderente tunica indossata da Iside nelle raffigurazioni tradizionali egiziane e testimoniano l'accettazione del suo culto nel mondo romano. Nella figura di Iside-Fortuna si fondono tra loro gli attributi di diverse divinità, come era abitudine consolidata presso i Romani, che non ebbero mai difficoltà a identificare gli dei dei popoli conquistati con quelli della religione tradizionale. Così, nella statuetta da Calvatone-Bedriacum, vediamo, accanto agli attributi tipici della dea egiziana Iside, il crescente lunare e il disco solare, portati sul capo, il timone e la cornucopia della dea Fortuna, ma anche il serpente di Igea, dea della salute, e il moggio (antica misura di capacità) di Demetra, dea dei raccolti. Statuette di questo tipo, raffiguranti le divinità più popolari, venivano conservate nei larari delle case romane, sorta di cappellette destinate al culto domestico, dove, soprattutto durante il periodo imperiale, non poteva mancare l'immagine di Iside-Fortuna, garante della prosperità di tutta la famiglia. row-2vie.ypsc_p46w Pavia Corso Strada Nuova, 65 Lo strumentario chirurgico per la litotomia è conservato in quattro cassette rivestite di pelle rossa con decorazioni dorate e foderate di velluto verde, (nn. XXII, XXIV, XXV, XXVI), analoghe alle 36 originali (attualmente 32), fatte realizzare da Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800), chirurgo personale dell'imperatore Giuseppe II, per una maggior efficienza didattica nell'addestramento degli studenti. La XXIV accoglie al suo interno, in appositi alloggiamenti profilati da passamaneria dorata, undici strumenti ad hoc per praticare la litotomia: diversi tipi di litotomi (due curvi), forcipe o tenaglia a lamine elastiche esterne, conduttori, tenaglie e un 'bistouri caché' regolabile a diversi gradi di apertura. Sul lato anteriore del contenitore, privo di coperchio, è posizionata la serratura in metallo dorato, della quale si conserva ancora la chiave originale, corredata di una targhetta ovale in metallo dorato recante inciso il numero della scatola (XXIV) e la scritta 'Pro lithotomiae'.Gli strumenti erano utilizzati per praticare la litotomia, letteralmente taglio della pietra (dal greco lithos, pietra e tomia, taglio) intervento di chirurgia urologica consistente in un taglio attraverso il quale era possibile asportare i calcoli della vescica. Tra la seconda metà del XVIII secolo e l'inizio del XIX la litotomia era una delle operazioni più importanti, ma anche una delle più pericolose, soprattutto per le complicanze che potevano manifestarsi nel post operatorio. L'operazione si poteva praticare in diversi modi, con accesso perineale o con sezione ipogastrica, quest'ultimo metodo era considerato ancora più rischioso dei precedenti benché a volte, come sottolineato dallo stesso Brambilla, esso si rendesse necessario a causa della grandezza del calcolo.Il set viene realizzato dal noto coltellinaio viennese Joseph Malliard o Maliar (1748-1814) al quale Brambilla fornisce, come modelli per la realizzazione dell'armamentario chirurgico, sia strumenti di manifattura francese e inglese, sia le tavole con immagini a grandezza naturale dei vari pezzi del suo "Instrumentarium chirurgicum militare Austriacum", testo fondamentale del quale il museo pavese conserva una copia in latino che l'illustre chirurgo aveva donato ad Antonio Scarpa e che alla sua morte passa a Luigi Porta.La prestigiosa rivista americana "Nature" nel 2008 ha inaugurato una serie di articoli dedicati ai piccoli musei di tutto il mondo, partendo proprio dal Museo per la storia dell'Università di Pavia, descrive quali "tesori nascosti" , il museo, l'aula Scarpa, l'aula Volta e i memorabili scienziati legati all'Ateneo pavese. row-dqny_ewb7~8jhc Le uova sul libro Bergamo Via S. Tommaso, 53 Il dipinto è un 'divertissement' cromatico. Sei uova candide sono appoggiate sulla copertina nera di un libro, appoggiato su un tavolino, accostato a due cartoni appoggiati a loro volta alla parete. La scena, giocata cromaticamente solo su quattro colori, è costruita mediante la sovrapposizione di campiture cromatiche contrastanti nell'intento di suggerire una profondità spaziale basata sul colore e non sulla prospettiva geometrica lineare. Anche il chiaroscuro è assente e le volumetrie sono rese con lievissime variazioni tonali. Il tema della natura morta di uova è ricorrente nella pittura di Casorati, presente nella sua opera fin dal 1914 con il dipinto "Le uova sul tappeto verde". E' quasi un omaggio a Piero della Francesca, a cui sempre Casorati guardò per la costruzione matematica dello spazio e per l'atmosfera assorta e immobile. L'uovo dalla forma perfetta e dalla fragile consistenza permette, inoltre, all'artista una riflessione sul contrasto tra la precarietà e la solidità formale. Il "realismo magico" di Casorati degli anni '20 andò stemperandosi, a partire dalla fine degli anni '30, in una riflessione più intimista e accorata tendendo successivamente verso una neutralità spoglia e una essenzialità minimale, in cui la prospettiva e la volumetria si appiattiscono. row-zm8f.a2ca_hyka Autunno Montichiari Via Martiri della Libertà, 33 Oggetto di un restauro condotto nel 1988, l'opera appartiene a una serie di quattro tele in ottimo stato di conservazione, oggi tutte riunite nel Museo Lechi. Purtroppo la foderatura realizzata in quella circostanza ha solo in parte garantito la leggibilità delle iscrizioni antiche vergate sul retro, che nel caso della tela in esame non ha fornito alcuna indicazione utile quanto alla paternità. Dal punto di vista iconografico i quattro dipinti rivelano un sostanziale allineamento alla tradizione rappresentativa delle stagioni. Come di consueto, l'Autunno assume le sembianze di Bacco, con il capo cinto da una ghirlanda di pampini di vite e il corpo ricoperto da una pelle di felino, nell'atto di porgere un grappolo di uva a un florido Cupido. A fornire una fondamentale indicazione sulla storia collezionistica di questi notevoli dipinti contribuisce il volume "Le pitture e le sculture di Brescia" di Giovan Battista Carboni, andato in stampa nel 1760. Tutte e quattro le opere risultano infatti segnalate nella dettagliata descrizione dedicata alle raccolte a quel tempo conservate "Nel palazzo de' Signori Conti Avogadro Appresso San Bartolomeo", edificio tuttora esistente nell'attuale via Moretto in città. Considerato che una buona parte dei dipinti Avogadro passa in eredità ad inizio Ottocento ai Fenaroli, e che alcuni di essi confluiscono in seguito nella proprietà della famiglia Lechi, il collegamento con la testimonianza del Carboni appare del tutto lineare. Già assegnato a Pietro Locatelli, la critica recente restituisce il dipinto all'eclettico pittore pistoiese Luigi Garzi, tra i protagonisti della pittura romana nei decenni di transizione tra Sei e Settecento. È evidente che l'intera serie, di grande qualità, fu volutamente commissionata ad artisti diversi (l'Autunno al Garzi, l'Estate a Giovan Battista Gaulli, la Primavera a Pietro Locatelli e l'Inverno a un seguace di Pier Francesco Mola), in parte legati alla cultura pittorica del tardo Seicento romano, qui riscontrabile nel classicismo scultoreo delle figure, avvolte da una luce morbida e delicatamente chiaroscurata. row-487d.fkwu~6gdb Cineseria Milano Piazza Castello row-znn7.zqp4~keij Terra di Magia (I Guerrieri del Sole) Briosco Via Col del Frejus, 3 Installazione ambientale costituita da una serie di sculture lignee raffiguranti sagome umane, sparse sul prato. Le singole figure, alte circa 245 cm, sono estremamente semplificate: la testa è di forma quadrangolare sostenuta da un lungo collo e ampie spalle; le braccia sono aderenti al corpo e arrivano con esso fino a terra, mentre le gambe e i piedi sono assenti, sostituiti da due ruote metalliche laterali. L'opera, realizzata dallo scultore Antonio Ievolella nel 1995, è stata da lui donata alla collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini, di proprietà dell'imprenditore e collezionista brianzolo Alberto Rossini, che conobbe l'artista visitando la Biennale di Venezia del 1988 e instaurò con lui un duraturo rapporto di stima e di reciproca amicizia. La particolarità delle opere di questo artista è che sembrano senza tempo: nel loro minimalismo, nell'essere state create utilizzando tecniche scultoree tradizionali e nel loro rievocare forme ataviche, mantengono vivo il ricordo di ere passate, di archetipi concettuali antichi quanto l'uomo. I "Guerrieri del Sole", guardiani della "Terra di Magia" cui si riferisce il titolo, sono figure incombenti e nello stesso tempo magiche, che raccontano di una guerra interna alla stessa mente umana. Realizzati con forme semplici ed essenziali, "forgiati" nel legno brunito e spoglio, quasi fossero appena stati estratti dalla terra, sono trascinati da grandi ruote metalliche, forme antiche che rimandano a riti pagani e rurali, segno del divenire e della creazione continua. row-9fyr~5hy9_3ay8 salita di Cristo al monte Calvario Tirano Piazza Basilica, 30 Nella tela ad olio intitolata "Salita al Calvario" un affollato corteo esce da una città, di cui si intravedono le mura e una porta fortificata sullo sfondo. Soldati a piedi e a cavallo, uomini comuni dalle facce talvolta grottesche, donne giovani e anziane fanno ala alla figura centrale di Cristo che trasporta una pesante croce, preceduto da un carceriere che fa spazio tra la folla agitando in aria un bastone. Sulla sinistra si individuano pure le schiene nude dei due ladroni che precedono Gesù. In primissimo piano, sulla destra, una donna con una curiosa acconciatura si piega verso un fanciullo indicandogli Cristo, che pare le risponda con lo sguardo. In secondo piano, tra la folla, si riconosce l¿apostolo Giovanni, dal giovane volto, che si rivolge alla Madonna ammantata di nero, sostenuta da due donne piangenti che la seguono. Il quadro proviene da palazzo Buttafava, già Negri, che si trova nel centro storico di Tirano. L'opera venne acquistata dal Centro Iniziativa Giovanile nel 1975 e conseguentemente entrò a far parte delle collezioni del Museo Etnografico Tiranese. Sconosciuti sono l'autore e l'epoca di realizzazione del dipinto. A seguito del restauro è stata proposta su base stilistica una datazione generica alla prima metà del XVIII secolo, riconoscendo nella scena alcuni elementi che fanno pensare alla maniera di Faustino Bocchi, autore di nature morte e tele paesaggistiche, noto soprattutto per i suoi dipinti di genere detti "bambocciate", popolati di esseri fantasiosi e deformi. row-weag_dsj7.9nnh Collezione di Villa Panza Varese Piazzale Litta, 1 Villa Menafoglio Litta Panza è situata sulla collina di Biumo Superiore a Varese. Dal 1996 proprietà del FAI, aperta al pubblico nel 2000, deve il suo aspetto attuale a diverse trasformazioni. Il museo comprende il piano terra e il primo piano della villa costruita nel 1748 dai Menafoglio come residenza di delizia con pianta a "U" rivolta verso il giardino. Ampliata nel 1829 dalla famiglia Litta con l'aggiunta del salone impero al piano terra, si configura nel suo aspetto attuale nel 1935 grazie all'intervento dell'architetto Portaluppi per la famiglia di Giuseppe Panza, ultimo proprietario della casa, che vi colloca la sua collezione di 137 opere d'arte contemporanea e primaria africana e precolombiana, costituite dal 1958 al 1996. Fanno parte del museo anche i rustici e le scuderie ottocentesche restaurate nel 1996 da Gae Aulenti, oggi adibite all'esposizione dell'arte ambientale della collezione Panza e alle mostre temporanee, e un grande parco all'italiana e all'inglese. L'intero complesso è stato donato al Fondo Ambiente Italiano nel 1996 da Giuseppe Panza, che ha curato ogni aspetto della musealizzazione, dal percorso di visita all'allestimento delle opere: criterio generale è di riservare un ambiente per ciascun artista, permettendo al visitatore un'immedesimazione totale nella sua poetica, facendo interagire con studiato equilibrio le opere d'arte contemporanea con gli arredi e con l'architettura e privilegiando l'illuminazione naturale a quella artificiale come fonte più idonea per valorizzare i cromatismi delle opere. Negli ambienti di Villa Panza sono esposte tre diverse collezioni che l'ultimo proprietario, Giuseppe Panza, ha raccolto dal 1958 al 1996 o ereditato dalla famiglia, donate al Fondo Ambiente Italiano nel 1996: la collezione di 137 opere d'arte contemporanea, la raccolta di arte primaria africana e precolombiana, gli arredi dal XV al XX secolo e alcuni oggetti e arredi originali della villa, costituendo un insieme complesso, ma armonico e unitario. Giuseppe Panza (Milano, 1923-2010) ha raccolto nella villa a partire dal 1958 un'ampia collezione di arte contemporanea, che arriva a contare nel 1996 più di 2500 pezzi, poi divisa in diversi musei. A Villa Panza sono esposti alcuni nuclei dell'ultima fase di questa raccolta: al piano terra e al primo piano sono esposte le opere minimal e monocrome, l'arte organica e concettuale di artisti tra i quali Phil Sims, David Simpson, Ruth Ann Fredenthal, Max Cole, Ford Beckman, Ross Rudel, Alfonso Fratteggiani Bianchi ed Ettore Spalletti, armoniosamente accostati a preziosi arredi del XV, XVIII e XIX secolo ed esemplari di arte africana e precolombiana. Le stanze dei rustici e delle scuderie sono state trasformate tra il 1973 e il 1976 in altrettante opere d'arte ambientale: si possono tuttora ammirare le opere create, tra gli altri, da Dan Flavin, James Turrell, Robert Irwin e Maria Nordman, alcune delle quali appositamente per i locali durante il soggiorno degli artisti a Villa Panza. row-zsux-hncy~568y Figura di bambino seduto Casteggio Palazzo Certosa Cantù, via Circonvallazione, 64 La raffinata statuetta in bronzo, alta 7 centimetri, raffigura un bambino seduto, privo degli avambracci e della gamba destra, con il corpo fortemente inclinato in avanti; il braccio destro era proteso e il sinistro verosimilmente allungato verso il basso; la gamba sinistra è ripiegata verso l'interno e la destra originariamente portata in avanti. Si tratta di un'opera di qualità, come denota la cura dei particolari nel trattamento del corpo adiposo e nella realizzazione tecnica: gli occhi in argento conferiscono un tocco di colore e di preziosità a un elemento decorativo già caratterizzato dalla piacevolezza del soggetto. Il volto paffuto e dal collo breve, quasi incassato nelle spalle, è girato verso destra e presenta dettagli ben definiti quali i capelli a corte ciocche, dallo scarso risalto, segnate da tratti sottili. La statuetta si ispira a modelli dell'Ellenismo e in particolare a un prototipo illustre: la statua di bambino seduto che poggia la mano sinistra su una volpoca, quasi soffocandola, mentre alza il braccio destro e il viso in un'espressione di stupore, riprodotta negli esemplari marmorei di Vienna e di Firenze. In tale tipo statuaria si vuole riconoscere la replica dell'opera di Boethos descritta nel IV Mimiambo del poeta greco Eroda, posta nell'Asklepieion dell'isola di Kos e creata intorno alla metà del III secolo a. C. Il bronzetto di Casteggio, pur lacunoso, ne ripete esattamente l'impostazione del corpo, decisamente proteso in avanti, e la posizione di braccia, gambe e testa. La capigliatura è strutturata diversamente mentre è assente dal viso l'espressione di stupore: sono motivi che rimandano alle numerose rielaborazioni del modello, utilizzato in epoca ellenistico-romana anche per la rappresentazione di Eracle bambino che strozza i serpenti mandati da Era, schiacciandone uno a terra e soffocando l'altro con la manina destra alzata, puntuale il paragone con l'Eracle della Biblioteca Nazionale di Parigi, di uguale altezza. In assenza di attributi non è determinabile con sicurezza il soggetto rappresentato nel bronzetto di Casteggio, anche se il tema del bambino con un animale appare il più probabile. La freschezza del modellato, la sensibilità per i valori plastici, la cura della realizzazione fanno pensare a una datazione nel I-II secolo d. C. row-3bx6.dghr-i6tr Desenzano del Garda Via Tommaso Dal Molin 7/c Il coltello presenta una lama a profilo sinuoso con tre sottili linee incise parallele all'andamento del dorso. Sotto queste ultime si individua una teoria di archetti semicircolari tracciati con piccoli punti impressi, alcuni impreziositi internamente da altri archetti battuti con uno strumento ricurvo. In corrispondenza dell'estremità della lama, verso il nodo di raccordo con l'impugnatura, sono incisi, sempre con punti impressi, almeno tre uccelli acquatici. Il passaggio al manico è caratterizzato da un secondo nodo al quale si innesta direttamente l'impugnatura che termina a coda di rondine. L'estremità dell'immanicatura, purtroppo non conservata, doveva presumibilmente essere conformata ad anello, come noto per esemplari di coltello simili rinvenuti a Pastrengo (Verona) e a Frattesina (Rovigo). Il coltello, inteso come strumento per tagliare con un solo lato affilato, è un'innovazione introdotta in Italia a partire dal 1300 a.C. circa; prima infatti esistevano solo pugnali, dotati di filo su entrambi i lati. In termini di tipologia archeologica, l'esemplare in esame si colloca fra il tipo "Matrei varietà B", per la presenza del nodo di raccordo inferiormente sporgente, e il tipo "Vadena varietà A", per la forma della lama e per la lingua da presa preceduta da un nodo.Rinvenuto nel sito archeologico palafitticolo del Lavagnone (Desenzano d/G) il manufatto è da considerare di particolare pregio, come dimostrano l'accuratezza dei dettagli, l'utilizzo di materiali preziosi, simbolo di prestigio dell'antico proprietario, e il fatto che originariamente la lama del coltello, in bronzo, doveva presentare una lucentezza quasi dorata. La decorazione sulla lama costituisce un ulteriore testimonianza della raffinatezza e del significato simbolico dell'oggetto: gli uccelli acquatici sono infatti spesso raffigurati mentre trainano la barca solare, simbolo della ciclicità della vita, secondo una concezione diffusa in Italia e nell'Europa centrale, almeno fino ai primi secoli dell'età del Ferro (IX-VII secolo a.C.). row-4kc3.4g3a_jmhf Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina da Siena Gandino Piazza Emancipazione Il paliotto, realizzato in argento sbalzato e cesellato su un fondo di rame dorato, presenta al centro la raffigurazione della Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina da Siena, santi che introdussero e diffusero la devozione del Rosario, entro un'ampia decorazione con girali d'acanto con grappoli d'uva e due angeli che sorreggono il rosario e lo scudo, simbolo del rosario che difende la fede. Intorno una larga cornice rettangolare è decorata da angioletti che sostengono otto simboli delle litanie mariane, o lauretane, che sono le suppliche che si pregano alla fine del Rosario invocando la Vergine con appellativi come"Torre d'avorio", "Porta del cielo", "Sede di Sapienza", "Rosa mistica", "Arca dell'Alleanza" o "Casa d'oro". I due cani con la fiaccola in bocca che incendia il globo sono riferimenti a San Domenico, la cui madre aveva sognato di dare alla luce un cane che correva con la fiaccola in bocca e infiammava il mondo. Questo paliotto, vero capolavoro di argenteria, fa parte del cosiddetto "Altare d'argento" che è il rivestimento d'argento dell'altare maggiore della Basilica di Gandino, ancora oggi impiegato in alcune festività particolari. Dedicato alla Madonna del Rosario, fu probabilmente concepito inizialmente per essere apposto sia all'altare del Rosario nella stessa chiesa sia al più grande altare maggiore, per essere adattato al quale furono realizzati anche due pannelli verticali da collocarsi ai lati. Il doppio utilizzo sarebbe confermato dalla presenza tra le decorazioni di numerosi grappoli d'uva, simbolo eucaristico non strettamente correlato al Rosario e voluto probabilmente dalla Confraterinata del Santissimo Sacramento che si occupava del decoro dell'altare maggiore. L'autore di questa straordinaria opera fu probabilmente l'orafo di Augusta (Augsburg) Christian Winter, come documentano la presenza del punzone CW e di quello territoriale con un tipo particolare di pigna, marchio territoriale di Augusta tra il 1700 e il 1705. Una recente ipotesi di A. Sommers non esclude tuttavia che l'autore possa essere il quotato argentiere J. Caspar Winter, che operava ad Augsburg tra il 1687 e il 1723. row-naat_zf44~iks8 Sant'Eustachio Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Il raro mosaico pavimentale policromo con scene del Martirio di S.Eustachio proviene da S. Maria del Popolo, scoperto nel 1936 in occasione delle demolizioni delle due cattedrali gemine romaniche. Xavier Barral I Altet, massimo studioso di pavimenti romanici, lo considera tra più bei mosaici medievali conservati in Occidente. Nel Medioevo i pavimenti a mosaico, molto apprezzati e molto costosi, costituiscono una parte essenziale dell'ornamentazione degli edifici e Pavia in particolare conservando una quantità considerevole di litostrati, esemplifica molto bene questa situazione.Nel consistente nucleo di litostrati pavimentali presenti nelle chiese pavesi (S.Teodoro, S.Michele, S.Pietro in Ciel d'Oro) o provenienti da architetture perdute (S. Maria del Popolo, S. Invenzio, Santa Maria alle Stuoie), questo in particolare risulta di notevole interesse per la rarità del soggetto raffigurato. L'iconografia della Passione di S.Eustachio si ritrova unicamente nei capitelli della basilica romanica di Vézelay in Borgogna e nel chiostro di Monreale in Sicilia, il litostrato pavese rappresenta quindi un unicum, il solo esempio musivo conservato. La narrazione è espressa con mezzi semplici ed efficaci, senza rispetto della sequenza degli episodi, con grandi pannelli rettangolari. Eustachio, valoroso ufficiale, che si converte al cristianesimo dopo essersi imbattuto in un cervo con una croce luminosa tra le corna, viene martirizzato dall'imperatore Adriano. Nella porzione centrale sono rappresentate in due tempi le fasi del martirio: i tre aguzzini (speculatores) conducono Eustachio con le mani legate davanti ad Adriano, riconoscibile da manto, corona e scettro; quindi il Santo viene dato in pasto ad una belva (si leggono solo le zampe) in presenza del sovrano. Le scene sono inquadrate entro finte architetture con archi ribassati su colonne e le figure identificate da iscrizioni. Molto frammentari il pannello superiore in cui sono ritratti due "carnifices" (si evidenza la correzione dell'iscrizione errata "carnices") e quello a terra in cui una figura con un animale al guinzaglio si dirige verso altre due con un altro quadrupede. I registri istoriati a figure sono compresi entro variegate fasce decorative, con motivi desunti liberamente dai consueti repertori (meandri, motivi geometrici a rombi e triangoli), ma anche dalla scultura (palmette entro volute). A conferire vivacità alla composizione contribuiscono i preziosi inserti di "opus sectile" (impiegò di frammenti di marmo di spessore e misure differenti) e la policromia, anche se come semplice arricchimento di una linea di contorno, vera protagonista. Gli scavi archeologici condotti nella vicina e oggi perduta Torre Civica hanno permesso di recuperare un deposito di tessere, utilizzate per i mosaici di Santa Maria del Popolo, provenienti con certezza da mosaici romani demoliti e anche due monete del tardo XI secolo che hanno aiutato nella datazione dei litostrati. row-ncf7_q39q-astr Forme uniche della continuità nello spazio, Forma unica della continuità nello spazio, Linea unica della continuità nello spazio Milano Piazza Duomo row-uesc.jw7b-85es ritratto maschile Milano Piazza Castello row-8a77.h6h9~awj5 Stemma Marlianici, la Fortuna e Mercurio, Prospettive architettoniche, fiori, strumenti musicali e armi Sondrio Piazza Campello 1 La stüa è un tipico ambiente valtellinese rivestito interamente con pannelli di legno che rendono la stanza calda ed accogliente, talvolta abbellita con decorazioni ad intaglio o intarsio. La boiserie conservata a palazzo Pretorio risale al XVI secolo ed è in legno di pino cembro con inserzioni in noce. Le tarsie sono realizzate con legni di varie essenze e colore, talvolta tinti. Le pareti sono costituite da specchiature rettangolari con cornici modanate, alternate a lesene sulle quali si imposta un sottile architrave. Il soffitto a lacunari geometrici è suddiviso in cinque scomparti principali quadrati decorati ad intarsio. In quello centrale è rappresentato lo stemma Marlianici, antica famiglia valtellinese; nei laterali l'allegoria della Fortuna e Mercurio. Tre pareti portano al centro altrettanti armadietti detti "stipi", decorati con cornici e pannelli intarsiati. L'ingresso principale - oggi non più in uso - è incorniciato da due colonne con architrave e fregio intagliati nel legno; la porta è abbellita da due specchiature con finte vedute architettoniche in prospettiva. I pannelli della stüa provengono da un palazzo cinquecentesco che un tempo sorgeva nel centro storico di Sondrio, a margine della piazzetta dell'Angelo Custode, abbattuto a metà del XX secolo. Per evitare che le pregevoli pareti lignee andassero distrutte, il comune di Sondrio le acquistò per rimontarle all'interno di palazzo Pretorio, dove ancora oggi abbelliscono la stanza che funge da ufficio del sindaco.Il confronto stilistico con altre stüe locali, in particolare quella di casa Azzola Guicciardi a Ponte in Valtellina e quella inferiore di palazzo Vertemate Franchi di Piuro, entrambe datate con sicurezza, consentono di collocare la realizzazione del manufatto sondriese tra l'ottavo e il nono decennio del XVI secolo. I preziosi intarsi in legni di vari colori ripropongono un repertorio figurativo caro alla tradizione umanistica del Rinascimento, fatto di scorci prospettici su città immaginarie, strumenti musicali, armi, decorazioni floreali, allegorie e motti carichi di messaggi moraleggianti, tipici degli ambienti colti. row-nfnv.d4bq~ksgt Crema Piazzetta Winifred Terni De Gregory, 5 A un osservatore moderno avrebbero sicuramente dato l'impressione di tappeti di pietra i pannelli mosaicati che rivestivano il pavimento dell'ambiente 17 della villa tardoantica di Palazzo Pignano. Non si tratta, infatti, di un'opera caratterizzata da una decorazione unitaria, ma di un complesso assai variegato, in cui i diversi settori si giustappongono l'uno all'altro, mostrando volutamente profonde differenze nei motivi decorativi. Dai frammenti conservati si possono ricostruire almeno quattro pannelli diversi, separati tra loro da una cornice a tondi e volute, mentre un quinto pannello, andato perduto, è testimoniato dalla documentazione di scavo. Se si pensa che la reale estensione dell'ambiente 17 non è nota, si può supporre che altri pannelli facessero parte del progetto decorativo. Il pannello più ampio conservato presenta un motivo a cerchi allacciati, al centro dei quali si trova un fiore stilizzato in tessere bianche e rosse. A destra era collocato il pannello a ottagoni intrecciati, mentre il centro della stanza era occupato dai due pannelli decorati l'uno a rombi e l'altro a pelte, di cui rimangono ridotti frammenti, comunque sufficienti alla loro ricostruzione. La visita al Museo Civico di Crema, dove l'allestimento mostra quale fosse la reciproca posizione dei pannelli, oltre a suscitare meraviglia per la complessità dell'ideazione, servirà sicuramente da stimolo per una sosta al sito archeologico di Palazzo Pignano, E' durante alcune operazioni di aratura, eseguite nell'ottobre del 1969, in campo Balzarina, a Palazzo Pignano, che si scoprono i primi resti di una grande villa di età tardo-romana, di cui da tempo si sospettava l'esistenza. Il primo nucleo a essere portato in luce è quello occidentale, costituito da un grande portico ottagonale, attorno al quale sono distribuiti ambienti di varie forme e dimensioni. E' proprio da questo settore della villa , precisamente dall'ambiente 17, che provengono i mosaici ora conservati al Museo Civico di Crema. Insieme ai mosaici dell'ambiente 6, ancora collocati sul posto, sono quelli che presentano le migliori condizioni di conservazione e questo ha permesso agli studiosi di ricostruire con una certa sicurezza l'aspetto originario dell'intero complesso pavimentale. Confrontando i motivi ornamentali con quelli di altri mosaici rinvenuti nell'Italia settentrionale, si è potuta precisarne la datazione, che rimanda alla metà del V sec. la realizzazione del progetto decorativo dell'intera villa. Anche se interventi successivi all'abbandono della struttura hanno portato alla parziale distruzione del pavimento, non sono riusciti, tuttavia, a cancellarne le ultime tracce di splendore, che ancora emergono evidenti davanti ai nostri occhi. row-gucy-ungt~488g Gonfalone di Sant'Ambrogo Milano Piazza Castello row-hb42_7n9c-2py8 Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Il Regolamento del "Consorzio delle Corti", tutt'oggi ancora esistente con la denominazione di 'Consorzio delle Frazioni Corti e Acero', è costituito da una tabella cartacea di forma rettangolare, montata su tavola con cornice verniciata di scuro. Sulla tabella è riportato il testo del regolamento originario dell'associazione. Realizzato nel 1886, il pannello con le regole scritte era affisso nella sede del Consorzio e veniva consultato ogni qualvolta ve ne fosse stato bisogno o in caso di controversie. La parte superiore del riquadro è decorata da un fastigio semicircolare, con pomelli decorativi ai lati, nel cui interno sono disegnati rami di alberi su cui sono posate due civette. Il Consorzio delle Frazioni Corti e Acero, chiamato in origine "Cassetta" o "Capitale dei morti", nasce da un'antica tradizione religiosa per la quale gli abitanti di Campodolcino conferivano donazioni a un fondo i cui proventi venivano utilizzati per il suffragio dei cari estinti e per azioni di carità. L'abate Antonio Foppoli, trasferitosi a Campodolcino negli anni Settanta del XVIII secolo per la cura pastorale e l'insegnamento, destinò il proprio vitalizio alla Cassetta. Con questo apporto, e per l'impegno del sacerdote, la Cassetta si trasformava in un'associazione per far fronte ad alcune esigenze della comunità come l'istruzione o l'esercizio del credito. La risposta efficace a queste esigenze portò ad allargare il numero dei consociati fino a farlo coincidere con quasi tutta la comunità. Questa identità conferiva implicitamente alla Cassetta una natura di istituzione civile del territorio, che permetteva di regolare e risolvere alcuni aspetti civili ed economici di stretta pertinenza locale, di soddisfare esigenze della comunità e di fungere da indirizzo e controllo della struttura sociale e del sistema economico. row-d72v_tq46.f6cr Milano Via San Vittore, 21 row-casx_dxns~xcej Teglio Via Fabio Besta, 1 La cosiddetta "stele di Tirano" è stata realizzata incidendo una lastra di forma approssimativamente rettangolare con la parte superiore arrotondata e la base piatta. La faccia anteriore e il fianco destro si presentano levigati, mentre quella posteriore è solo sbozzata. Le incisioni, ottenute con un attrezzo appuntito, si trovano quasi tutte sulla faccia liscia e fanno in gran parte riferimento al tema della caccia: in alto al centro compare un quadrato campito da due linee curve, nella parte mediana sono rappresentati un gruppo di stambecchi, contrapposti a un'ascia e a un'alabarda, insieme a una serie di altri animali e alla figura di un arciere. Si distinguono inoltre un pugnale a pomo semicircolare con il relativo fodero e, nella parte bassa, un cinturone a festoni. Sul fianco sinistro sono incisi altri tre animali, mentre sulla faccia posteriore, in alto, è riprodotta l¿immagine di uno stambecco. La storia del rinvenimento di questo importante reperto preistorico è particolare: la stele fu segnalata nel 1981 presso una discarica di pietrame vicino al paese di Lovero, di conseguenza per anni fu denominata con il nome del luogo di ritrovamento. In realtà pare provenga dal centro storico di Tirano, dove sarebbe riemersa durante i lavori di scavo per la costruzione di un palazzo.La bellissima stele di Tirano assume una particolare valenza per la documentazione della storia più antica della Valtellina in quanto finora è l'unica ad essere stata rinvenuta al di fuori del contesto collinare di Teglio. Il manufatto risale all'età del Rame, e viene datato al periodo compreso tra il 2800 e il 2400 a.C. row-5eeb-qrd8.n6ge Bergamo Piazza Duomo Il battistero ha attualmente una struttura modificata rispetto all'assetto originario. Lo sviluppo in altezza era inferiore dell'attuale, mentre le otto finestre erano più ampie e delimitate in origine da una sequenza più numerosa di colonnine: costituivano una sorta di diaframma traforato che metteva in relazione l'interno della struttura con l'esterno. Sugli spigoli della cappella ottagonale vi sono otto pilastrini in marmo rosso di Verona entro i quali sono scavate nicchie con le figure allungate delle tre Virtù Teologali (Fede, Speranza, Carità) e delle quattro Cardinali (Fortezza, Temperanza, Giustizia, Prudenza) con l'aggiunta della Pazienza: sotto ciascuna di esse è raffigurato il Vizio corrispondente. All'interno, scomparsa l'antica vasca a immersione ottagonale, i rilievi che ornavano le sue otto facce sono stati ricollocati sulle pareti del piccolo tempio. La statua di San Giovanni Battista, che era posta in origine al centro della vasca sotto un baldacchino, è ora sistemata in posizione dominante sulla parete di fronte all'ingresso. I Maestri campionesi sono architetti e scultori lombardi così chiamati per la comune origine dalla città di Campione sul lago di Lugano nel Ticino e attivi tra il XII e il XIV secolo in Val Padana tra Bergamo, Monza, Milano e Modena. Giovanni da Campione, uno dei principali esponenti di questo movimento di artisti, esegue come sua prima opera bergamasca, tra il 1340 e il 1341, il battistero in marmi scolpiti collocato in origine nella campata occidentale della navata centrale della Basilica di S. Maria Maggiore. Perché non più confacente agli usi liturgici, il battistero fu smontato e rimosso nel 1660 e dal 1691 riallestito nella cappella battesimale del Duomo. Spostato nel 1856 nel cortile della Canonica fu ricostruito "in stile" nell'attuale collocazione tra il 1898 e il 1899 su progetto di Virginio Muzio. Un ricordo della struttura originaria è presente in una incisione di Simone Durello, pubblicata nel 1676 nella "Effemeride" di padre Donato Calvi. L'architettura originaria della cappella era più larga e meno slanciata dell'attuale. Come vuole la tradizione dei battisteri cristiani la pianta era ottagonale e lo era pure l'antica vasca ad immersione interna, ornata con gli otto rilievi delle "Storie di Cristo", oggi fissati alle pareti del piccolo tempio. Il legame tra l'ottagono e il rito battesimale fu stabilito da Sant'Ambrogio quando disse: "...era giusto che l'aula del sacro battistero avesse otto lati perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all'alba dell'ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte". Sugli otto spigoli esterni i pilastrini mostrano ad altorilievo le figure femminili delle Virtù: lo stile vigoroso e possente ha fatto credere che alla loro esecuzione abbia partecipato anche l'anziano padre Ugo, figura di artista ancora poco conosciuta, ma si tratta invece dei capolavori di Giovanni, caratterizzati da un finissimo trattamento delle superfici e da una innovativa concezione plastico-architettonica. In posizione dominante vi era all'interno la grande statua di San Giovanni Battista a grandezza naturale, tuttora conservata e apprezzabile per l'austera concentrazione formale. I rilievi, che ornavano in origine i lati della vasca battesimale, sono caratterizzati da un rude realismo e da energia plastica e ricordano da vicino la scultura romanica, ma certamente gotici sono l'estro fantasioso nella narrazione e l'addensarsi dei personaggi in uno spazio privo di profondità prospettica. Nati in questo contesto culturale, i rilievi sono riferibili a diversi artefici, evidentemente diretti collaboratori di Giovanni, ma in parte anche allo stesso "magister". row-6jn6_2aw2.uymv Vittoria alata Brescia Via dei Musei, 81/b La statua riproduce una figura femminile, volta leggermente verso sinistra e vestita con una tunica fermata sulle spalle (kiton) e un mantello (himation) che avvolge le gambe. La statua è realizzata con il metodo della fusione a cera persa indiretta e risulta costituita da almeno trenta parti fuse singolarmente e saldate poi tra loro; è inoltre rifinita con strumenti a punta che ne definiscono con precisione i dettagli. Alla testa è applicata una agemina in argento e rame che cinge la capigliatura. Gli studi più recenti ne datano la produzione durante il secondo quarto del I secolo d. C. e la attribuiscono ad un'officina bronzistica di alto livello dell'Italia settentrionale.La posizione della figura, con una gamba leggermente sollevata e le braccia avanzate, si spiega con la presenza in origine di alcuni attributi che permettevano di identificarne il soggetto. Il piede doveva infatti poggiare sull'elmo di Marte, il dio della Guerra, e il braccio sinistro doveva trattenere uno scudo, sostenuto anche dalla gamba piegata, sul quale erano incisi il nome e le gesta del vincitore (con queste caratteristiche veniva infatti rappresentata dai romani la dea Vittoria).La statua è dedicata alla dea probabilmente da una personalità importante in qualità di ringraziamento (ex voto) per un successo militare e poteva forse essere esposta all'interno del tempio o in un edificio pubblico della città, probabilmente il Capitolium (isolata, o forse associata alla figura maschile il cui nome era riportato sullo scudo che la Vittoria tratteneva).L'iconografia della Vittoria alata è ben documentata nell'arte romana, soprattutto su monete e rilievi di età imperiale. Il tipo custodito a Brescia costituisce una variante di una statua della fine del IV secolo a.C., l'Afrodite cosiddetta "Capua", raffigurata mentre si ammira seminuda nello specchio che tiene tra le mani. Questo modello venne riprodotto in numerosi esemplari a partire dal II secolo a.C. Successivamente lo schema iconografico dell'Afrodite è trasformato in Vittoria con l'aggiunta della tunica e delle ali e sostituendo lo specchio con lo scudo sul quale la divinità incide il nome del vincitore. Questa variante gode di larga fortuna a partire dal I secolo d.C. La statua, scoperta il 20 luglio del 1826 in occasione degli scavi archeologici promossi dai membri dell'Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Brescia, costituisce il pezzo più significativo tra i materiali rinvenuti presso il Capitolium e uno dei pochi casi di statue in bronzo conservatesi, l'unico in Italia settentrionale: con il passaggio al Cristianesimo come religione ufficiale dell'Impero, i simboli pagani vengono infatti distrutti e, nel caso di materiali bronzei, fusi. Per preservarla da tale sorte, la statua fu nascosta in un'intercapedine del tempio, motivo per cui essa è giunta a noi.A partire dal 1826 la fama della Vittoria di Brescia si diffonde in tutta Europa, al punto che Napoleone III, ospite a Brescia prima della battaglia di Solferino, nel giugno 1859, visitò il Museo Patrio e rimase così colpito dalla bellezza della statua che chiese di poterne avere una copia, ora esposta al Louvre. row-58ks~8e5m.2mcr Ritratto di Paolo Morigia Milano Piazza Pio XI, 2 row-xz6e-437a-9yiu Ritratto di Elisabetta Sottocasa Vimercate Via Vittorio Emanuele II, 53 Eseguita presumibilmente dal vero, la tela ritrae a figura intera la contessa Elisabetta Sottocasa (1838-1904), moglie del cavaliere Luigi Ponti. La nobildonna, ripresa in esterno su una terrazza affacciata su di un parco, è colta nell'atto di volgersi verso il pittore mentre ancora raccoglie a sé il pesante strascico della veste da passeggio. Oltre la terrazza, una vibrante quinta vegetale fa da sfondo alla bellezza matronale della donna in abito scuro di velluto, ingentilito da candidi pizzi e punteggiato da guarnizioni di seta blu, rischiarata da un raggio di sole che illumina la dolcezza composta e triste del volto. Le foglie morte cadute sull'impiantito introducono una nota malinconica e allusiva alla caducità della vita e, con essa, della bellezza.Senza rinunciare alla descrizione accurata e vezzosa dell'abbigliamento, al gioco di neri e di blu profondi o ai soffici tocchi di bianco dei pizzi, alla raffinata descrizione dei guanti che la donna tiene tra le mani, il pittore si libera dai limiti di un superficiale gusto descrittivo e riesce a suggerire un legame insolito e quasi inquietante tra la figura della donna e lo sfondo, in cui le sovrapposte tonalità di verde, accanto agli azzurri chiari e scuri, lasciano intuire una vegetazione avvolgente, riflessa in uno specchio d'acqua immobile e cupo, carico di suggestioni indecifrabili che annunziano, al di là del naturalismo, una precoce dimensione simbolista. I nastri di seta blu spiccano sull'acconciatura e sulle vesti mostrando un azzardo cromatico di natura scapigliata. La tela reca in basso a destra, scritte in rosso, la datazione e la firma del pittore. Il dipinto, commissionato a Mosè Bianchi dal cavalier Luigi Ponti e portato a termine nel 1874, viene considerato la prova più alta della ritrattistica del Bianchi, artista eclettico formatosi all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, venuto a contatto con l'ambiente della scapigliatura. Dopo una serie di esperienze sulla pittura di soggetto storico, completò la sua formazione artistica soggiornando a Firenze, Roma, Venezia e Parigi, lasciandosi influenzare sia dal gusto neosettecentesco ispirato allo stile di J.L.E. Meissonier, di M. Fortuny e dalla lezione della grande pittura veneta, sia dai temi più avanzati della ricerca verista. L'importanza di quest'opera fu immediatamente avvertita, tanto che il dipinto, esposto nello stesso anno a Brera, ottenne il prestigioso premio Principe Umberto. Qualche riserva in merito alla vittora fu avanzata da parte della critica, non tanto per la capacità tecnica raggiunta dall'autore che appariva fuori discussione, quanto per il genere del ritratto, considerato meno impegnativo e nobile rispetto a soggetti di tema storico e religioso.Tuttavia, in virtù di questo grande successo, la tela fu inviata nel 1878 all'Esposizione Universale di Parigi e riproposta poi nelle due grandi mostre retrospettive che la città di Monza dedicò al suo pittore più rappresentativo. Nel 1924, infatti, il ritratto fu esposto nella mostra realizzata in occasione del ventennale della morte di Mosè Bianchi, mentre nel 1987 venne esposto nelle sale della Villa Reale, indicandolo come la migliore prova del Bianchi ritrattista. Del dipinto esistono due bozzetti preparatori a matita su carta, conservati presso il Civico Gabinetto dei Disegni al Castello Sforzesco di Milano, relativi allo studio della figura intera e alla raffigurazione del volto di Elisabetta Sottocasa.L'opera rimase di proprietà della famiglia Sottocasa fino al 2001, quando venne acquisita dal Comune di Vimercate. row-5a7m-sbr4_iw3e Collezione del Museo Civico Archeologico Giovanni Rambotti Desenzano del Garda Via Tommaso Dal Molin 7/c Le collezioni del Museo Archeologico di Desenzano sono tra le più ricche nell'ambito di quelle dedicate ai materiali palafitticoli del Garda occidentale, provenienti sia dagli insediamenti oggi sommersi del lago sia da quelli sepolti nelle torbiere delle colline moreniche che lo circondano. Lungo il percorso espositivo, all'interno di vetrinette, sono posizionati reperti preistorici e archeologici di corredi tombali (ceramiche), materiali di insediamento (tra cui oggetti in metallo, terracotte, ossi, selci) e materiali sporadici. Pezzo unico al mondo è l'aratro in legno di quercia, pressoché completo, proveniente dall'insediamento palafitticolo del Lavagnone e risalente all'età del Bronzo (2000 a.C.). Un cospicuo numero di reperti oggi conservato nel museo, proviene dalla collezione dell'avvocato desenzanese Emilio Mosconi, che raccoglie pregevoli manufatti rinvenuti presso il sito palafitticolo del Lavagnone (frazione di Desenzano d/G), da lui donati al Comune all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Al legato Mosconi appartiene, tra gli altri, un coltello messorio dell'età del Bronzo con immanicatura in legno e lame in selce straordinariamente conservatosi integro (2000 a.C.). Altri reperti sono quelli recuperati da privati e dal Gruppo Archeologico di Desenzano (G.A.D.), tra i quali un coltello con immanicatura in osso e lama in bronzo decorata con un motivo ad anatrelle (XII-XI secolo a.C.). Materiali del Lavagnone provengono anche dagli scavi archeologici condotti da Renato Perini negli anni Settanta del Novecento, tra i quali il celebre aratro in quercia risalente all'età del Bronzo, simbolo del museo, e dagli scavi tuttora in corso condotti dall'Università degli Studi di Milano. Le collezioni relative alle altre palafitte gardesane (Polada, Cattaragna, Corno di Sotto, Moniga, Padenghe, Lugana Vecchia, Porto Galeazzi, Maraschina) si sono costituite grazie a raccolte di superficie effettuate a partire dalla fine dell'Ottocento condotte da appassionati e gruppi subacquei locali. Recentemente un cospicuo lotto di materiali è stato concesso in deposito al museo da parte della Soprintendenza Archeologica della Lombardia e del Museo di S. Giulia di Brescia. Accanto ad una piccola ma preziosa collezione di materiali mesolitici e neolitici, formatasi grazie ai ritrovamenti di gruppi archeologici locali, dal 2014 il museo ospita anche materiali di epoca romana e rinascimentale, provenienti dalla Villa romana di Desenzano e dall'edificio medievale rinvenuto in località Faustinella a Desenzano. row-vafq_nmyt_mrd3 Madonna in trono col Bambino, san Michele e san Vincenzo Ferrer Cremona Via Ugolani Dati, 4 La Madonna siede su una sorta di trono costituito dalle rocce di una montagna, parzialmente coperto da un drappo e porge il Bambino a San Vincenzo Ferrer che gli stringe una mano, sul lato sinistro San Michele tiene nella mano destra una bilancia con due anime e con la sinistra brandisce una spada minacciando il demonio che schiaccia sotto i piedi. Uno sprazzo di paesaggio è appena visibile sul lato destro. Grazie al documento di commissione, rintracciato da Robert Miller nel 1997, è stato possibile ricostruire le vicende legate alla committenza della Madonna in trono col Bambino, san Michele e san Vincenzo Ferrer, realizzata da Camillo Boccaccino tra il 1543 e il 1544. Nel 1518 Giulio Oldoini aveva destinato 300 lire per ornare il sepolcro fatto erigere nella cappella di famiglia, dedicata all'arcangelo Michele, nella chiesa di San Domenico. L'esecutore testamentario, Giorgio Oldoini, muore prima di soddisfare il legato, saranno quindi i suoi eredi, nella persona di Gian Giacomo Oldoini, a commissionare la pala d'altare a Camillo Boccaccino il 30 ottobre 1543, richiedendo che dovesse essere pronta per la Pasqua successiva. I pagamenti attestano che l'opera venne consegnata tra la Pasqua e l'autunno 1544. Appena prima della distruzione della chiesa di San Domenico, verso il 1864-5, la tela subì diversi trasferimenti - nel palazzo di giustizia e in palazzo comunale - finchè pervenne al Museo. L'opera riveste grande importanza nella produzione di Camillo per le brillanti soluzioni compositive, gli accordi cromatici e la raffinata eleganza delle figure che nella torsione delle posture e nei colli allungati, risentono dell'influenza della maniera dell'ultimo Parmigianino. row-7jes~qfu5~w4ga Busto commemorativo di Girolamo Ghirlanda Varese Via Cola di Rienzo, 42 La scultura in marmo che raffigura un uomo adulto fu eseguita da Vincenzo Vela che qui volle raffigurare Girolamo Ghirlanda nel formato del busto a erme, che prevede la rappresentazione del soggetto con un taglio alle spalle a tronco di trapezio. Il soggetto presenta una capigliatura folta e una corporatura robusta che non smentisce la fama di Vincenzo Vela come uno dei più noti e dotati scultori ticinesi dell'epoca attivo anche in Lombardia. Qui viene chiamato a celebrare uno dei padri della moderna società di Varese dell'Ottocento, che qui è rappresentato in una soluzione che per Vela risulta quasi inedita e che rimanda ai soli ritratti della metà del secolo. Il ritratto, infatti mostra una soluzione frontale, a mezza figura, nel quale Girolamo Ghirlanda è 'avvolto' in una giacca a doppio petto e una cravatta vaporosa corrispondente alla moda del XIX secolo. È probabile che l'opera nasca dal contatto diretto con il modello che qui viene raffigurato con contenuta idealizzazione che suggeriscono all'autore di non indugiare nei dettagli che qui non sono particolarmente curati. Le iridi degli occhi, ad esempio, non sono ben definite e appaiono appena accennate. Il busto in marmo raffigura Girolamo Ghirlanda (Milano 1789-1851), personaggio di rilievo nella Varese della prima metà del XIX secolo. L'opera, firmata e datata da Vincenzo Vela nel 1851, fu commissionata dal figlio, Carlo Ghirlanda Silva che in quell'anno ordinò il rinnovamento della facciata e del parco della villa di famiglia ubicata a Cinisello Balsamo. La critica ipotizza che il busto sia legato a questi lavori. Il busto commemorativo non è tra le prove più brillanti dell'autore: si osserva una certa rigidità formale, ma non è comunque opinabile la perizia esecutiva. Lo stesso Carlo Ghirlanda, con la vendita della villa di famiglia a Giuseppe Frova nel 1886, decide di cedere il busto al Municipio di Varese che lo acquisisce nel 1888. Il ritratto verrà trasferito al museo nel 1913. L'opera non è esposta al pubblico fino al 1994. Presso il Museo Vela di Lingornetto è conservata una versione in gesso del medesimo ritratto il cui formato è leggermente diverso poiché prensenta anche le spalle. Questo fa pensare che il busto in marmo dei Musei Civici di Varese sia un ridotto, tratto da un progetto per monumento funebre. Alcuni studiosi lo confrontarono con questa versione in gesso ma, non avendo accesso al marmo di Varese, allora inedito, non riuscì a risalire all'identità dell'uomo effigiato.Lo stato di conservazione è discreto. Sicuramente manca la base in legno lucidato in nero citata in una lettera che Carlo Ghirlanda Silva scrisse nel 1887 all'amico Romolo Griffini per verificare che il Municipio di Varese fosse interessato al ritratto del padre defunto. row-cjbn~p9jm_x6ut Tirano Piazza Basilica, 30 Il bel portone ligneo ad arco è diviso in tre scomparti, costituiti da due battenti principali al cui centro è posto un portoncino indipendente. La massiccia struttura di legno a più strati è assemblata per mezzo di una fitta griglia di chiodi con grosse borchie. I vari scomparti presentano sobrie cornici intagliate, mentre più complesse sono le decorazioni dell'elemento centrale e degli oculi dell'arco, dove compaiono un mascherone, tralci di vite, due grappoli, corone fogliate e volute. Il portoncino centrale è provvisto di un massiccio e artistico catenaccio in ferro battuto munito di serratura. Gli elementi del meccanismo di chiusura presentano eleganti decorazioni cesellate a motivi vegetali con volute. Molto diffusa in ambito valtellinese, questa tipologia di portoni si ritrova a chiusura dei portali dei palazzi nobiliari o degli accessi lungo le cinte murarie che delimitano i loro giardini o cortili. Spesso riccamente intagliati, possono essere considerati il primo "biglietto da visita" della ricchezza e dell'importanza della famiglia proprietaria. Il portone esposto presso il Museo Etnografico Tiranese, databile al XVII secolo, proviene da Grosio e chiudeva l'accesso a una corte affacciata sulla via principale del paese, localmente denominata "Curt de Carlinasc". row-9ndt_f2wq-7txq Motivi decorativi floreali Cairate Via Molina La saletta affrescata, collocata al primo piano dell'ala San Pancrazio, attuale sede del Comune di Cairate, costituisce forse un antico parlatorio riservato alla badessa del monastero.La decorazione pittorica delle pareti è divisa su più fasce: nella parte inferiore è presente uno zoccolo decorato a finto marmo costituito da numerose formelle policrome, dove sono raffigurati, più o meno evidentemente, il ritratto di un orante (probabile finanziatore dell'affresco, appartenente alla famiglia Castiglioni o da Cairate) e una sirena bicaudata. La parte centrale della parete è dominata da uno sfondo bianco, punteggiato da raffigurazioni di fiori e pianticelle, quasi si trattasse di un erbario da parete. Il fusto di ogni pianta è avvolto da un cartiglio sul quale sono riportate scritte latine in carattere gotico minuscolo, ad oggi fortemente compromesse in quanto a leggibilità.La parte superiore della parete è invece caratterizzata da più motivi ornamentali: ad una fascia decorata con archetti dorati su fondo scuro, è sovrapposta un'altra fascia più ampia in cui si alternano riquadri bianchi ad una specie di nastro arrotolato dai colori cangianti, a sua volta sormontata da un altro sottile motivo decorativo stilizzato. L'insolito ambiente è stato identificato dalla critica come un probabile parlatorio privato della badessa, la cui decorazione sarebbe stata realizzata tra il 1465 e il 1470, quando a capo del monastero era stata eletta Antonia da Cairate (dai documenti la donna risulta possedere già tale titolo nel 1479, quando inizia la trattativa di unificazione del monastero di Cairate con quello di San Pancrazio a Villadosia). Tale datazione sarebbe confermata anche dalla presenza, sul cartiglio di uno dei garofani dipinti sulle pareti, della scritta latina "Ego Nicholaus de Cairate scripsi 1470", che potrebbe dunque costituire una preziosa datazione ante quem la realizzazione degli affreschi. Ignota rimane invece la mano dell'autore della decorazione parietale.Secondo la critica, la singolare presenza di una sirena con due code all'interno della decorazione finto marmo sulla base è un'ulteriore prova di questa collocazione temporale, intatti può essere considerata un'applicazione dei consigli dati dal Filarete nel suo "Trattato di architettura", composto per Francesco sforza nel 1465. In esso, infatti, l'architetto ricordava che i marmi in natura mostrano già segni e fessure che ricordano spesso animali e figure mitologiche, quasi a suggerire un loro duplice uso in questo senso. Quanto al significato dell'immagine, esso rimane misterioso: la sirena bifide costituisce infatti uno dei soggetti più presenti nelle decorazioni italiane fino dall'età romanica, ma senza che ne sia mai stato identificato con precisione il senso. Per alcuni studiosi si tratta di una donna nell'atto di mostrare la vulva: in una società pudica come quella del Medioevo questo soggetto era inaccettabile, da cui la sua evoluzione in un personaggio mitologico in cui le due gambe divaricate diventano le due code dell'ibrido umano-pesce. Per altri la sirena a due code è invece simbolo di femminilità e di fertilità e, nella tradizione cristiana, arriva ad assumere l'innata duplicità della natura umana (bene-male, ragione-istinto, peccato-sequela Cristi, ecc..). row-qkmj_567e~ide4 Pescarolo ed Uniti Via Mazzini, 73 L'oggetto è costituito da un pezzo quadrato di canovaccio in cotone a trama regolare, ricamato a mano con filo anch'esso di colone. Su sette righe sono ricamati con filo grigio le lettere dell'alfabeto, il nome della ricamatrice, Elisa Tagliabue, e l'anno di realizzazione, alternati da greche geometriche realizzate con filo giallo. Anche il perimetro del canovaccio è valorizzato con un ricamo curvilineo di colore giallo. L'oggetto, proveniente dall'area cremonese, veniva utilizzato da giovani donne nubili per apprendere ed esercitarsi nell'arte del ricamo. Si fissava il canovaccio su un telaio di supporto e vi si ricamavano con aghi da ricamo e filo di vari colori, generalmente a punto croce, lettere alfabetiche, numeri, parole, oggetti, greche geometriche, nonché il nome dell'esecutrice e l'anno di realizzazione. L'oggetto è in buono stato di conservazione. row-vp8z.cgw7~3m5d Terre sur marron foncé Lissone Viale Padania, 6 Il dipinto è caratterizzato da una particolare tecnica gestuale, intuitiva ed estremamente disinvolta. L'opera è costruita mediante stratificazioni di materiali poveri, quali olii, sabbie e colle, giustapposti fino a raggiungere uno spessore di alcuni centimetri. La stesura è stratificata e grumosa: si alternano colature di tempera, pasta raggrumata e densi strati di colore, compatti ma non omogenei, che registrano le impronte stesse dell'artista. Sono inoltre presenti colate di smalto nero nella parte inferiore, su cui è rimasta impressa una trama, forse derivante dalla pressione "a fresco" di un tessuto. La povertà della scelta cromatica, giocata su tonalità scure e brune (come il colore steso uniformemente sullo sfondo che lascia trasparire la trama della tela) e su quelle più sobrie del beige, contrasta con l'intensità dei segni, delle incisioni a graffito e delle asportazioni operate sulla superficie della pasta pittorica tramite strumenti di varia natura. Nel 1957 il quadro ha ottenuto uno dei sette Premi per la giovane pittura internazionale indetto dal X Premio Lissone, primo dei molti riconoscimenti internazionali attribuiti ad Antoni Tàpies, uno dei maggiori artisti catalani sensibili alla cultura figurativa dell'Informale internazionale, fenomeno all'epoca di grande attualità riferibile a personalità come Fautrier, Burri, Mathieu e Hartung.Si tratta di un'opera rappresentativa della ricerca nell'ambito delle sperimentazioni intraprese dall'artista a partire dai primi anni '50, con attenzione all'esplorazione delle infinite possibilità espressive intrinseche nella materia. Nella poetica di Tàpies il quadro non rappresenta delle cose ma è una cosa, non racconta una realtà bensì diviene esso stesso realtà.Il senso della materia è il valore chiave che soggiace alla creazione: stratificazioni di materiali umili, come sabbia, polvere di marmo, paglia si alternano a inserzioni di oggetti desunti dalla quotidianità, in aperta polemica con gli stili e i linguaggi dell'arte accademica. Un carattere volutamente maldestro secondo una particolare tecnica informale e gestuale dalla forte e intensa espressività accompagna l'intervento creativo: le colate di materia sfuggono di mano, dando luogo ad escrescenze talvolta incontrollate e solcate da graffiti e asportazioni inattese. Tàpies aggiunge materia e materiali sulla tela creando uno spessore, una fisicità e una spazialità non simulata, che trasmette una spinta tridimensionale in direzione dello spettatore. L'immagine che si origina non è illusione o proiezione ma è effettiva figura attraverso la sua consistenza, superando il concetto stesso di pittura. row-te9v~i2gc-sk5s Idolo femminile Milano Corso Magenta, 15 row-gu8i-3wwc_2mu9 Pavia Corso Strada Nuova, 65 Il dispositivo consta un campanello sorretto da due colonnine in ottone poggianti su una base circolare in legno, piombo e ottone in strati di diverso spessore, forati al centro. Il campanello, colpito ripetutamente dal batacchio laterale sostenuto da un filo metallico elastico, emette normalmente un suono molto vivido; se però si fissa lo strumento sul piatto di una macchina pneumatica e lo si ricopre con una campana di vetro, il suono si indebolisce via via che l'aria si rarefà, fino a scomparire del tutto. Si evidenzia quindi l'impossibilità per il suono di propagarsi nel vuoto. Si tratta di uno strumento didattico che faceva parte del consistente patrimonio del Gabinetto di Fisica di Alessandro Volta dell'Università di Pavia. Il laboratorio aperto nel 1771 viene notevolmente arricchito dal fisico comasco al suo arrivo in città nel 1778, divenendo non soltanto un locale in cui sperimentare e insegnare quotidianamente agli studenti, ma anche uno spazio destinato ad esperienze pubbliche che si tenevano due volte la settimana, da dicembre a giugno. Per tale scopo tra il 1785 e il 1788 venne appositamente costruito nell'Ateneo pavese un nuovo e più ampio Teatro Fisico, l'odierna Aula Volta. row-44xj-aean.ge7z L'ultimo bacio di Romeo e Giulietta Tremezzo Via Regina, 2 Il dipinto raffigura uno degli episodi più celebri della storia di Romeo e Giulietta, tratto direttamente dalla tragedia di William Shakespeare. Il fulcro compositivo e drammatico del quadro è costituito dall'abbraccio dei due amanti, investiti dal raggio di luce dorata che penetra dalla finestra annunciando l'alba. Èuna scena del terzo atto del dramma, ambientata nella stanza di Giulietta, che Romeo deve lasciare calandosi dalla finestra per sfuggire il rischio di essere scoperto: sullo sfondo, a destra, l'anziana nutrice di Giulietta si è affacciata nella stanza per avvertire la giovane dell'imminente arrivo di sua madre. Prima di andarsene Romeo si trattiene un ultimo istante per dare un bacio alla sua amata: "Addio, addio. Un bacio e poi scenderò". Il dipinto fu commissionato dal conte Giovan Battista Sommariva e presentato nel 1823 all'esposizione annuale di Belle Arti dell'Accademia di Brera a Milano. Trasferito da Sommariva nella sua villa di Tremezzo, dove tuttora si trova, il quadro è sempre stata una delle opere più ammirate della collezione. Si tratta del primo importante tema letterario affrontato da Francesco Hayez, che nell'occasione si ispirò soprattutto alla celebre tragedia di William Shakespeare. Il dipinto, che impose Hayez come il caposcuola della nascente pittura romantica italiana, riscosse uno straordinario successo grazie alla novità del soggetto, ormai slegato dai temi di storia antica tipici del neoclassicismo, e del linguaggio pittorico, capace di coniugare un vivace cromatismo di derivazione veneta a un'attenta resa dei particolari d'ambiente. L'acquisto di quest'opera rappresentò un momento di svolta fondamentale nell'attività collezionistica di Sommariva, fino a quel momento orientata a più rigorosi indirizzi di gusto neoclassici, mostrando la sua apertura verso le nuove istanze dell'arte romantica. row-knqh.r9js.bqhf Anfore Briosco Via Col del Frejus, 3 Installazione ambientale costituita da cinque anfore di terracotta di differenti dimensioni, sollevate da terra da cinque treppiedi costituiti da sottilissime gambe in acciaio, alte circa 14 metri. L'opera, realizzata dallo scultore Franz Stähler nel 1998, è stata da lui donata alla collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini. Il contatto tra l'artista e Alberto Rossini avvenne in maniera casuale verso la metà degli anni Ottanta, in seguito ad una serie di viaggi di lavoro effettuati in Germania dall'imprenditore brianzolo. In uno di essi Rossini conobbe il padre dello scultore, all'epoca molto giovane e non ancora affermato. Incuriosito dai suoi lavori, Rossini rimase in contatto con lui e quando l'artista si trasferì a Faenza nel 1986, lo invitò per lunghi periodi a casa sua, mettendogli a disposizione tutto l'occorrente per lavorare. Tutte le opere di Stähler presenti nel Parco di sculture della Fondazione sono dunque site-specific, ovvero create appositamente per questa sede e scrupolosamente collocate in essa dall'artista, dopo un attento studio dei parametri ambientali circostanti.La ricerca artistica di Stähler parte dal materiale scelto per la realizzazione delle sue opere, essenzialmente di natura povera e profondamente legato alla terra. Il ferro, il legno, la ceramica e il mattone, vengono modellati direttamente dall'artista che li eleva a materie prime dell'arte, in un mondo dominato da eccessi e rifiuti. Anche le forme a cui si ispira richiamano alle strutture prodotte dall'uomo nel passato e dunque alla purezza della loro funzione primaria. Nell'installazione delle "Anfore", i vasi giganti di terracotta, nell'antichità utilizzati per conservare provviste, vengono trasformati in simboli dell'abbondanza e della fertilità, e dunque innalzati per mezzo di altissimi trespoli d'acciaio, quasi a volersi offrire direttamente al Cielo. Il vaso rappresenta la storia umana, il bisogno di trovare un compromesso con la vita naturale conservando i semi, l'olio, il vino. Viceversa l'altezza conduce ad un più ampio sguardo sul mondo, ad una tensione verso le grandezze del cosmo. Questi vasi di Franz Stähler costituiscono, dunque, l'occasione di riflettere sulla condizione umana poichè, al pari dell'uomo, essi nascono dalla terra e puntano alti verso il cielo.Seppure svettante rispetto alle altre sculture esposte nel Parco, l'opera si inserisce perfettamente nell'ambiente naturale che la circonda, inserendosi all'interno di un bacino artistico che mosse i suoi primi passi negli anni Sessanta e Settanta con la Land Art. Attorno alle sottili gambe in acciaio che sostengono i vasi, infatti, la vegetazione cresce e vi si arrampica, mentre a terra, sotto la loro ombra, gli animali della Fondazione pascolano liberamente. row-hb6u.w4d4_h5ic Giuditta e la sua ancella mettono la testa di Oloferne in un sacco Bergamo Piazza Rosate Il parapetto dell'iconostasi, la cui funzione è quella di delimitare lo spazio più sacro del presbiterio da quello riservato ai fedeli, è ornato all'esterno da quattro riquadri a tarsia con episodi biblici coperti da pannelli protettivi a tarsia raffiguranti composizioni allegoriche in relazione ai contenuti delle "storie" da proteggere. La "Sommersione del Faraone", il primo da sinistra, introduce l'osservatore alla Bibbia per immagini ideata da Lorenzo Lotto. Il tema dell'esodo ben si presta a significare simbolicamente l'inizio di un viaggio creato per stimolare meditazioni sulle storie dell'Antico Testamento. Per la verità, Lotto aveva scelto come prima immagine la storia dell'Arca di Noè, la seconda da sinistra, nella quale si evidenzia il valore purificatore dell'acqua battesiamale; in fase di collocazione, i committenti diedero l'ordine a Capoferri di anteporre alla scena del Diluvio Universale la storia raffigurante l'inizio del viaggio di liberazione verso la Terra Promessa. Seguono due episodi che simboleggiano il trionfo della virtù sulla brutalità: "Giuditta", donna prefigurante colei che salva il suo popolo dall'assedio del male nemico, e "Davide e Golia", che celebra la vittoria del combattimento ottenuta da Davide per rendere manifesta la forza prodigiosa di Dio. Notevole è la resa pittorica delle tarsie dove Capoferri, grazie all'utilizzo di diverse essenze lignee, riuscì a rendere le gradazioni cromatiche e i giochi chiaroscurali del Lotto. Nel 1522 il Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo decise di dotare la basilica di Santa Maria di un nuovo coro; iniziarono così le trattative con il legnaiolo e intarsiatore loverese Giovanni Francesco Capoferri per l'esecuzione dell'opera. Al Capoferri, direttore dell'impresa, fu affiancato il marangone Giovanni Belli di Ponteranica per i lavori di intaglio. I cartoni delle tarsie furono affidati al quasi sconosciuto Nicolino Cabrini, alla cui morte il Consorzio chiamò in causa Lorenzo Lotto. L'artista inizialmente effettuò anche la 'profilatura' delle tarsie, ovvero la loro rifinitura finale mediante stucco nero per i contorni delle figure e con ombreggiatura a fuoco per il chiaro-scuro, ma un contrasto di natura economica frenò la sua disponibilità. I cartoni delle quattro invenzioni con i relativi coperchi da porre sul parapetto dell'iconostasi furono eseguiti dal Lotto tra il 1524 e il 1528. Intarsiati dal Capoferri tra il 1527 e il 1530, i pannelli risultavano messi in opera entro il 1531. row-yjau_y7yz-c4qt Castiglione delle Stiviere Via Giuseppe Garibaldi, 50 Il colore della carrozzeria di questa autoambulanza è beige, secondo le regole della Croce Rossa Italiana. All'esterno si nota un rivestimento in legno, i distintivi esistenti sono originali ed il numero di targa è stato assegnato l'8 maggio 1961. La vettura ha la guida a destra.Il vano sanitario è dotato di due barelle a castello con struttura di rinforzo in ferro molto pesante, senza rotelle ma solo con i "piedini" da inserire negli appositi fermi per consentire un sicuro bloccaggio durante la marcia.; la parte iniziale della barella, ove il paziente sdraiato appoggia la testa, è dotata di uno schienale rialzato fisso per consentire una posizione più comoda al malato. Sulla parte destra, dietro alla parete di fondo che divide i due vani, troviamo un lavandino con rubinetto, collegato mediante un tubo al serbatoio dell'acqua che si trova sempre in fondo, in posizione centrale.Altre particolarità da segnalare: all'esterno in alto sulle fiancate, due per parte, vi sono le prese d'aria laterali per il ricambio dell'aria nel vano sanitario; la portiera utilizzabile per la salita e la discesa della cabina di guida è quella del passeggero a sinistra; sempre in cabina di guida il vetro del parabrezza è diviso in due scomparti che possono essere aperti spingendo in avanti; non esistono quelli laterali, sostituiti da una protezione in plastica inserita nel tettuccio rigido. Nella parte posteriore del veicolo si trovano due portiere con apertura ad armadio, non ci sono portiere laterali e i grandi finestrini, ad apertura scorrevole, sono interamente smerigliati. Questa autoambulanza è stata allestita dalla Carrozzeria Berti di Jesi (AN). Nel nostro paese i primi veicoli a motore adibiti al trasporto di ammalati e feriti comparvero nel 1910, sostituendo a poco a poco le ambulanze a cavallo e le ambulanze a mano, cioè lettighe che i soccorritori a piedi spingevano o tiravano. La produzione aumentò notevolmente durante la Grande Guerra (1914-1918). Ovviamente tali veicoli erano soprattutto in versione militare, con 4 o 6 barelle, e uno dei modelli più diffusi era il Fiat 15 ter. Con l'inizio degli anni Trenta l'autolettiga assunse una forma più simile a quella attuale e i modelli più diffusi vennero trasformati in autoambulanze da carrozzerie specializzate. Nei primi decenni del Novecento l'ambulanza era dunque un autocarro modificato, con la fine degli anni Venti circa l'autocarro lasciò il posto all'automobile. Le vetture trasformate in autoambulanza erano di modelli i più disparati; tra le più diffuse Fiat 501, 508, 521, 522, Lancia Augusta, ma c'erano anche qualche Artena, alcune Isotta Fraschini e Spa, Bianchi e OM; dopo la metà degli anni Trenta entrà in servizio la versione ambulanza della gloriosa Fiat 1500. row-vqsp.qrgx_7a6m Apostolo Varese Via Cola di Rienzo, 42 L'opera è costituita da una scultura lignea dipinta a tuttotondo, raffigurante un apostolo di difficile identificazione per la mancanza dei relativi attributi iconografici. L'uomo viene rappresentato in piedi, con il braccio destro piegato sul petto e il sinistro disteso lungo il fianco. Indossa un lungo abito verde scuro, con colletto e bottoni dorati, coperto sulla spalla sinistra e intorno al ventre da un vaporoso panneggio. Ai piedi indossa scarpe chiuse e stringate. Il volto, caratterizzato da una folta capigliatura e barba scura è leggermente rivolto verso il basso, dove si orienta anche lo sguardo del personaggio. L'opera, insieme al suo pendant raffigurante San Giovanni Battista, è stata realizzata da un tronco di legno di tiglio, di cui è ancora visibile il basamento e a cui sono stati aggiunti dei masselli per completare le parti più aggettanti. La critica ha ricondotto le due opere dapprima ad un anonimo intagliatore lombardo e successivamente alle sculture contenute nella VII cappella del Sacro Monte di Varese, attribuite a Martino Retti, artista originario di Viganello, attualmente una frazione di Lugano. In particolare il volto dell'apostolo, di difficile identificazione a causa della perdita di tutti gli attributi caratteristici, risulta molto simile a quello del profeta Zaccaria scolpito in pietra sulla facciata della III cappella del Sacro Monte, anch'essa realizzata dalla mano del ticinese; affine è inoltre il modo di realizzare i panneggi in queste diverse statue.Complessivamente l'opera si presenta in uno stato di conservazione discreto, sebbene nel corso dei secoli si sia verificata la perdita di alcuni elementi (in particolare modo dettagli delle articolazioni e attributi iconografici) e di piccole porzioni della coloritura superficiale. row-femk-f3w6_yi75 Collezione d'arte di Gallerie d'Italia Milano Piazza della Scala, 6 Le Gallerie d'Italia di Piazza Scala si articolano in due sezioni espositive. L'itinerario museale "Da Canova a Boccioni", curato da Fernando Mazzocca, conduce attraverso un secolo di arte italiana che va da una serie di tredici bassorilievi di Antonio Canova, genio del Neoclassicismo, alle tele di Umberto Boccioni, che documentano il fondamentale passaggio dal Divisionismo al Futurismo. Protagonista del percorso è la pittura lombarda, anche se non mancano capolavori provenienti da altre aree geografiche, di Telemaco Signorini, Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi, Antonio Mancini, Giulio Aristide Sartorio. I quadri di Francesco Hayez, Giovanni Migliara, Giuseppe Molteni, Luigi Bisi, Angelo Inganni, Domenico e Gerolamo Induno, Mosè Bianchi, Leonardo Bazzaro, Emilio Gola, Filippo Carcano, Luigi Rossi, Angelo Morbelli, Giovanni Segantini e Gaetano Previati rievocano le vicende e la fortuna dei generi artistici consacrati dalle esposizioni, come quelle di Brera, le grandi rassegne internazionali e le prime Biennali di Venezia. I dipinti storici, i ritratti, le battaglie del Risorgimento, i paesaggi, le vedute, i Navigli, le scene d'interni, gli episodi di vita moderna rievocano i mutamenti della visione e del gusto attraverso diverse stagioni espressive, dal Romanticismo dominato dalla personalità di Hayez, al Naturalismo dei pittori di paesaggio e di genere, al Simbolismo che, documentato dagli emozionanti capolavori di Rossi, Bazzaro, Morbelli, Sartorio e Previati, rappresenta la naturale premessa alla nascita del Futurismo di Boccioni.Il "Cantiere del '900" è la seconda area espositiva delle Gallerie, dedicata alla presentazione delle collezioni del XX secolo di Intesa Sanpaolo. Il percorso storico-critico generale, curato da Francesco Tedeschi, illustra i protagonisti e le tendenze della seconda metà del Novecento, feconda e fortunata stagione dell'arte italiana. L'immediato dopoguerra e gli anni Cinquanta sono documentati dalle opere di Afro, Alberto Burri, Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso e altri. Si passa poi a considerare il ruolo di Lucio Fontana nei confronti dello Spazialismo e dell'Arte Nucleare, per affrontare quindi le ricerche condotte dal Movimento Arte Concreta (MAC) e il ricco panorama dell'informale. Il passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta è indagato attraverso la nuova attenzione per una concezione della pittura che diventa traccia di azioni fisicamente dirette a modificarne la natura, come quelle attuate da Piero Manzoni, Enrico Castellani o Toti Scialoja, ma anche per le possibilità offerte dalle nuove tecnologie di dar vita a un'arte "programmata" o "cinetica". Il clima degli anni Sessanta è interpretato considerando l'attenzione per le nuove possibilità di narrazione e di valorizzazione delle immagini attraverso l'influenza dei mass media, con artisti come Achille Perilli, Gastone Novelli, Mario Schifano, Valero Adami, Giuseppe Bertini. Le nuove avanguardie della seconda metà degli anni Sessanta sono rappresentate dalle manifestazioni dell'Arte Povera e dalle declinazioni verbo-visive di carattere concettuale. La scultura, ampiamente presente in tutto il percorso - con lavori di Mauro Staccioli, Alik Cavaliere, Ettore Colla, Nicola Carrino, Mario Ceroli, Pino Pascali e Giuseppe Maraniello - è punto di riflessione sulle relazioni con lo spazio che generano "ipotesi costruttive" (Rodolfo Aricò, Gianfranco Pardi, Giuseppe Uncini). Infine sono proposte le esperienze emerse fra gli anni Ottanta e Novanta, che costituiscono la base di una più vicina attualità, al che costituiscono la base di una più vicina attualità, all'interno di una visione che si vuole aperta e in divenire, come è il carattere di un "cantiere". Periodicamente, il percorso generale di Cantiere del '900 è integrato da esposizioni monografiche che approfondiscono singoli autori e temi dell'arte del secondo Novecento, presentando nuclei di opere selezionate dalle oltre 3000 che formano le raccol La collezione d'arrte di Gallerie d'Italia di piazza Scala comprende un nucleo di duecento opere, proveniente dalle raccolte dell'Ottocento della Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, e circa duecento opere del XX secolo, proveniente dalle raccolte del Novecento di Intesa Sanpaolo. Periodicamente, il percorso generale di "Cantiere del '900", che espone le operee del XX secolo, è integrato da esposizioni monografiche che approfondiscono singoli autori e temi dell'arte del secondo Novecento, presentando nuclei di opere selezionate dalle oltre tremila che formano le raccolta. row-nvnt~itjj_bpui Madonna con Bambino Bergamo Piazza G. Carrara, 82 Nel dipinto è raffigurata la Madonna rivolta di tre quarti verso sinistra e inquadrata al mezzo busto, con il Bambino in braccio, stretto a sé al volto, guancia contro guancia. Il Bambino, un po' scomposto e piangente, cerca conforto dalla Madre, che lo tiene dolcemente con espressione ferma e sicura, guardando lontano. Le due figure, accampate su sfondo scuro e uniforme, sono aureolate. Il mantello della Madonna è in un tessuto color azzurro, reso in polvere di lapislazzuli, marezzato d'oro con un fitto tratteggio. Un tratteggio d'oro rende preziosa anche la sottostante veste rossa: i colori sono quelli tradizionalmente attribuiti alle vesti della Vergine, che è vera donna, come simboleggia il colore rosso, ma coperta di cielo, perché su di essa è sceso lo Spirito Santo. Il braccialetto di corallo indossato dal Bambino, la sua espressione patetica e l'indefinibile sguardo della Madonna, dal volto di ritratto, prefigurano la Passione e la Morte di Gesù. Il piccolo dipinto, a destinazione privata, è eseguito con una tecnica particolare, detta "a tempera magra", sofisticata e fragile. Su una tela finissima, preparata solo con una leggera apprettatura, è steso il colore composto da un legante magro che crea superfici chiare e porose, che non prevedono una verniciatura finale. La materia pittorica rimane opaca e dona un aspetto solido e netto alle figure, mentre la lucentezza dei colori è affidata alla preziosità delle materie pittoriche, come il lapislazzuli per il manto e l'oro per la marezzatura della seta. Il dipinto, straordinariamente rifinito, presenta un 'immagine affettuosa e al tempo stesso severa dell'abbraccio tra la Madre e il Bambino, che ricorda ancora gli studi su Donatello, compiuti da Mantegna in gioventù. A causa della sostanziale continuità dello stile di Andrea Mantegna, giunto precocemente alla piena maturità espressiva, l'opera è di difficile definizione cronologica, anche se è attendibile una data alla seconda metà degli anni Settanta, vicina al "Cristo morto" di Brera.L'opera, impoverita nella materia pittorica e lacerata nella tela, è sottoposta a un complesso restauro negli anni 2008-2012 ad opera dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze. L'intervento ripristina la solidità della tela, risarcisce le lacune e fissa l'opera all'interno di un telaio-contenitore, capace di garantire il corretto tensionamento della tela e l'adeguata climatizzazione. row-xjtj.4pgh~58ik Madonna con Bambino, Apostoli, Santo Vescovo, Santi, Sante con angelo, Angelo, Santa incoronata con Santa monaca, Sant'Eligio benedice un cavallo, Santi Vescovi, San Bassiano con la Vergine, san Giovanni Battista e san Cristoforo, Volta dei bovari, Tetramorfo, Cristo benedicente, Dottori della Chiesa Lodi Vecchio Via Basilica San Bassiano La decorazione ad affresco raffigura nel presbiterio al centro Cristo benedicente racchiuso nella mandorla sorretta dal Tetramorfo, mentre nella fascia inferiore, a cominciare da sinistra: San Bassiano, la Vergine, San Giovanni Battista e San Cristoforo che regge sulle spalle Gesù Bambino e infine i dodici Apostoli divisi a gruppi di tre e un Santo Vescovo. Negli intradossi che separano l'abside dal presbiterio vi sono altri due vescovi, due figurine di oranti rivolte verso la navata e due uomini a cavallo sotto la figure del vescovo. Ai lati del presbiterio vi sono dei riquadri con Sant'Eligio che benedice un cavallo, Madonna in trono col Bambino, Santo Vescovo, una Annunciazione affiancata da Santa Caterina e un'altra Santa Martire. La prima volta verso il presbiterio è decorata con carri trainati da coppie di buoi guidati da bovari, quella precedente con i simboli degli Evangelisti e infine i Dottori della Chiesa. Nella navata centrale rimangono una Madonna col Bambino, un'Annunciazione e in controfacciata dei Santi e una sinopia con San Giorgio e la principessa. Il Maestro di San Bassiano prende il nome dall'ampia decorazione lasciata nella Basilica di S. Bassiano a Lodi Vecchio. Forse allievo del Maestro della tomba Fissiraga (attivo a Lodi e a Milano), esordisce nella chiesa di S. Francesco a Lodi, per poi intervenire a Laus Pompeia. La prima fase decorativa affidata al Maestro si colloca dopo il 14 aprile 1321 e prosegue oltre il 1323, come attestano sia i documenti sia la lapide dei Bovari murata nella navata sinistra: "mccc Paraticum boaterior. xxiii fecit fieri hoc celum". L'intervento inizia dalle volte che conservano un fondo bianco tempestato di stelle e rosette a pieno petalo, con la presenza del tetto a padiglione multicolore. Vi sono raffigurati, con un aspetto tutto campagnolo, agricolo e comunale, i Bovari che con i loro carretti carichi di tronchi trasportano il materiale necessario al rinnovamento della chiesa, poi i Simboli degli Evangelisti che si librano sullo sfondo bianco tappezzato di stelle e rosette e di quella seguente con i Dottori della Chiesa, figure dalla volumetria impacciata, i volti poco espressivi e poca precisione nella distribuzione spaziale. Conclusa questa zona, il Maestro di San Bassiano procede alla decorazione del presbiterio e delle due absidi, di cui quella a sinistra completamente ridipinta nel 1923-1924. Il catino absidale racchiude in una mandorla sorretta dal Tetramorfo un grandioso Cristo benedicente seduto su una sorta di fascia multicolore. Nella fascia sottostante, a partire da sinistra, San Bassiano, la Vergine, San Giovanni Battista e San Cristoforo che reggendo sulle spalle Gesù Bambino sta attraversando il fiume, popolato di pesci che gli guizzano fra i piedi. Questa grandiosa composizione, che presenta ancora modi arcaizzanti legati ad una tradizione tardo duecentesca si data alla metà degli anni Venti del Trecento. Compare il nastro prosettico a profilo del catino absidale e la cornice a finte mensole prospettiche sostenute da capitelli a foglia d'acanto che separa questa zona dagli Apostoli affrescati nella parte sottostante. La zona presbiteriale è infine conclusa da altri affreschi disposti su due registri, tra cui ricordiamo la Madonna in trono col Bambino o Sant'Eligio che benedice un cavallo. Le Madonne in trono presentano la medesima impostazione con un trono ligneo scorciato laterlamente o posizionato frontalmente, la spalliera arricchita da dentelli e rocchetti. Le figure sono frontali, irrigidite, i gesti ripetitivi, il chiaroscuro quasi assente e i colori sono stesi in modo piatto e coprente, pur con un timido accenno di plasticità. La seconda fase decorativa prende avvio nel 1328 con la Madonna in trono col Bambino della navata centrale, l'Annunciazione e i Santi della controfacciata, in cui emergono alcune novità soprattutto nei visi dal modellato più morbido con delicati passaggi chiaroscurali. row-bted~yaki.uaab Natura morta con strumenti musicali e statuetta Bergamo Piazza G. Carrara, 82 La scena, inquadrata da un tendaggio, che ha l'aspetto di un boccascena, presenta vari oggetti disposti con apparente disordine su un tavolo coperto da una tovaglia rossa: da sinistra compaiono una statuetta virile, un'arpa, una mandola vicino a un calamaio a cofanetto, uno spartito per musica vocale -sul quale si legge un testo casuale-, un liuto attiorbato con sopra un libricino e un violino su alcuni libri. La disposizione degli oggetti è regolata da rapporti geometrici sottolineati anche cromaticamente: ad esempio alcuni punti di luce bianca (la penna che spunta dal calamaio, lo spartito, il libricino e la statuetta) sono ai vertici di uno schema romboidale, che si coglie nell'insieme caratterizzato invece dal caldo colore dei legni. Il dipinto, considerato uno dei capolavori di Evaristo Baschenis, è in coppia con una "Cucina", oggi in collezione privata, e insieme documentano correlazioni sia iconografiche che compositive tra le i due differenti tipi di nature morte. E' databile tra il sesto e il settimo decennio, agli esordi della fase cosiddetta barocca e più ornata, che sarà di esempio a Bartolomeo Bettera. L'opera, che è stata interpretata anche come "Vanità delle Arti Liberali", con riferimento agli strumenti (la musica), ai libri e al calamaio con penna (la poesia) e alla statuetta (le arti figurative), ha strette affinità con un dipinto del Baschenis oggi conservato a Rotterdam al Boymans-van Beuningen Museum di Rotterdam, caratterizzato dalla presenza della stessa statuetta di gusto michelangiolesco. Di esso sono note una dozzina di repliche con varianti, attribuite alla bottega e ai seguaci. row-t9wt_wwnt.jh3h Decorazione floreale e drago Lovere Via Tadini, 40 I cinque piatti circolari hanno la tesa a profilo lobato, impreziosita da un decoro a rilievo imitante l'effetto della stuoia intrecciata, secondo un modello che fu il primo a disegni plastici elaborato nella Manifattura di Meissen (1735). Il decoro dipinto è costituito da disegni di gusto orientale, come il drago, la fenice, le farfalle e gli insetti, che sono caratteristici delle migliori porcellane cinesi, quale la cosiddetta Famiglia verde, o giapponesi, come le porcellane Kakiemon, molto apprezzate in Occidente e importate dallo stesso Augusto II il Forte. Anche i colori sono quelli ricorrenti nelle superbe smaltature orientali, quali i rossi aranciati, il giallo, il verde tenue. Questi cinque piatti, che componevano probabilmente un servizio da tavola acquistato dal conte Luigi Tadini, appartengono alla Manifattura di Meissen, che fu la prima produzione europea a realizzare nel 1710 porcellane equiparabili a quelle orientali, cinesi e giapponesi. Tutti gli esperimenti precedenti, come quello tentato alla corte fiorentina dei Medici sotto Francesco I, erano falliti. Grazie agli studi del geniale alchimista Bottger, Augusto II il Forte, Elettore di Sassonia, riuscì per primo a scoprire il segreto della porcellana e ad avviarne la produzione a Meissen. Questi piatti, appartenenti alla prima produzione ancora molto vicina al gusto decorativo orientale, sono rarissimi: se ne conoscono altri quattro esemplari conservati al Museo delle Porcellane in Palazzo Pitti a Firenze. Riprendono il modello del celebre servizio inventato nel 1735 dallo scultore e modellatore Johann Joachim Kaendler (1706-1775) per il raffinato conte polacco Sulkowski, responsabile delle forniture di Meissen per il Palazzo Giapponese di Dresda. row-r6ky-2jun.tmqj Il sanmartino (Trasloco) Cremona Via Ugolani Dati, 4 La scena riproduce una scena di vita quotidiana tipica della pianura padana: il trasloco dei contadini che avveniva alla scadenza del contratto annuale, l'11 novembre in corrispondenza del giorno dedicato a San Martino. In primo piano alcune donne e uomini sono impegnati a caricare le loro masserizie sul dorso di un cavallo, mentre sul fondo si vedono contadini e carri già in cammino verso nuove destinazioni. Sul lato sinistro alcune donne si dedicano al bucato, mentre alcuni giovani si tuffano nell'acqua del fiume vicino alle ruote dei mulini. Alla morte di Vincenzo Campi il dipinto era rimasto proprietà della vedova Elena Luciani insieme ad altre quattro tele raffiguranti la Fruttivendola, i Pescivendoli, i Pollivendoli e la Cucina, come si evince dal testamento della donna conservato presso l'Archivio di Stato di Cremona. Nel 1623 alla morte della donna il gruppo di dipinti venne venduto da Angela Bianchi e Marta Capucci, sue conviventi ed esecutrici testamentarie, ai monaci del convento di San Sigismondo in Cremona. Nel 1806 le tele vengono viste da Andrea Appiani, commissario delle Belle Arti, che scelse le quattro tele raffiguranti la Fruttivendola, i Pescivendoli, i Pollivendoli e la Cucina da inviare alla nascente Pinacoteca di Brera, mentre il San Martino, forse opportunamente nascosto, rimase a Cremona e pervenne alla Prefettura, dove rimase nascosto al pubblico, tanto che lo si credeva perduto. Nel 1996 venne invece ritrovato da Franco Paliaga su segnalazione di Gianni Toninelli.Il dipinto riveste particolare importanza per le brillanti soluzioni compositive e per la rarità del soggetto che non trova precedenti in altre composizioni cinquecentesche nè italiane nè straniere. row-zkrj~eruh_sqj7 Battesimo di Cristo Bergamo Via Pignolo, 76 Giovan Battista Moroni fa rivivere l'episodio evangelico del battesimo di Cristo all'interno di una cornice paesaggistica ricca di rimandi all'ambiente bergamasco. Il dipinto raffigura il momento in cui San Giovanni Battista asperge Cristo, coperto solo di un perizoma, nel fiume Giordano. In lontananza il paesaggio, caratterizzato da un massiccio roccioso e da alcune abitazioni appena abbozzate, si mescola all'azzurro del cielo da cui discende la colomba dello Spirito Santo, perfettamente in asse con la conchiglia usata dal Battista per compiere il rito. Al di sopra, in mezzo a una cortina di nubi da cui fanno capolino alcuni angioletti, si fa largo nel forte bagliore la figura appena accennata di Dio Padre benedicente. Il dipinto, che proviene dalla Curia Vescovile, è documentato sin dalla fine del Settecento nel tempietto di Santa Croce a Bergamo. Ad oggi, non si conosce ancora la sua originaria collocazione. Nulla vieta di pensare che la tela sia stata realizzata nel contesto dell'aggiornamento figurativo del tempietto voluto dall'allora vescovo di Bergamo Federico Cornaro. L'ipotesi sarebbe supportata anche dalla cronologia dell'opera, collocata nel corso del settimo decennio del Cinquecento. Proprio la fattura del paesaggio, che discende da quello più sfumato e atmosferico inaugurato dal Moroni all'inizio degli anni Sessanta, e la sua progressiva crescita d'importanza in termini di spazio costituiscono due elementi utili alla datazione. row-42m5~9qbi~dk62 Nicodemo Milano Piazza Castello row-gdqn_vnwx-jeda Motivi decorativi vegetali Milano Piazza Castello Considerata uno degli ambienti più illustri del Castello Sforzesco, la "Sala delle Asse" è situata al piano terra della torre angolare settentrionale, ed è oggi parte del percorso interno del Museo d'Arte Antica. L'ambiente è decorato sulla volta da un fitto pergolato costituito dall'intrecciarsi di foglie e rami di gelso, tenuti insieme da corde dorate che riproducono le forme di particolari "ludi geometrici", molto amati da Leonardo da Vinci. L'intera volta dipinta viene sostenuta da diciotto tronchi nodosi che salgono ramificandosi sulle quattro pareti fino alla volta. Oggi questi tronchi appaiono interrotti a circa metà della parete, ad un paio di metri da terra. Al culmine della copertura campeggia uno stemma sforzesco, cui viene affidato il compito di rimarcare il significato politico e celebrativo della decorazione, insieme alle quattro targhe presenti alla base della volta che ricordano le tappe più significative del ducato di Milano: la vittoria di Fornovo sulle truppe francesi di Carlo VIII; l'alleanza con l'imperatore attraverso le nozze con Bianca Maria Sforza; l'investitura ducale confermata a Ludovico il Moro da Massimiliano d'Asburgo. La quarta insegna, cancellata durante i restauri di fine Ottocento, per ricordare l'operato del restauratore e il finanziatore dell'intervento, l'avvocato Pietro Volpi, doveva invece riferirsi alla resa di Milano a Luigi XII (re di Francia) dopo la fuga di Ludovico il Moro.Le pareti della sala sono state per anni coperte da assi di legno: una prima boiserie venne collocata sulle pareti da Luca Beltrami subito dopo la ri-scoperta degli affreschi avvenuta alla fine del XIX secolo. Tali assi vennero poi rimosse durante i restauri post bellici portando alla luce la presenza di alcuni frammenti dipinti a monocromo sulle pareti. Questi resti, successivamente ritenuti autografi di Leonardo, sono costituiti da lacerti di differenti dimensioni raffiguranti potenti radici che si insinuano, scardinandole, dentro le rocce nel terreno. Una seconda spalliera lignea fu invece collocata sulle pareti negli anni Cinquanta del Novecento dallo Studio BBPR nell'ambito di un riallestimento museale delle varie sale del Castello. Tale rivestimento è stato rimosso in occasione dell'inizio della nuova campagna di restauri iniziata nel 2006 con una serie di indagini preventive sul dipinto. Il cantiere, ancora in corso d'opera, ha portato alla scoperta di nuovi lacerti di monocromi e mira a restituire al dipinto una corretta leggibilità nel rispetto delle istanze di restauro più aggiornate. Le prime notizie sulla decorazione interna della sala risalgono al 1469, all'epoca di Galeazzo Maria Sforza, quando alcuni documenti descrivono la stanza come dipinta interamente di rosso ed ornata da decorazioni di tipo araldico (secchie e cimieri), che dovevano renderla molto simile ad una delle stanze attigue: la "Sala delle Colombine". L'attuale denominazione deriva da un successivo progetto decorativo, databile 1473, per il quale l'ingegnere ducale Bartolomeo Gadio proponeva di foderare la sala di "assi", con la relativa grande difficoltà di sagomare e adattare il legno alla curvatura della volta, forse poi dipinte in azzurro e oro.L'attuale aspetto si deve ad un intervento ancora successivo, risalente all'aprile 1498, quando Leonardo da Vinci si impegnò a realizzare entro il settembre di quello stesso anno per Ludovico il Moro, la seconda grande impresa decorativa murale milanese dopo il "Cenacolo". Le "asse" di rivestimento vennero rimosse per permettere all'artista di operare sulle pareti, ma ad oggi non è possibile stabilire se in soli cinque mesi, seppur con il concorso di indubbi aiuti provenienti dalla sua bottega, Leonardo portò effettivamente a termine l'intera decorazione. Sicuramente il lavoro non può essere proseguito oltre il 1499, quando il Moro fu costretto a fuggire da Milano per l'arrivo dell'esercito francese, e Leonardo stesso tornò a Firenze.Indubbiamente la grandiosa concezione d'insieme della sala, organizzata su vari livelli di lettura - araldico, politico, simbolico - si deve alla mente del genio vinciano. Negli intrecci di corde dorate che uniscono i rami di gelso, è possibile riscontrare una rielaborazione di quei "giochi" geometrici che tanto interessarono l'artista, forse iniziato al mondo delle rappresentazioni dei solidi dalla frequentazione con il matematico Luca Pacioli, per il quale illustrò il volume "De divina proportione" (1496-1497). Tipicamente suo anche lo spiccato interesse per la rappresentazione del mondo naturale, qui intrecciato con precisi significati di tipo simbolico. La scelta di dipingere l'albero del gelso (in latino Morus) era infatti allusiva sia della personalità del committente (Ludovico Maria Sforza detto il Moro) quale sostegno del ducato, sia dell'importanza della pianta stessa per l'economia milanese, fondata all'epoca sull'industria della seta. Un altro livello interpretativo vede nel pergolato dipinto la rappresentazione dell'armonia che nasce dal caos naturale, qui esemplificato dalle stratificazioni rocciose dipinte a monocromo nella parte inferiore della decorazione. Leonardo avrebbe qui, dunque, raffigurato la valle di Tempe, luogo di delizie tanto caro alla letteratura classica. Infine nei tronchi nodosi che risalgono sulle pareti sono stati rilevati rapporti con le colonne-tronco basate sul principio di architettura "naturale" desunto dagli scritti di Vitruvio, che l'architetto Bramante utilizzò nella canonica di Sant'Ambrogio: in questa impresa è stata ipotizzata la diretta partecipazione di Leonardo, che infatti studiò il motivo dell' "albero-colonna", in cui natura e architettura si fondono l'uno nell'altro, in un disegno del Codice Atlantico.Nei secoli tuttavia, l'importanza della sala è andata scemando. Trascurata dalla critica, in epoca imprecisata venne nascosta sotto un pesante strato di intonaco, da cui riemerse solo nel 1894 in occasione dei lavori eseguiti sul Castello Sforszesco di Milano dall'architetto Luca Beltrami. La sala venne ripristinata ad opera del pittore Ernesto Rusca ed aperta al pubblico nel maggio 1902, ma tale intervento risultò così invasivo da essere poi rimosso durante la campagna di restauri effettuata nel secondo dopoguerra, che liberando le pareti dalla spalliera lignea collocata dal Beltrami portarono alla scoperta dei monocromi sulle pareti. row-vj3r-kv5g.zky9 Pala Manfron Lovere Via Tadini, 40 La scena, che si apre su un fondale paesaggistico luminoso, presenta un gruppo di figure in primo piano protetto da un padiglione scuro sorretto da angioletti svolazzanti. L'intera raffigurazione è animata da uno spirito animato e confidenziale. In particolare Maria, seduta su un trono il cui gradino è decorato da un busto maschile entro clipeo circolare, è ritratta mentre prende il Bambino dalle spalle di San Cristoforo, un cananeo che, secondo la tradizione, ha trasportato il Salvatore al di là di un fiume. Il santo, considerato patrono dei viandanti, è raffigurato come una figura possente con un piede ancora nell'acqua, mentre tra le mani regge un bastone. La testa di cane nell'angolo in basso potrebbe indicare l'errata interpretazione di "cananeus" (cananeo) come "canineus" (canino). Sul lato opposto, in posizione "più composta", si trova San Giorgio ritratto in armatura con le fattezze di Giulio Manfron, condottiero di origine vicentina. Insieme a San Cristoforo, il santo guerriero riveste il ruolo di protettore di chi si trova in pericolo. Firmata PARIS BORDONVS TARVISIVS P. sul cartiglio in basso, l'opera è nota anche come "Pala Manfron" in ricordo di Giulio Manfron, condottiero di origine vicentina, ritratto nelle fattezze di San Giorgio a sinistra. Realizzata dal trevigiano Paris Bordon, uno dei protagonisti del classicismo veneziano nel secondo quarto del XVI secolo, la pala è vista da Marcantonio Michiel già all'inizio degli anni trenta del Cinquecento su un altare di destra della chiesa di Sant'Agostino a Crema. Sempre per Crema, Bordon realizza la pala con la Pentecoste, proveniente dalla chiesa di Santa Maria Maddalena e Santo Spirito, e ora a Brera. La citazione del Michiel, la morte del Manfron avvenuta il 15 agosto 1526 e lo stile ostentatamente ricercato e decorativo, ben evidente nel gradino decorato da una testa virile entro clipeo circolare, consentono di datare Pala Manfron tra il 1526 e il 1527. Il dipinto è acquistato nel 1805 dal conte Luigi Tadini, che in quegli anni mira a ricomporre un nucleo di dipinti illustranti la cultura artistica della sua città, Crema. row-gbqx_e76j~j4k2 La Vergine fa giungere il viatico a una devota del Santissimo Sacramento Varese Via Cola di Rienzo, 42 Il dipinto, di piccolo formato con orientamento verticale, raffigura un interno rustico di stalla: in primo piano, sulla destra della composizione, è raffigurata la Madonna, in piedi, avvolta nel manto azzurro che di norma la contraddistingue. Maria mostra il volto di profilo, con la mano sinistra regge un lembo del mantello, mentre con la destra indica davanti a sé la donna sdraiata a terra su un pagliericcio. Ai piedi della Vergine infatti è accasciata una donna dal colorito esanime, avvolta in panno rosato: un angelo ne sostiene il corpo, mentre un religioso inginocchiato accanto lei le somministra l'Eucaristia. L'uomo ha una lunga barba e indossa una cotta bianca sopra il saio francescano: con la mano sinistra regge il calice colmo di ostie, mentre con la destra ne avvicina una al volto della malata. Quasi appoggiato alla sua spalla, un altro angelo osserva da vicino la scena, reggendo nella mano destra una lunga candela accesa. Lo sfondo scuro e piuttosto indistinto non permette di identificare molti particolari ambientali: nell'angolo in alto a destra si intravede una serie di travi lignee dalle quali si affacciano le teste di due putti. Riconosciuto sul mercato antiquario nel 1967, il dipinto venne acquistato quello stesso anno dai Musei Civici di Varese per la cifra di 4 milioni di lire. L'opera costituisce un bozzetto per la tela di medesimo soggetto eseguita da Pietro Antonio Magatti tra la fine del terzo e l'inizio del quarto decennio del Settecento, per l'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento del Duomo di Milano: il dipinto da esso derivato è oggi conservato presso il Museo Diocesano di Milano, insieme alle altre tele superstiti del ciclo. Benché la maggior parte dei dipinti destinati a costituire l'apparato che veniva annualmente allestito in Duomo per la festa del Corpus Domini, fossero state eseguite entro il 1700, negli anni successivi non mancarono alcune integrazioni, seppur in numero più ridotto, tra cui figurano le due tele del Magatti "La Comunione della Vergine", oggi perduta, e la sopracitata "Madonna del viatico". In questo bozzetto l'artista mostra una puntuale rispondenza di struttura compositiva e dettagli con l'opera finale, il che confermerebbe quanto da lui appreso durante gli anni di formazione bolognese. Unica differenza evidente tra le due opere è costituita dalla stesura pittorica, che nel presente bozzetto appare più sgranata e meno definita: la variante forse più evidente consiste nell'esecuzione della Vergine, aggravata dall'ampio panneggio del mantello intriso di colore (mentre nella redazione definitiva le figure sono impostate con maggiore solennità) condotta su cadenze più lineari e asciutte, tanto da far supporre una distanza non brevissima nell'esecuzione delle due opere.Per quanto riguarda la datazione del bozzetto, collocata intorno al 1730, sembra essere confermata dal confronto con opere coeve dell'artista, in particolare la "Morte di San Giuseppe" (oggi in deposito presso la Pinacoteca di Brera), cui rimanda l'impostazione generale del quadro e la quasi identica figura della Vergine, e la "Guarigione di Tobia" (conservata nella chiesa di S. Rocco a Busto Arsizio), in cui l'angelo ripete il gesto della Madonna qui dipinta. row-tr9r~ajrw-mefz Cremona Via S. Lorenzo, 4 I frammenti, una testa e un busto, pur non essendo perfettamente combacianti tra loro, appartengono a una unica statua il cui personaggio, purtroppo, non è possibile identificare. Nel volto, per quanto lacunoso nella parte sinistra, è possibile riconoscere i lineamenti regolari di un giovane dai grandi occhi e dalla bocca carnosa, incorniciati dalle ciocche rigonfie dei capelli. Il busto, che conserva le spalle e parte del torace, presenta un pesante panneggio che copre la spalla sinistra e ricade a larghe pieghe sulla schiena, mentre la spalla destra è nuda. Risalenti probabilmente alla prima metà del II sec. a.C., i due frammenti, una testa e un torso, sono la testimonianza più antica della colonia latina di Cremona, fondata dai Romani nel 218 a.C. Ritrovati casualmente, nel 1974, nel muro medioevale della cantina di Palazzo Dati, nel centro cittadino, dove furono utilizzati come riempitivo, appartengono a una statua maschile non meglio identificabile, destinata a essere esposta in un edificio sacro o civile. L'accuratezza e raffinatezza della lavorazione denotano la presenza a Cremona di maestri di alto livello, capaci di rispondere alle esigenze di una città che già si distingue per la notevole prosperità economica. row-2m9u-kzsk~aczx Allegorie Orio Litta Via Montemalo, 18 Nel salone d'onore è presente sulla volta Apollo sul carro del sole trainato da quattro cavalli, a destra l'Aurora dalle candide ali seduta sulle scuri nubi della notte mentre sparge i fiori e regge la torcia accesa; a sinistra in basso un putto regge la lira della divinità e accanto a lui una figura muscolosa sembra ascendere al cielo: è probabilemnte Ercole, identificabile sia dai pomi che regge il putto, a riconrdo dei pomi d'oro delle Esperidi ma, soprattutto, dalla pelle di leone e dalla clava che gli altri due putti stanno portando verso la figura maschile alata che regge il serpente che si morde la coda, forse Zeus che sorregge Ebe, la futura sposa di Ercole assunto in cielo. Nella sala seguente, si trova invece la Primavera e poi la Giustizia con lo scetttro accompagnatata da due putti che reggono la bilancia e la cornucopia, a sinistra probabilmente la Fama con la tromba e la corona d'alloro e figure positive, a destra l'Inganno come figura dal viso in parte coperto dalla maschera, un uomo in catene, simbolo dei più bassi istinti terreni e l'Ignoranza con le orecchie d'asino. Nella terza sala una figura femminile alata con la tromba e due putti scacciano altre due figure di cui una è possibile identificare come l'Ignoranza. Al piano superiore la Cacciata dei Giganti. La costruzione del corpo centrale dell'edificio, che presenta una disposizione dei corpi a U, risale alla seconda metà del XV secolo per opera del conte Antonio Cavazzi della Somaglia. Il Palazzo, commissionato al noto architettoGiovanni Ruggeri doveva essere una manifestazione della ricchezza e importanza della famiglia Cavazzi. Alla sua morte, nel 1688, il conte lasciò la Villa in eredità al pronipote Paolo Dati a cui si deve l'ampliamento del palazzo di Orio, trasformandolo in un reggia maestosa destinata a luogo di villeggiatura e incontro di importanti personaggi della letteratura e cultura italiana settecenteschi. Nell'edizione del 1743 delle Ville di Delizia, si documenta l'assetto definitivo assunto dal complesso. La villa ha un'articolazione unitaria e simmetrica in cui emerge il corpo centrale al quale si collegano le ali più basse dei rustici, che racchiudono il cortile d'onore mediante due testate di cui quella di sinistra ospita la chiesa. I muraglioni di contenimento delle terrazze erano intettorri da scalinate a doppia rampa in cui erano inseriti ninfei. Entro il 1749 i lavori dovevano essere terminati e con essi la decorazione ad affresco riferibili alla scuola di Pietro Maggi. row-cvtm.994p~kz3g Banchetto di Erode, Storie di san Giovanni Battista, Sepoltura di san Giovanni Battista, Presentazione della testa del Battista a Erodiade Castiglione Olona Via Cardinal Branda Tra le scene più suggestive dipinte da Masolino da Panicale all'interno del Battistero della Collegiata, sulla parete di destra della prima campata, a lato della porta d'ingresso, si osserva il pannello che presenta una sequenza di eventi susseguitesi nel tempo ma collocati simultaneamente in un'unica ambientazione spaziale: "Il Banchetto di Erode", "La consegna della testa a Erodiade" e "Il seppellimento del Battista". In un ambiente cortese eleganti figure con cappelli alla greca e costumi all'orientale popolano quinte architettoniche dal gusto gotico-rinascimentale, sullo sfondo di un paesaggio montano che sorregge la scena della sepoltura del corpo del Battista isolata in un'ideale lontananza. Procedendo con la lettura da sinistra a destra, più in basso si scorge un gruppo di quattro persone intorno alla tavola del banchetto, cinque personaggi posti al di là delle prospettive del palazzo di Erode e il terzo gruppo intorno al capo mozzato del Battista sotto il portico, sulla destra della composizione. Si avverte una diversità nel tono drammatico: da una parte, Erode e i convitati dall'atteggiamento compassato, due conversano tra loro mentre il più vecchio volge lo sguardo verso chi entra; dall'altra, al raccoglimento delle due donne intorno alla testa del Battista, Salomè che in ginocchio consegna il macabro trofeo a Erodiade, si oppone l'agitazione delle due ancelle. Il Battistero fa parte del complesso della Collegiata di Castiglione Olona: originariamente ricavato da una delle torri dell'antico castello fortificato, la dedicazione di questo ambiente a San Giovanni Battista risale agli interventi di abbellimento e ammodernamento del borgo promossi dal cardinal Branda Castiglioni che, a partire dal 1425, fece ricostruire la chiesa parrocchiale o Collegiata, fondò un collegio per l'istruzione dei giovani e fece edificare ex novo la chiesa di Villa.La scoperta al suo interno di uno dei più importanti cicli di affreschi del Quattrocento italiano, opera di Masolino da Panicale, è avvenuta solo nel 1843, sotto a scialbature applicate alla fine del Settecento; l'iscrizione "MCCCCXXXV" (1435) riportata sull'intradosso dell'arco absidale è considerata non coeva ma cronologicamente attendibile circa la data della loro esecuzione.La decorazione interna è organizzata in modo unitario e si estende a tutto l'ambiente, così che ogni parete accolga una o più scene provviste di punto di fuga centrale, confluenti cioè nell'ideale posizione dello spettatore al centro dell'edificio. Le vicende sono narrate con impostazione didascalica utilizzando la scomposizione di uno stesso riquadro per suggerire la successione temporale di azioni riferibili al medesimo racconto.Le forti caratterizzazioni dei convitati hanno portato la critica a ravvisarvi ritratti di contemporanei: seguendo le tesi più diffuse, il personaggio di Erode ritrarrebbe Niccolò III d'Este o Filippo Maria Visconti; il personaggio con capelli bianchi, lo stesso cardinal Branda; il giovane biondo con baffi, Pippo Spano o Giovanni Hunyadi, entrambi condottieri dell'epoca. Risulta ben riuscito il tentativo di realizzare un efficace equilibrio tra le figure e le architetture, cui è affidato il compito di stabilire i nessi necessari per guidare lo spettatore nella lettura delle scene; colpisce inoltre la sobrietà e la chiarezza descrittiva dei gesti e dei costumi caratterizzanti i diversi personaggi dai morbidi incarnati e di una bellezza assorta. Da un esame ravvicinato è emersa la presenza di foglie o lamine metalliche direttamente applicate sul fondo talvolta con residui d'oro, sgraffiate con incisioni fitte a mano libera specie in corrispondenza di drappi e di vesti per imitare le maglie delle armature o gli arabeschi dei tessuti, che pare confermare l'esecuzione di dorature, tecnica che si ritrova ovunque nel ciclo con lo scopo di amplificare gli effetti materici e luministici già piuttosto evidenti. row-pbfg-k7mq_v3sf Incoronazione di Maria Vergine, Evangelisti e Padri della Chiesa Lentate sul Seveso Piazza San Vito, 24 La volta del presbiterio dell'Oratorio di S. Stefano a Lentate appare suddivisa in quattro vele dipinte ad affresco: esse sono separate dalle pareti da una cornice a tralicci vegetali e ornamentazioni geometriche, intervallate da tondi poligonali in cui campeggiano gli stemmi della famiglia committente, i Porro, e divise tra loro da una sequenza di fasce cromatiche parallele che segue il profilo della costolonatura centrale.Nella vela orientale è raffigurata l'"Incoronazione della Vergine": Maria e Gesù siedono su un ampio trono in marmo rosa con l'alto schienale culminante sulla sommità con un timpano triangolare decorato con motivi fitomorfi. Maria indossa una veste bianca e un mantello rosato, ha le braccia incrociate sul petto e il capo reclinato in avanti, con i capelli biondi raccolti a treccia. Gesù, seduto sulla destra di fianco a lei, indossa una veste rossa coperta sulle spalle da un manto blu e porta i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle; nella mano sinistra regge una corta asta dorata, mentre con la destra sistema la corona d'argento e gemme sul capo della madre. Ai lati del trono si affollano due schiere piramidali di serafini e angeli che cantano e suonano. La vela disposta a occidente raffigura invece, nel medesimo trono di colore rosato, i due Padri della Chiesa legati alla città di Milano: Ambrogio e Agostino. Il primo viene raffigurato seduto sulla sinistra, in posizione perfettamente frontale, con indosso i paramenti vescovili di colore rosso intenso ed in mano i suoi caratteristici attributi iconografici, lo staffile e il pastorale. Il secondo, seduto sulla destra, indossa una lunga veste violacea coperta da un mantello azzurro e ha il volto leggermente rivolto verso sinistra. Il dipinto è piuttosto danneggiato e dunque non chiaramente visibile, ma Sant'Agostino sembra reggere tra le mani un libro e un pastorale. Accanto al trono sono raffigurati due tondi in cui sono inseriti un santo vescovo, sulla sinistra, e un santo francescano che legge, sulla destra. Nelle due vele laterali sono infine raffigurati, ugualmente seduti su troni marmorei di colore azzurro, i quattro Evangelisti - Luca e Marco, Matteo e Giovanni - intenti a scrivere i Vangeli, appoggiandosi a dei tavoli posti loro davanti. Ai lati dei troni si dispongono quattro tondi con all'interno il "tetramorfo", ovvero il loro rispettivi simboli: il toro per San Luca, il leone per San Marco, l'angelo per San Matteo e l'aquila per San Giovanni.Le analisi visive e le mappature effettuate sullo stato di conservazione degli affreschi durante la campagna d'indagine preliminare all'ultimo restauro, hanno portato a definire più chiaramente la tecnica d'esecuzione e i materiali costitutivi del dipinto: il disegno è stato realizzato ad incisione per l'architettura dei troni, per le aureole e gli ingombri delle figure, e direttamente a pennello con ocra rossa per i particolari dei personaggi. Oro decorato con incisioni è stato utilizzato per le aureole, le stelle nel cielo e le scritte, mentre lamine d'argento punzonate sono state usate per la bordatura delle vesti. I visi sono dipinti a buon fresco, fondendo i colori in modo da ottenere morbidi effetti di sfumato, rinforzando le ombre con sottili tratteggi scuri e i lineamenti con piccoli tocchi di rosso. Il colore dei panneggi non è steso direttamente sull'intonaco ma su una base a terra verde o ocra, sulla quale erano già state impostate le ombreggiature. Alla prima stesura di colori a base di terre, l'artista ha poi spesso sovrapposto velature più "preziose" con colori quali il cinabro, il minio e il verde rame trasparente. Gli autori degli affreschi collocati nel presbiterio sono pittori lombardi della seconda metà del Trecento, formatisi sull'esempio della cultura giottesca di Giusto de' Menabuoi e di Giovanni da Milano, e influenzati dalla cultura cortese e mondana che a partire dalla metà del XIV secolo si concentrò sempre di più su un'attenta descrizione della moda e degli elementi naturalistici, caratterizzati da una linea elegante e raffinata. In mancanza di un nome certo cui attribuire l'opera, la critica li ha indicati genericamente come "Maestro delle Vele" e "Maestri di Lentate", ritenendo si tratti di due mani diverse operanti, rispettivamente, l'una nelle vele e l'altra nelle pareti del presbiterio. Le pitture della volta appaiono come il punto più alto dell'intero ciclo di affreschi conservati nell'Oratorio: esse sono realizzate a buon fresco, con un maggior uso, rispetto alle altre pitture murali del presbiterio e della navata, di colori preziosi quali l'azzurrite e il cinabro.Gli ampi troni marmorei su cui siedono i personaggi sacri sono realizzati con estrema cura e con una correttezza, per quanto riguarda lo studio prospettico, rara per l'epoca. Su di essi siedono poderose figure dalla solida volumetria, la cui plasticità viene esaltata dal modellato dei panneggi, molto debitore della pittura giottesca. Le figure degli Evangelisti in particolare sembrano ispirarsi ai "Dottori della chiesa" affrescati da Giusto de' Menabuoi nel coro della Basilica di Viboldone poco dopo il 1349, di cui si ripetono in maniera quasi identica anche il modo di avvolgere le vesti, le forme dei troni e la predilezione cromatica per tinte quali il rosa antico e il verde. Per quanto invece concerne la vela con l'"Incoronazione della Vergine", qui il riferimento iconografico è stato identificato nella "Glorificazione della Vergine" dipinta nell'abbazia di Chiaravalle da Stefano Fiorentino, nella quale i volti severi dei personaggi sono dipinti con ombre vigorose e definiti da un incarnato ambrato, steso a sottili velature secondo i dettami della pittura fiorentina. La critica ritiene inoltre che gli affreschi realizzati nel vicino oratorio di Birago da Solaro tra il 1363 e il 1367 possano essere attribuiti alla stessa mano che operò a Lentate, per via dell'estrema vicinanza tra le figure di Sant'Ambrogio rappresentate nei due cicli, entrambe dipinte in posa frontale, con gli zigomi allargati, l'occhio allungato e segnato da una borsa, ed il medesimo modo di tratteggiare le rughe e i baffi, ormai confluiti nella barba. Anche il volto imberbe del San Matteo di Lentate può essere confrontato con il giovane Cristo di Birago, per via della bionda e compatta capigliatura e del particolare modo di congiungere con un contorno arcuato la linea del mento all'orecchio, evidenziando così la massa del collo (Pracchi, 2007).Come narrato nella lapide del sepolcro murata sulla parete sinistra del presbiterio, la decorazione pittorica venne eseguita in occasione dell'erezione della chiesa nel 1369 e dovette sicuramente terminare prima del 1375, data graffita nelle murature decorate e rinvenuta in occasione dell'ultimo restauro del 2006. Durante tale campagna si è rilevata inoltre la presenza di pontate, non di giornate, segno di un procedere esecutivo molto rapido che potrebbe sottintendere il 1369 come data di conclusione dell'impresa e di inaugurazione del complesso. row-2gb5-fp47.biy8 Milano Via San Vittore, 21 row-gce2-2qvv-jvvg Gondole sulla laguna (Laguna grigia) Milano Via Manzoni, 12 row-rd59.fh69.i5gc Figura (Grande nudo) Bergamo Via S. Tommaso, 53 Il grande cartone descrive un grande nudo femminile seduto a terra con le gambe piegate e il braccio destro appoggiato a un oggetto arcuato, non identificabile. Sullo sfondo, in una sintesi geometrica che suggerisce uno spazio urbano, compare una figura maschile in atto di camminare. L'intera composizione è resa in una gamma cromatica ridotta impostata su colori della terra, dall'ocra al marrone al verde marcio, ravvivati da larghe campiture di colore bianco che torniscono la figura in primo piano fortemente illuminata da dietro. Il cartone è quadrettato per la trasposizione della scena sulla superficie del muro per la realizzazione dell'affresco finale. Questo cartone si collega quasi certamente al progetto per il grande affresco raffigurante l'"Italia tra le Arti e le Scienze", eseguito nel 1935 da Sironi nell'Aula Magna dell'Università di Roma "La Sapienza" per incarico del Fascio. Potrebbe essere una prima idea per la figura femminile seduta in primo piano nel lunettone di sinistra, trasformata poi dall'artista in corso d'opera. Nel periodo postbellico il monumentale affresco venne 'epurato' dei simboli fascisti e pesantemente ridipinto. Nel Manifesto della Pittura Murale del 1933, di cui fu il principale ispiratore insieme a Carrà, Sironi espresse la sua alta considerazione dell'affresco e della grande decorazione in generale, che avevano, rispetto alla pittura da cavalletto, un più forte significato sociale essendo destinate al pubblico e non al privato ed essendo quindi interpreti di valori comuni con una funzione educatrice. Il tema delle arti e dei mestieri è un leit motivi di tutta la produzione sironiana di opere monumentali, che ha la sua massima espressione tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Quaranta e che vede l'affermazione dello stile neo-primitivo con forme solide, massicce e semplificate in riferimento ai modelli di Giotto e Masaccio. row-sw9e-afci-5s7p Ritratto di dama Milano Via Manzoni, 12 row-v6px-tp5q~esas Ecce Homo Lovere Via Tadini, 40 La scena raffigura il momento in cui Ponzio Pilato, governatore romano della Giudea, mostra al popolo Cristo flagellato. La gradinata in primo piano introduce alla scena costituita da un'ambientazione architettonica. La figura di Cristo, in piedi con il capo chino e gli occhi chiusi, si accampa sullo sfondo davanti a una possente colonna scanalata. Lo caratterizzano gli emblemi con cui i soldati l'hanno adornato per schernirlo: la corona di spine in testa, il manto porpora e la canna retta di traverso come uno scettro. Il corpo, anatomicamente ben modellato, non presenta i segni della flagellazione, mentre i polsi incrociati sono legati con una fune. L'Ecce Homo è considerato l'estremo capolavoro della pittura sacra di Francesco Hayez, pittore veneto che dopo essersi inserito perfettamente nel fervido clima neoclassico milanese si impone come caposcuola del Romanticismo italiano. L'opera, che si colloca nell'attività tarda, è realizzata probabilmentre tra il 1867 e il giugno del 1875, impegnando non poco l'artista, le cui condizioni di salute non sono delle migliori. In particolare, l'aggiunta in fase di esecuzione di circa trenta cm di tela, visibile ad occhio nudo, sottolinea il lungo travaglio per raggiungere quell'effetto scenografico e monumentale che Hayez vuole dare alla scena. Il dipinto, spedito a Lovere nel luglio del 1875, è subito esposto nelle Sale dell'Accademia Tadini. row-xtzv.vznf_q2bd Campagna Casalmaggiore Via Formis, 17 La tela, attraverso la giustapposizione di campi, acqua e di piccoli filari di alberi, appena scalati in profondità e sovrastati da un alto cielo, presenta una veduta della campagna casalasca colta in un istante senza tempo e sottolineata nei suoi ampi ed ordinati spazi, privi di figure umane. Il dipinto ben rappresenta lo stile di Tino Aroldi che, grazie a un'estrema sintesi formale, risolta in composizioni di superfici quasi ai limiti dell'astrazione, unita a colori chiari e soffusi (con toni perlacei viranti al grigio-azzurro, al verde veronese e al violetto) mira, attraverso i suoi paesaggi, a rappresentare l'infinità dello spazio e la dimensione interiore dell'autore. Di carattere un po' schivo fu sempre restio ad esporre le sue opere, Aroldi fu invece molto attico nei sodalizi artistici cremonesi sia come organizzatore di esposizioni. row-3ff4.wet6-a26b Raccolta etnografica del Museo del Lino Pescarolo ed Uniti Via Mazzini, 73 La raccolta è composta da circa novemila reperti di interesse demoetnoantropologico. Essi si possono raggruppare in alcune categorie generali: gli attrezzi manuali relativi alla coltivazione delle fibre tessili vegetali (lino e canapa) databili tra l'Ottocento e la prima metà del Novecento; gli strumenti manuali per la lavorazione delle fibre dopo la raccolta, dalla scotolatura alla gramolatura; gli utensili per le operazioni di filatura e tessitura; oltre duemila capi d'abbigliamento e biancheria, prevalentemente in lino, databili tra il XVIII e primi anni del XX secolo e provenienti per la quasi totalità dalla pianura padana. Essi testimoniano l'importanza della coltivazione del lino nell'economia del mondo contadino. La collezione comprende anche reperti relativi alla coltura del baco da seta, oggetti di uso quotidiano riguardanti le attività agricole, l'economia e le ritualità domestiche, l'organizzazione sociale, i modi di vita rimasti immutati per secoli fino alla prima metà del Novecento con l'avvento della meccanizzazione dell'agricoltura, delle monocolture intensive e della produzione industriale. La collezione di reperti del Museo del Lino racconta della vita del mondo contadino della pianura cremonese prima dell'avvento dell'industrializzazione e della meccanizzazione agricola. E' incentrata sugli attrezzi relativi alla coltivazione e alla lavorazione del lino, senza trascurare però altri aspetti del lavoro, soprattutto femminile, del mondo contadino di fine Ottocento e inizi Novecento, quali l'allevamento del baco da seta, il lavoro nei campi, la vita quotidiana e domestica. La sezione più significativa è rappresentata dalla raccolta di attrezzi che testimoniano tutte le fasi per la lavorazione artigianale del lino, dalla semina alla tessitura, e dalla sezione dei tessuti, prevalentemente in lino, risalenti tra il XVIII e gli inizi del XIX secolo, che testimoniano l'importanza di questa filiera nell'ambito dell'economia e della vita contadina della pianura padana. La collezione è composta anche da una ricca collezione di carte da spolvero, provenienti dal lascito Rosa Brunelli e dalla donazione di Maria Caifa, che servivano per trasferire sulla tela il disegno da ricamare. Tra gli oggetti di uso quotidiano si annoverano utensili per la casa e la cucina, oggetti devozionali e un'ampia collezione di lucerne e lampade a olio, a petrolio, a cera usate prima dell'avvento dell'energia elettrica. Per la conservazione appropriata di questi materiali, e in special modo dei tessuti, il Museo ha attivato una serie di collaborazioni con le Soprintendenze competenti e con il Museo del Tessuto di Lione, per adottare metodologie condivise anche a livello internazionale. A partire dall'inizio degli anni Novanta, il Museo del Lino ha svolto campagne di inventariazione e catalogazione delle proprie collezioni all'interno del SIRBeC, usufruendo in parte di cofinanziamenti regionali. row-5r8m-n2q7~7jjw Paesaggio Lovere Via Tadini, 40 Il servizio da caffè è formato da 12 tazzine di forma cilindrica, 12 piattini e una zuccheriera. Ogni elemento del servizio, contrassegnato dalla marca "N" coronata in blu che identifica la produzione della Reale Fabbrica Ferdinandea (solo la zuccheriera, pur stilisticamente pertinente, ne è priva), presenta una diversa veduta del Regno di Napoli, dipinta a colori a punta di pennello. Il pregio del servizio è accresciuto da filettature in oro zecchino e decori a girali di colore rosso seppia, eseguiti a mano. Alcune vedute sono state dipinte traendo ispirazione dalle incisioni presenti nel volume "Voyage pittoresque ou description de Royaumes de Naples et de Sicile" pubblicato dall'Abbé de Saint-Non nel 1781-1786: si può quindi ripercorrere un itinerario ideale che dalle cascate dell'Isola del Liri passa per il sito archeologico di Baia presso Pozzuoli, per le rovine di Pompei e per quelle dell'Anfiteatro di Benevento, fino a giungere al tempio di Giunone ad Agrigento. Nelle vedute, molto dettagliate nella descrizione, viene messo in evidenza il sito geografico ma anche l'aspetto etnografico delle popolazioni che vi abitano, in alcune vi è anche un' accentuazione preromantica nel ritrarre la maestosità della natura. La fondazione della manifattura di Capodimonte a Napoli nel 1743 è l'importante risposta italiana alla fioritura delle produzioni di Meissen e Sevres, seguite della riscoperta occidentale del procedimento tecnico della porcellana (già noto in Cina e in Giappone da secoli). Chiuso per il trasferimento della manifattura a Madrid al seguito di Carlo III di Borbone, lo stabilimento riapre nel 1773 sotto il figlio Ferdinando IV con il nome di Reale Fabbrica Ferdinandea e da quel momento per almeno due decenni i suoi sontuosi servizi da tavola, da té e da caffé, ma anche trionfi da tavola in biscuit, connoteranno le più importanti dimore reali e patrizie del tempo. Questo servizio da caffè è verosimilmente acquistato dal conte Luigi Tadini nel corso di ripetuti soggiorni a Napoli, compiuti tra il 1793 e il 1797 in compagnia del figlio. L'esecuzione delle belle vedute, il cui gusto è frequente nelle porcellane napoletane, è basata su una stesura a macchia dal morbido tocco che rende sfumature ed effetti luministici. row-fx47~kztj-6m5c La Vergine in trono con il Bambino, i Santi Anna, Elisabetta, Agostino e il beato Pietro degli Onesti Milano Via Brera, 28 row-6egx.kzaw-33r2 Scene della vita del Buddha Milano Corso Magenta, 15 row-7qgy.ns76~iexh Lecco Corso Matteotti, 32 Il rilievo funerario presenta quattro nicchie con altrettanti ritratti di personaggi, i cui nomi sono incisi nella zona inferiore. Si tratta di quattro defunti, due giovani, un vecchio e una donna con il volto rappresentato in modo alquanto realistico. Il reperto, di età tardoromana, fu donato al Museo dagli eredi Massaroni. Proviene dalla demolizione della chiesa di Santa Maria della Scala a Milano e rappresenta un caso interessante di reimpiego di materiali romani in edifici medievali. row-2ch5.wk8k~hsda Milano Via San Vittore, 21 row-rra5.43bm~48uz Crocifissione Milano Piazza Santa Maria delle Grazie Collocato nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, di fronte all'"Ultima Cena" di Leonardo da Vinci, l'affresco rappresenta una monumentale "Crocifissione".L'opera occupa l'intera parete e l'insieme delle tre lunette, all'interno delle quali si collocano i tre altissimi crocifissi raffiguranti Cristo al centro, circondato da quattro angeli dolenti sorretti da nuvole e, ai lati, i due ladroni, dei quali quello di sinistra è salvato da un angelo che regge tra le mani la sua anima pentita, e quello di destra sormontato dall'immagine di un diavolo dalla pelle scura.Totalmente assente risulta nella composizione una concezione di prospettiva unitaria, tanto che i numerosi personaggi che si affollano nella parte bassa della scena appaiono distribuiti su diversi piani ma senza alcun impianto costruttivo che crea effetti di profondità. In primo piano si susseguono una fila di personaggi, spesso organizzati in piccoli gruppi. Sulla sinistra sono visibili un gruppo di santi domenicani, tra cui è riconoscibile San Pietro martire, con il caratteristico attributo iconografico della ferita in testa causata da un coltello, seguito dal gruppo delle Pie donne che sostengono Maria, insolitamente vestita di viola sotto l'ampio mantello azzurro. Ai due lati della croce sono raffigurati due monaci domenicani inginocchiati in preghiera, mentre la Maddalena abbraccia la croce, inginocchiata ai suoi piedi. Sulla destra appare San Giovanni, in piedi, ha le mani strette con le dita intrecciate e il volto dolente inclinato verso il basso, nell'atto di guardare il gruppo di soldati romani che si gioca a dadi le vesti di Gesù. All'estrema destra della composizione appare un gruppo di sante domenicane che fa da contraltare ai santi sul lato opposto. In secondo piano, senza nessuno sfasamento in profondità, una fitta schiera di soldati e cavalieri occupa la parte centrale della scena, tra bandiere, lance e stendardi.Il vasto paesaggio della Crocifissione, caratterizzato da rilievi aspri e rocciosi, appare organizzato intorno alla città di Gerusalemme posizionata al centro, probabile ricordo delle opere architettoniche del Filarete e del Bramante. L'intera scena è immaginata oltre un proscenio costituito da due pilastri d'angolo (di cui oggi rimane solo il destro) e dagli archi marmorei delle lunette. La volta a padiglione soprastante è divisa dall'artista in un massiccio sistema a cassettoni, anch'esso di derivazione bramantesca. Le lunette attigue all'affresco erano invece dipinte con gigantesche figure di profeti, potentemente chiaroscurate e viste dal basso, in netto contrasto con la grazia delle figure affrescate lungo un fregio sulle pareti lunghe della sala, accompagnate da una trabeazione decorata con motivi ad intreccio e da festoni con nastri e iscrizioni. L'enorme affresco della Crocfissione venne firmato e datato 1495 da Donato Montorfano, e costituisce una delle poche opere certe dell'artista, nonché una delle sue ultime, dato che già nel 1497 il pittore risulta ammalato e non più in grado di lavorare. Saldamente ancorato alla tradizione pittorica quattrocentesca lombarda, filtrata dagli sviluppi della pittura padovana, l'opera del Montorfano risentì ingiustamente di una collocazione penalizzante di fronte al grande capolavoro leonardesco, che accentuò fin dalla sua realizzazione l'abisso che divideva l'ambiente pittorico milanese da quello toscano. A testimonianza dell'impari confronto con il pittore fiorentino, un lettera del 1497 scritta da Ludovico il Moro è stata interpretata come un invito a demolire l'opera dell'artista, finita da appena due anni, per sostituirla con un dipinto fatto realizzare a Da Vinci. In realtà è piuttosto improbabile che il duca potesse far demolire un grande affresco già pagato da altri e appena terminato, tuttavia avendo lasciato il Montorfano due zone vuote nella parte inferiore della composizione, con tracciate solo sommariamente le figure del duca Ludovico con il figlio Cesare a sinistra, e di Beatrice d'Este con il figlio Massimiliano a destra, è possibile che le istruzioni si riferissero al rifacimento di tali ritratti.I protagonisti della scuola lombarda, da Montorfano a Foppa, da Butinona e Zenale, seppur con esiti diversi sul piano della qualità e dell'efficacia espressiva, formarono infatti il loro percorso su una tradizione saldamente legata alla pittura tardogotica, subendo ancora per tutto il Quattrocento il fascino di stemmi, rilievi in stucco e dorature atte ad aumentare lo splendore dei dipinti. Il gusto di quest'opera è dunque perfettamente in linea con lo stile espresso nella decorazione della chiesa e del convento delle Grazie negli ultimi decenni del Quattrocento. E' dunque probabile che, pur non potendone rintracciare concretamente i modelli, il Montorfano creò con questo dipinto un esempio che godette di una certa fortuna, da cui gli derivò, con tutta probabilità, la commissione nella chiesa domenicana di S. Maria della Rosa, demolita nel 1831 e della quale si conservano oggi gli affreschi strappati presso la Pinacoteca Ambrosiana. row-68ec-mpd3-muvj Madonna di Kazan Chiari Via Bernardino Varisco, 9 Maria è ritratta a mezzo busto con il volto reclinato verso il Figlio, che si regge in piedi sulle ginocchia della Madre mentre benedice con la mano destra. Punto focale della raffigurazione è lo sguardo di entrambe le figure, sottolineato dai grandi occhi aperti sotto le marcate arcate sopraccigliari e rivolto verso l'osservatore. Sia la Madonna che Gesù Bambino indossano un manto rosso (maphorion) sopra una tunica azzurra, colori che rimandano alla doppia natura, divina e umana, di Maria e Cristo. Le figure dipinte sulla tavola emergono nello spazio non ricoperto dal "rivestimento" metallico (riza) in lamina d'argento sbalzata, che lungo il perimetro esterno presenta decorazioni con motivi a girali, mentre in corrispondenza delle due teste si apre in grandi aureole raggiate. Al centro dell'aureola della Madonna la lastra metallica disegna la corona bombata interamente sbalzata. Il prototipo iconografico dell'opera è quello della cosiddetta "Madonna di Kazan", realizzata probabilmente all'inizio del secondo millennio a Costantinopoli da dove scompare nel 1209, per poi ricomparire all'inizio del Novecento e giungere nel 2004 tra i beni di proprietà del patriarca di Mosca Alessio II. L'icona fa parte della preziosa collezione donata con lascito testamentario alla Fondazione dalla signora Liliana Giordano (Chiari 1922-Rezzato 2012), costituita da settanta pezzi databili dal XIV al XIX secolo, provenienti dai territori slavi. Le opere, di diversa dimensione, spaziano dalle raffigurazioni dedicate alla Madre di Dio (secondo l'iconografia dell' "Eleusa" La Misericordiosa - e dell' "Odighitria" - Colei che indica la via -) al Cristo Pantocrator e alla sua Vita, fino alla storie di santi e alle feste liturgiche. Accanto alle cinquanta icone provenienti da abitazioni private, nelle quali tradizionalmente accompagnano le famiglie di religione cristiano-ortodossa, una ventina, di grandi dimensioni, sono invece quelle legate all'uso liturgico e quindi provenienti dall'iconostasi, ossia dalla parete che separa la navata delle chiese di rito orientale (ortodosse e cattoliche) dal Bema (santuario) dove si celebra l'Eucaristia.La presenza in numerose icone di un rivestimento metallico (rize) particolarmente ricco, sia per il tipo di lavorazione che per gli ornati con gemme e pietre preziose, attesta la ricchezza dell'intera collezione. row-awpj_ykh9.u6m7 Restauratio humana Bergamo Piazza Rosate Il parapetto dell'iconostasi, la cui funzione è quella di delimitare lo spazio più sacro del presbiterio da quello riservato ai fedeli, è ornato all'esterno da quattro riquadri a tarsia con episodi biblici coperti da pannelli protettivi a tarsia raffiguranti composizioni allegoriche in relazione ai contenuti delle "storie" da proteggere. La "Sommersione del Faraone", il primo da sinistra, introduce l'osservatore alla Bibbia per immagini ideata da Lorenzo Lotto. Il tema dell'esodo ben si presta a significare simbolicamente l'inizio di un viaggio creato per stimolare meditazioni sulle storie dell'Antico Testamento. Per la verità, Lotto aveva scelto come prima immagine la storia dell'Arca di Noè, la seconda da sinistra, nella quale si evidenzia il valore purificatore dell'acqua battesiamale; in fase di collocazione, i committenti diedero l'ordine a Capoferri di anteporre alla scena del Diluvio Universale la storia raffigurante l'inizio del viaggio di liberazione verso la Terra Promessa. Seguono due episodi che simboleggiano il trionfo della virtù sulla brutalità: "Giuditta", donna prefigurante colei che salva il suo popolo dall'assedio del male nemico, e "Davide e Golia", che celebra la vittoria del combattimento ottenuta da Davide per rendere manifesta la forza prodigiosa di Dio. Notevole è la resa pittorica delle tarsie dove Capoferri, grazie all'utilizzo di diverse essenze lignee, riuscì a rendere le gradazioni cromatiche e i giochi chiaroscurali del Lotto. Nel 1522 il Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo decise di dotare la basilica di Santa Maria di un nuovo coro; iniziarono così le trattative con il legnaiolo e intarsiatore loverese Giovanni Francesco Capoferri per l'esecuzione dell'opera. Al Capoferri, direttore dell'impresa, fu affiancato il marangone Giovanni Belli di Ponteranica per i lavori di intaglio. I cartoni delle tarsie furono affidati al quasi sconosciuto Nicolino Cabrini, alla cui morte il Consorzio chiamò in causa Lorenzo Lotto. L'artista inizialmente effettuò anche la 'profilatura' delle tarsie, ovvero la loro rifinitura finale mediante stucco nero per i contorni delle figure e con ombreggiatura a fuoco per il chiaro-scuro, ma un contrasto di natura economica frenò la sua disponibilità. I cartoni delle quattro invenzioni con i relativi coperchi da porre sul parapetto dell'iconostasi furono eseguiti dal Lotto tra il 1524 e il 1528. Intarsiati dal Capoferri tra il 1527 e il 1530, i pannelli risultavano messi in opera entro il 1531. row-rb94~247w_fktw Estensione Briosco Via Col del Frejus, 3 Scultura astratta costituita da due elementi modellati in bronzo, piuttosto spessi e dalla forma irregolare, a tratti sporgenti e ricchi di creste, a tratti concavi e ondulati, poggiati sopra una base di forma cubica in marmo rosa. L'opera, esposta all'aperto, è alta 180 cm, larga 100 cm e profonda 105 cm. L'opera, facente parte della collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini, è stata realizzata nel 1970 dallo scultore pesarese Giò Pomodoro (1930-2002). Come tutte le opere dell'artista, anche questa non ha come obiettivo la restituzione di un'immagine reale, riferibile al vero, bensì lo studio dello spazio e la definizione di una forma intesa come astratta. Tutte le sue meditazioni sulla materia si espletano in trasposizioni plastiche incentrate su superfici magmatiche e metamorfiche, attraverso le quali si percepisce la presenza in esse di energie organiche e della volontà della mano creatrice. Questa "Estensione", in bronzo e marmo, si organizza intorno ad un vuoto carico di significato, circondato da due ali contorte e simmetriche che, come le pagine di un libro lacerato, si attraggono e si respingono nello stesso tempo. Le tensioni che percorrono le due forme bronzee sono ulteriormente sottolineate dal chiaroscuro e dalle trasparenze del materiale costitutivo stesso dell'opera, qui attraversato da solchi e sporgenze che ne animano la superficie.L'opera è collocata presso il Parco di sculture della Fondazione e non costituisce l'unico acquisto di Giò Pomodoro fatto dal collezionista e imprenditore brianzolo Alberto Rossini. Molto affascinato dall'artista, Rossini cercò di attivare con lui (come aveva già fatto in precedenza con altri grandi nomi della scultura italiana e internazionale) una collaborazione per il riutilizzo in scultura di vecchi stampi prodotti dalla Ranger, l'industria di famiglia, ma la prematura scomparsa dell'artista nel 2002 non permise di portare a termine questo progetto. row-45bk_6v5e~ce4d Ome Via Maglio, 51 L'esemplare è realizzato in acciaio, argento e maglia di ferro, e appartiene alla tipologia più comune degli elmi indossati dagli uomini d'arme persiani, con puntale al centro della calotta e portapennacchi laterali per le piume di pavone o di airone. Sulla parte frontale è fissato un ponticello nel quale scorre il nasale fermato da un chiavistello. L'elmo è completo di camaglio in maglia di ferro che copre anche una parte del viso. Calotta e paranaso sono decorati con motivi minuti vegetali e a spirale, realizzati con liste d'argento, parzialmente dorate e non, inserite con la tecnica dell'agemina. Si tratta di un bell'esempio di elmo comunemente indossato in battaglia dai guerrieri persiani, da identificare con il cosiddetto "kolah khud" (casco), caratterizzato dalla fine decorazione a motivi fitomorfi e arabescati riservata alla calotta e al paranaso. Il casco persiano si differenzia dal modello indiano, il "top", per il suo rialzo alla sommità, mentre quello turco, lo "shiskak", è ancora più cuspidato. I maestri persiani non si limitavano a soggetti fitomorfi o moreschi, consentiti dalla tradizione iconoclasta dell'arte islamica, ma si dilettavano anche nella presentazione di scene di corte, di combattimento e talvolta di veri e propri ritratti di personaggi. Spesso la calotta reca iscrizioni in arabo e persiano antico che citano versetti del Corano.L'esemplare dimostra l'eclettismo perseguito da Pietro Malossi nella costituzione delle sue collezioni. row-svsb~x9rc_9sav Ritratto di Giovanni Benedetto Caravaggi Bergamo Piazza G. Carrara, 82 L'opera ritrae Giovanni Benedetto Caravaggi, filosofo e medico appartenente a una nobile famiglia di Crema. Laureatosi nell'università di Padova nel 1507 e divenuto lettore e rettore, è qui raffigurato come un umanista che si interrompersi dalla lettura di un ponderoso volume aperto sul tavolo ed è assorto nelle sue meditazioni. E' abbigliato con toga di seta rossa cangiante, stola nera e tricorno di feltro. Il libro manoscritto presenta sul taglio superiore alcuni segnalibri e postille nei margini delle pagine, come si addice allo studioso. Oltre la tenda si apre un paesaggio montuoso illuminato dalla luce di un tramonto rosato che investe un piccolo agglomerato di case sul monte, mentre due cavalieri, lancia in resta, galoppano nelle vicinanze di un laghetto. L'iscrizione e lo stemma presenti sulla tenda a destra attestano che il personaggio raffigurato è il cremasco Giovanni Benedetto Caravaggi, il cui fratello Giovanni Antonio fu anch'egli eternato in un ritratto del Cariani. E' probabile che l'opera sia stata eseguita quando il pittore, di origini bergamasche ma residente a Venezia, per un certo periodo rientra a Bergamo e negli anni 1518-1520 realizza diverse opere anche nella vicina Crema. Nell'opera Cariani mette in campo la sua cultura pittorica veneziana, derivata dalla pittura tonale di Giorgione, presso il quale si era probabilmente formato, e dalla nuova impostazione libera e naturale dei ritratti di Tiziano, lontani da schemi precostituiti. Sapiente è la costruzione prospettica, che ha i suoi punti di forza nel braccio sinistro in scorcio e nel realistico volume appoggiato sul tavolo. row-u9rq_pt92_3qjq Leone Sondrio Via Maurizio Quadrio, 27 La grande slitta esposta al Museo valtellinese di storia e arte si distingue per l'aspetto caratteristico a forma di leone accovacciato. Il muso è allungato e quasi mostruoso per i grandi denti acuminati e sporgenti. Il corpo è intagliato nel legno, al pari di una scultura vera e propria, scavato internamente e rivestito di velluti rossi in modo da accogliere comodamente i passeggeri. L'animale è montato su due pattini in ferro e legno che si raccordano frontalmente, dando all'oggetto un aspetto elegante, consono ai manufatti risalenti al XVIII secolo. Al cocchiere era probabilmente riservato il sedile-coda da dove poteva governare, grazie a lunghe briglie, gli animali che trainavano il curioso mezzo di trasporto destinato a scivolare sulla neve. Slitte zoomorfe simili a questa, trainate da uno o più cavalli, erano diffuse nel Settecento in tutta la Rezia e più in generale nelle aree alpine centrali. Appartenevano alle famiglie più in vista e più facoltose; di qui probabilmente la scelta di soggetti caratteristici legati alla nobiltà quali il leone o il cigno. Presso il museo di Sondrio nel Fondo Ligari sono conservate quattro stampe antiche che riproducono varie tipologie di fantasiose slitte a forma di animale, impiegate soprattutto nel XVIII secolo durante il periodo di carnevale.Questa slitta è giunta al Museo nel 1958 grazie alla donazione di Camilla Pratolongo, vedova di Francesco Sassi de' Lavizzari, il quale nel 1922 aveva già donato al Comune di Sondrio lo storico palazzo che ora ospita le collezioni civiche. row-7dzp_ve2m-jayd Motivi decorativi geometrici e vegetali stilizzati Mantova Piazza Sordello, 40 Questo pregiato piano di tavola a commesso, presumibilmente realizzato nella prima metà del Seicento in ambito fiorentino o più probabilmente romano, è stato inserito nella struttura in legno di un tavolo in stile Luigi XVI, costruito appositamente tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento. Un pannello centrale dominato da una grande ellissi è incorniciato da una fascia ornamentale, dove le pietre dure risaltano su un fondo di colore nero. Cartelle, ovali, rombi e girali vegetali sono i motivi che decorano il raffinato manufatto. Per realizzare un piano di tavola a commesso, il maestro intagliatore esperto di pietre definiva, sulla base di un modello preparatorio a grandezza naturale, le numerose sezioni che avrebbero composto a mosaico l'insieme e sceglieva i diversi marmi policromi da cui venivano ricavate delle lastre molto sottili. Pregio e vanto di questi lavori era appunto la perfetta connessione dei singoli elementi lapidei, che già ritagliati con precisione grazie alla virtuosistica abilità dei maestri intagliatori subivano inoltre una limatura dei bordi, per eliminare la pur minima scabrosità. I singoli pezzi venivano quindi fissati al supporto prescelto. Ultima e delicata fase finale della lavorazione era la lucidatura. row-mn58_7tkt.m5pd Madonna col Bambino e San Giovannino (Madonna Bolognini) Milano Piazza Castello row-4nj5.ai6v~tb2y Il Naviglio dal ponte di San Marco Milano Piazza della Scala, 6 row-9xwx_jxg3.qhnf Cenacolo Saronno Piazza Santuario 1 Il gruppo del Cenacolo è collocato all'interno della cappella omonima , sopraelevata attraverso un rialzo. É composto da 13 statue lignee a grandezza naturale, realizzate a tutto tondo con nicchia scavata all'interno e abbigliate con vesti e manti, decorati a ramage, gigli e fiori. É raccontato l'episodio dell'Ultima cena: è stata collocata, infatti una lunga mensa, composta da tre tavoli accostati, anch'essi lignei, sostenuti da gambe, caratterizzate da un motivo vegetale dorato, e sui cui ripiani sono adagiati un agnello, al centro, in corrispondenza della figura di Cristo e dei pani, posti davanti a ciascun apostolo.Il momento è quello in cui Gesù rivela che qualcuno tra gli apostoli lo tradirà, riprendendo lo stesso istante descritto dal Cenacolo vinciano, oltre ad avere lo stesso ordine di disposizione a gruppi di tre e la medesima descrizione caratteriale dei personaggi.A partire da sinistra Bartolomeo ha le mani appoggiate sulla tavola e tende con il corpo verso Cristo, quasi incredulo per le sue parole; Giacomo Minore poggia una mano sul petto e indica nella direzione di Gesù; Andrea sta composto, sollevando solamente le mani con i palmi rivolti all'esterno, come per allontanare da sè i sospetti.Successivamente si incontrano Pietro che reagisce con veemenza alla notizia ricevuta e sussurra qualcosa all'orecchio di Giovanni, l'apostolo dal carattere mite che ascolta in silenzio, mentre Giuda rimane isolato. Un terzo gruppo è composto da Tommaso con il dito teso, Giacomo Maggiore seduto con le braccia aperte, come a dimostrare di non avere nulla da nascondere e Filippo, invece, in piedi con le mani sul petto in segno di innocenza. Infine Matteo tende le braccia verso Cristo, ma il busto ed il viso sono rivolti all'indietro, verso Simone e Taddeo, che è rappresentato con le mani aperte verso l'alto per manifestare la sua meraviglia. Appena terminata la cappella della Passione (1530), i deputati del Santuario decisero la sistemazione della cappella del Cenacolo, di fronte ad essa.Il gruppo ligneo fu eseguito nuovamente ad opera di Andrea da Milano con le relative dorature di Alberto da Lodi; la decorazione della volta, invece, fu affidata a Luini, che dipinse in riquadri a due a due simmetrici quattro angeli recanti gli strumenti della Passione e l'Eterno Padre che si affaccia dalla balaustra nell'oculo centrale.Quando fu conclusa la decorazione, Andrea da Milano diede disposizioni (1533) in merito alla costruzione del sopralzo e al posizionamento delle sue statue (di cui però non si conosce l'esatta posizione): in questa occasione fornì le sculture di un agnello, di tre vasi e di quindici pani da mettere sulla mensa e anche i due busti dei profeti Isaia e Abacuc per i tondi della facciata della cappella. In seguito la mensa si arricchì di altre suppellettili, quali dodici bicchieri, tre oliere e tre salini; tutti elementi che ora non sono più apparecchiati.Inoltre l'autore completò la scenografia intagliando altre cinque statue, collocate su due mensole nella parete di fondo: a sinistra Gesù nell'orto del Getzemani con l'angelo, a destra gli Apostoli dormienti.La cappella subì diverse trasformazioni nei secoli, il più importante dei quali avvenne nel 1596 , ad opera dell'Ing. Lelio Buzzi, che dirigeva i lavori della facciata appena iniziati . In seguito alla visita pastorale del mons. Albergato (o Albogasio), visitatore e vicario generale del card. Federico Borromeo, fu ordinato che i due piccoli altari delle cappelle della Passione e del Cenacolo venissero sostituiti da nuovi altari di dimensioni maggiori, atti alla celebrazione della messa. Per questo motivo la cappella venne allungata: tutto il complesso delle statue e del rialzo vennero smontati e ricollocati nel 1597, ma non fu mantenuta la stessa disposizione dell'artista poiché fu rifatta la tavola, come è testimoniato in una registrazione contabile. Le statue furono montate secondo il seguente schema: Taddeo, Giacomo Minore, Andrea, Giuda, Bartolomeo, Giovanni, Cristo, Pietro, Giacomo Maggiore, Tommaso, Matteo, Simone e Filippo; quindi dall'aspetto differente rispetto a quello attuale. Con l'allungamento rimasero solo le tredici statue della Cena, la nuova decorazione della volta venne completata da Francesco Volpino con altri due angeli in stile luinesco.Andarono persi, infatti, gli affreschi di Cesare Magni sulla parete di fondo poichè fu abbattuta e su quelle laterali per il rovinio di alcune parti murarie: le statue dell'orazione dell'orto non furono più disposte nella posizione originaria per la presenza di una nuova grande apertura. I deputati, però, volendo che la scena fosse ancora rappresentata, il 25 ottobre del 1596, commissionarono a Camillo Procaccini di dipingere tre tele, aventi per soggetto Gesù nell'orto e il bacio di Giuda (sulle pareti laterali) e i servi che attendono alla tavola (sulla parete di fondo).Andrea da Milano e Alberto da Lodi anticipano Gaudenzio Ferrari, poco prima che egli lavori al Santuario, costruendo una rappresentazione sacra in stile tableaux vivant, come già ne aveva fatto esperienza l'artista valduggiano presso il Sacro Monte di Varallo (dal 1507).Lo scultore modella i volti di Cristo e degli Apostoli, crea giochi raffinati con i panneggi delle vesti, caratterizza la gestualità tentando di tradurre i moti dell'animo e le sottili vibrazioni psicologiche del Cenacolo vinciano, facendo immergere il fruitore nell'atmosfera del dramma di Cristo, colto proprio nel momento dell'annuncio, che vedrà traditore proprio uno degli apostoli. L'artista racconta lo stesso momento descritto da Leonardo, collocando le figure secondo lo stesso schema compositivo, da sinistra a destra: Bartolomeo, Giacomo Minore, Andrea, Giuda, Pietro, Giovanni , Gesù, Tommaso, Giacomo Maggiore, Filippo, Matteo, Taddeo e Simone. row-tipm_9zef_28c8 Il bacio Milano Via Brera, 28 row-ke7z~kdbs_qp7b Rabdomante; Cavaliere su serpente, Bilancia San Benedetto Po Piazza Teofilo Folengo, 22 Carro agricolo reggiano-modenese realizzato ne 1914 dal carradore Giuseppe Del Bue, così come attesta l'incisione sul cartiglio posto al centro del frontale tra applicazioni di borchiette in ferro battuto a forma di anatra. Nella freccia del carro sono inserite singolari figurine in ferro battuto mobili che si muovevano con le vibrazioni del carro: un uomo che ha tutta l'apparenza di un guerriero cavalca e tiene per le redini, quasi fosse un cavallo, un serpente con la bocca aperta e la lingua protrusa; immediatamente davanti a lui un uomo con le braccia tese sembra parlargli; segue con il viso rivolto altrove un automata, un giocoliere cui segue ancora il segno della giustizia e infine un rabdomante che tiene ferma tra le mani la bacchetta che comincerà a vibrare quando sentirà la vena d'acqua. Dietro, sullo scannello sono intagliati in legno motivi vegetali e vi è una borchia con la scritta: Provincia di Reggio Emilia. Il carro agricolo reggiano-modenese è caratterizzato da ruote anteriori sensibilmente più piccole delle posteriori, così da dare al piano di carico una vistosa inclinazione in avanti verso il lungo timone al quale venivano aggiogati una coppia di buoi. Il peso a vuoto oscilla tra i cinque quintali e mezzo e i sei e mezzo. Il carro è costituito da: un avantreno anteriore, un corpo di sala con due ruote ed un timone, una freccia che collega per tutta la lunghezza le due sale (assi in legno e ferro sulle quali poggia il carro e nei due capi delle quali entrano e girano le ruote), il piano del letto che riceve e sopporta il carico, infine lo sterzo nella parte anteriore e girevole. Il carradore Giuseppe Del Bue amava animare i suoi carri con figure in ferro, giocolieri, rabdomanti veri automata che oscillavano con il movimento del carro. Circolavano, durante i filòs nelle stalle, a volte portati da girovaghi, storie anche in forma poetica dialettale, spesso intrise di paure e di mistero. Da una di queste storie, scomparse ormai dalla memoria, lo stupefacente racconto che il Del Bue ha allineato come la banda di un fumetto di oggi sulla freccia del carro che porta sul frontale la sua firma: Giuseppe del Bue fece 1914.Il carro del contadino era essenzialmente uno strumento di lavoro come la falce fienaia e l'aratro il cui uso però non conosceva limitazioni stagionali e momenti privilegiati d'utilizzo. L'uso vario e continuo ne faceva un oggetto particolarmente importante che richiedeva il rispetto di due fondamentali esigenze: da un lato doveva essere robusto e maneggevole, dall'altro doveva essere elegante e capace di soddisfare esigenze da parata. I carri agricoli padani sono ornati con elementi decorativi legati al sostrato culturale folklorico, le cosiddette maledizioni, o con figure di Santi protettori dell'attività del contadino. Queste figure rivestono una duplice funzione: da un lato sono utilizzate con funzione estetica, vale a dire per abbellire il carro secondo canoni di gusto variabili e legati all'ambiente di riferimento; dall'altro hanno un valore apotropaico, rivestono cioè una funzione magico-religiosa e protettiva. Tra gli elementi ricorrenti si trovano draghi, serpenti, cani, galli, Santi e Madonne. row-j657_g3bj.x4b5 Veduta di Piuro dopo la frana Piuro Via Cortinaccio, 1 La tela, analoga per dimensioni a quella che raffigura il borgo di Piuro prima della frana del 4 settembre 1618 esposta a Palazzo Vertemate proprio di fronte a questa, ritrae il paesaggio dal medesimo punto di vista, documentando la rovina seguita alla calamità. La parte destra del dipinto è occupata in gran parte dall'area della frana, dove spicca il lago formato dal fiume Mera in corrispondenza dell'abitato di Piuro. Nel tetro paesaggio sono evidenziati gli edifici che si sono salvati dal catastrofico evento, in gran parte ancora esistenti: a sinistra si distingue palazzo Vertemate in località Cortinaccio con le sue pertinenze, i piccoli gruppi di case e broli cintati posti a valle di esso e, sulla riva sinistra del fiume Mera, la Chiesa di Prosto. In alto, tra i boschi, a destra delle cascate dell'Acqua Fraggia, compare Savogno. Sullo sfondo, poco oltre il lago formatosi a seguito della frana, si nota un grosso edificio che dovrebbe corrispondere a palazzo Belfort, del quale oggi si conservano le imponenti rovine. Il quadro riproduce l'aspetto di Piuro e del territorio circostante successivamente alla frana del 1618. I Vertemate, ricca famiglia di commercianti locale, possedevano un sontuoso palazzo a Piuro e una residenza secondaria in località Cortinaccio a Prosto, attuale palazzo Vertemate Franchi, risparmiato dalla frana. Dopo la tragedia questa divenne la residenza principale della famiglia. Il quadro ha sempre fatto parte delle collezioni del palazzo e fa pendant con un'altra tela che riproduce Piuro prima della frana. Le grandi pitture dovevano servire a ricordo perenne della città scomparsa. Il valore documentario dei due quadri supera quello artistico. Il pittore ha dedicato al palazzo di Luigi Vertemate particolare cura, ma qui si evidenzia la sua modesta capacità pittorica nella resa prospettica dell'edificio. row-hwv6-sb54~s49k Strage degli innocenti Brescia Via S. Francesco La composizione è articolata in due piani distinti: sul fondo una rigorosa ambientazione architettonica si compone di un palazzo dalle linee essenziali ed eleganti definite da cornici in bugnato e da un portico con alti fornici. A raccordare questi due corpi di fabbrica c'è un elegante loggiato che si apre su un paesaggio urbano. Il primo piano è occupato dalle figure: soldati e uomini armati si accaniscono sui bambini, mentre le loro madri cercano di sottrarli all'uccisione o ne contemplano i corpi straziati. La drammaticità della scena si stempera in una atmosfera teatrale che blocca le figure nel movimento e le isola a gruppi. Si possono agevolmente individuare quello con dell'uomo a torso nudo che stringe un bimbo a testa in giù con una mano, mentre con l'altra cerca di allontanarne la madre vestita di verde che gli morde la spalla, o quello della donna con l'abito giallo che si china a sorreggere il corpo di un bimbo ferito. Il dipinto si trova nella sesta cappella della navata sinistra che attualmente è dedicata al Sacro Cuore, ma che anticamente era legata al culto di Santa Maria Maddalena e fungeva da cappella sepolcrale della nobile famiglia Brunelli, responsabile della costruzione sul finire del Quattrocento. L'autografia del dipinto non può essere messa in discussione visto che sulla trabeazione del loggiato di sfondo si legge la firma in caratteri capitali "PETRVS MARIA BALNEATOR". Anche la cronologia può essere fissata con certezza al 1594, in relazione a un altro dipinto del Bagnatore raffigurante il Martirio di S. Margherita d'Antiochia che si trova nella medesima cappella e ne costituisce il pendant. La tela è datata proprio 1594. Elogiato dalla letteratura artistica antica, il dipinto viene interpretato in maniera riduttiva dalla storiografia della prima metà del Novecento, giudizio esteso anche al suo autore. In realtà il Bagnodore, insieme a Lattanzio Gambara, è l'unico artista che sa aprire la cultura artistica bresciana fra XVI e XVII secolo a stimoli provenienti dall'ambiente romano ed emiliano, facendosi interprete di un manierismo originale e non troppo legato dagli stilemi moretteschi imperanti all'epoca. In particolare la Strage degli innocenti riflette la stagione più creativa della sua carriera quando il prolungato soggiorno a Novellara presso la corte dei Gonzaga gli permette, da un lato, di conosce le opere di Correggio e Parmigiano che ne influenzano il luminismo accendendo di bagliori improvvisi molte delle sue opere, dall'altro di entrare in contatto con Lelio Orsi dal quale mutua l'interesse per la pittura tedesca, per i colori acidi, per i cangianti accostati con audacia. Nella strage degli innocenti questi elementi si sposano con il rigore plastico nella definizione dei corpi, con una atmosfera che blocca le figure e la scena in una sorta di tableaux vivant, con una sapiente costruzione prospettica ed una accurata definizione delle architetture che risente, indubbiamente, delle carriera di architetto che il Bagnadore affianca a quella di pittore. row-na47-3xt6.9fjm Somma Lombardo Via per Tornavento, 15 Cacciabombardiere e ricognitore ognitempo in servizio operativo con l'Aeronautica Militare e la Força Aerea Brasileira, anche nella versione biposto AMX-T da addestramento avanzato. Svolge missioni di supporto ravvicinato, ricognizione ed aerocooperazione con le forze di superficie. Il velivolo ha una lunghezza pari a 10 m, con un'apertura alare che raggiunge i 13 m per un'altezza di 4.55 m, può raggiungere un peso massimo al decollo di 13.000 kg. Il motore è un turboventola Rolls-Royce Spey 807 da 5.000 Kg-spinta che gli permette notevoli prestazioni, quali una velocità massima di 940 Km/h e un'autonomia di percorrenza di 1.400 km. L'AMX, denominato "Ghibli" nell'Aeronautica Militare Italiana, è un aereo da attacco al suolo monomotore a getto, ad alta ala a freccia prodotto in Italia e in Brasile. La produzione è stata distribuita tra Aeritalia (46,5%), Aermacchi (23,8%) ed Embraer (29.7%) con lo sviluppo di sei prototipi. Il suo armamento nella versione italiana impiega il cannone M61 Vulcan da 20 mm, mentre la versione brasiliana impiega due DEFA 554 da 30 mm prodotti su licenza della Industrias Bernardini de Sao Paulo. L'armamento aria-aria prevede due missili guida infrarossi installati sulle rampe di estremità alari (nella versione italiana prima due AIM-9 Sidewinder e successivamente due IRIS-T). L'AMX è dotato di due piloni subalari per ogni ala e di un pilone ventrale. I piloni sub alari esterni possono trasportare carichi fino a 450 Kg e quelli interni carichi fino a 900 Kg, tutti in grado di utilizzare serbatoi subalari sganciabili. Il pilone centrale, sito sotto la fusoliera, può trasportare carichi fino a 900 Kg; sui piloni interni e sul centrale possono essere installati dei raddoppiatori di carichi, denominati Twin Store Carrier. Infine l'armamaento aria-aria include una vasta gamma di bombe inerti a guida laser e GPS. L'AMX Ghibli nasce a seguito di una richiesta dell'Aeronautica Militare e della Força Aerea Brasileira per un aereo da appoggio tattico (CAS, Close Air Support). Per le specifiche italiane, risulta il naturale sostituto del G-91Y. E' stato acquistato dall'Aeronautica Militare in 110 esemplari, insieme con 26 esemplari biposto (AMX-T). Dai primi anni settanta l'Italia stava partecipando, con l'allora Germania Ovest ed il Regno Unito, ad un programma di sviluppo per un nuovo velivolo da combattimento fondando il consorzio Panavia e che avrebbe generato il multiruolo Tornado, ma le esigenze dell'Aeronautica Militare erano indirizzate anche verso un velivolo di dimensioni più contenute ed economicamente meno oneroso per i bilanci della forza aerea italiana, velivolo da poter comunque affiancare nel servizio operativo alla futura flotta di Tornado. L'Aeritalia che stava sviluppando un progetto in grado di soddisfare queste esigenze già dal 1973, decise di coinvolgere l'Aermacchi e lavorando congiuntamente le due aziende furono in grado nell'aprile del 1978, di rispondere alla richiesta con un progetto che assunse la designazione di Aeritalia Macchi Experimental (AMX). Nel frattempo anche il Brasile stava cercando una proposta per equipaggiare la propria forza aerea di un nuovo velivolo leggero con capacità tattiche e dopo una serie di confronti tra i governi delle due nazioni, nel marzo del 1981 si giunse ad una specifica che riuscisse a soddisfare entrambi. L'accordo venne definitivamente siglato il luglio successivo e le ultime fasi dello sviluppo dell'AMX vennero iniziate con l'obiettivo della costruzione di sei prototipi. Dopo il battesimo del fuoco in Kosovo durante l'Operazione Allied Force, il Ghibli è stato giudicato un valido cacciabombardiere, con una buona avionica e "cost effective". La risposta ottenuta dal campo lo ha rivalutato nel ruolo di supporto al Tornado. row-e7b5-w3uw-wc7h Somma Lombardo Via per Tornavento, 15 Il Caproni Ca.1 non è solo vanto della tradizione aeronautica della provincia di Varese, bensì è il più antico aereo conservato in Italia e il primo progetto dell' Ing. Caproni, considerato il pioniere dell'aviazione e fondatore del famoso gruppo industriale. Dal punto di vista tecnologico il Ca.1 era un biplano leggero il cui peso massimo al decollo raggiungeva i 650 Kg. Le sue dimensioni, anch'esse contenute erano pari ad una lunghezza di circa 10 m e di un'altezza totale di 3.36 m, per un'apertura alare di 10.50 m; era caratterizzato da una configurazione con ali in prua, fusoliera a traliccio e impennaggi in coda. Portava un motore Miller a quattro cilindri a stella con una potenza di 25 cv. La fusoliera era formata da un lungo traliccio ligneo a sezione rettangolare, l'anima della struttura era in legno di bagolaro e la rigidità della connessione tra le parti era garantita da squadrette in alluminio, in questo modo la struttura era leggera e flessibile, particolarmente resistente soprattutto facile da riparare. L'unica controindicazione però era legata all'elevato costo della produzione che causò il suo abbandono sui modelli successivi. Le ali erano dotate di alettoni con cerniere flessibili e basate su una struttura convenzionale; con longheroni, longitudinali rispetto all'apertura, formati da tubi di legno e centine trasversali, a loro volta il legno che supportavano un rivestimento in tela. Tra i montanti che collegavano le due ali erano collegate alcune superfici verticali, che servivano a migliorare la stabilità dell'aereo. Il sistema degli impennaggi era composto da due timoni verticali flessibili e da piani orizzontali con funzione portante e stabilizzatrice, con una parte fissa e una mobile. Quest'ultima era controllata da un volante a disposizione del pilota. Il carrello di atterraggio, fisso, era formato da cinque ruote a raggi di grande diametro, di cui due erano collocate sotto la sezione centrale dell'ala, due sotto l'estremità dell'ala stessa e una in coda. Il Caproni Ca.1 fu progettato dall'ingegner Giovanni Battista Caproni (1886-1957), facendovi confluire esperienze fatte a Trento, in Belgio e in Francia. La struttura era interamente in legno, con originali longheroni in tubo di compensato. Il motore era un Miller da circa 30 cavalli dal funzionamento incerto. La costruzione fu avviata ad Arco, allora ancora in territorio austro-ungarico. Nell'aprile 1910 Caproni trasferì il biplano "nella brughiera di Gallarate attorno alla Cascina Malpensa", allora usata come terreno di manovra della cavalleria. Qui, con il fratello Federico e gli operai trentini "Ernestin" Galas ed "Erneston" Contrini, costruì il primo hangar. Questo funse sia da officina che da primitivo alloggio dove i quattro uomini avrebbero vissuto per circa un anno. Le condizioni erano precarie e scomode, la pressione dovuta alle difficoltà finanziarie dell'impresa era notevole. Tuttavia Caproni avrebbe sempre ricordato quel periodo con un certo rimpianto, come un'epoca particolarmente felice e serena. Completato l'aereo restava da trovare un motore e un pilota. Per quanto riguardava il primo problema Caproni si indirizzò verso i propulsori costruiti dalla neonata azienda torinese Miller. Per quanto riguardava il secondo problema invece decise infine di affidare la responsabilità all'autista Ugo Tabacchi da poco entrato a far parte della squadra di lavoro e del tutto digiuno di pilotaggio, ciò nonostante il 27 maggio 1910 il Ca.1 riuscì a decollare e percorrere una lunga retta di volo prima di rovinare clamorosamente al suolo in fase di atterraggio distruggendo l'apparecchio, ma rimanendo miracolosamente illeso. Il Ca.1 fu poi riparato e utilizzato da Tabacchi per impratichirsi nelle manovre al suolo, in attesa del Ca. 2 con il quale volò il 12 agosto 1910. row-2fi5-h9fx-a88k Lecco Corso Matteotti, 32 Camicia in panno rosso con filettature verdi già appartenuta a Simone Andreotti, garibaldino lecchese che presumibilmente partecipò alle campagne dal 1859 al 1870. Il garibaldino Simone Andreotti era originario di Maggianico (ora quartiere di Lecco). Morì nel 1936 a 93 anni. Seguì varie campagne nell'arco di un decennio, probabilmente dal 1859 al 1870. row-z6xq-52my_ca62 Cera anatomica maschile del Susini Pavia Corso Strada Nuova, 65 La cera anatomica policroma raffigura un uomo "scorticato" a grandezza naturale, che evidenzia il sistema dei vasi linfatici sottocutanei. La metà sinistra della statua rappresenta un cadavere a cui è stata levata la pelle, in cui si riconoscono distintamente le arterie, le vene e i lifatici sottocutanei, mentre nella metà destra sono state tolte le aponeurosi e parte dei muscoli per mostrare il sistema linfatico profondo. Nella figura, in posa michelangiolesca, seduta con la gamba sinistra piegata e il braccio destro appoggiato alla teca, viene sottolineato l'aspetto atletico, virile, esaltando la tensione dei muscoli, in contrapposizione alla grazia sensuale e languida del pendant femminile.Modellato con estrema esattezza anatomica, doveva avere uno scopo scientifico e didattico, come valida alternativa alla dissezione dei cadaveri. Colpisce l'esattezza anatomica con cui ogni singolo vaso è modellato, verosimilmente approntato all'analisi di diversi cadaveri umani.La gabbia toracica del ceroplasma è costituita da una sorta di scudo, un tempo removibile, come in uso nelle cere didattiche, che una volta smontato svelava con precisione gli organi interni, asportando la parte anteriore dell'addome era possibile osservare i vasi e i gangli linfatici intratoracici e intraddominaliLa statua che non prevede all'interno uno scheletro in ferro che serviva per dare stabilità ai ceroplasmi in particolare durante gli spostamenti (mentre altre venivano preparate su ossa vere) è conservata nell'originale teca settecentesca, in vetro e legno "orientale", recante una piccola targa didascalica con inciso il nome di Clemente Susini.La statua con il pendant femminile, viene realizzata da Clemente Susini (Firenze 1754-1814) che studia arte, si perfeziona in scultura bronzea, pittura su vetro e incisione su rame, entrando nel 1773 come apprendista modellatore nella prestigiosa scuola di ceroplastica della Specola fondata a Firenze nel 1771 dal maestro Felice Fontana.Diventerà ben presto il modellatore più rinomato, più prolifico e più richiesto dell'opificio fiorentino, portando la tecnica ceroplastica a un livello di perfezione artistica mai superato. Le due cere, richieste alla corte austriaca dall'illustre anatomico dell'Università pavese Antonio Scarpa (1752-1832), arriveranno a Pavia a fine Settecento grazie all'interessamento di Alessandro Brambilla, chirurgo personale dell'imperatore Giuseppe II, che contribuì a riportare l'Ateneo ticinese all'antica gloria.Dal ricco epistolario di Scarpa, si evince che il docente avanzava richieste ben precise per l'esecuzione delle figure in cera, suggerendo di prendere a modello per la muscolatura della statua virile, le accurate tavole di Albinus, docente di anatomia a Leida, pubblicate nel 1747 nel "Tabulae sceleti et musculorum corporis humani" o raccomandando estrema cura per l'aspetto artistico-estetico delle statue,Dal carteggio si apprende anche che la statua maschile giunta a Pavia il 30 dicembre 1794 entro una custodia di "legno orientale" viene giudicata da Scarpa "maestrevolmente lavorata", mentre la femminile arriva il 31 luglio dell'anno dopo, ma i contatti per l'acquisto delle cere risalgono al 1787.La figura maschile, seduta, pavese è molto simile ad altre due, giacenti, conservate nel Museo fiorentino della Specola, che esibiscono il sistema dei vasi linfatici superficiali. row-yncs.hjph-6sic Angelo annunciante, Natività di Gesù, Annunciazione Gandino Piazza Emancipazione Le due ante sono concepite per essere incernierate lungo i fianchi di un'ancona d'altare rinascimentale, smembrata e in gran parte perduta: chiuse mostrano all'osservatore la scena dell'Annunciazione, dipinta sulla faccia frontale, aperte lasciano ammirare le statue collocate nell'ancona, oggi mancante, e i riquadri scolpiti a rilievo sulla faccia posteriore di esse. L'Annunciazione dipinta presenta, oltre due arcate decorate con motivi classici policromi, una terrazza aperta su un paesaggio collinare che si perde in lontananza: a sinistra l'arcangelo Gabriele è appena atterrato con le ali spiegate e con la veste e una stola nera agitate dal movimento. Tiene in mano un lungo giglio, simbolo della purezza virginale di Maria. A destra la Madonna, protetta da un tendaggio, è inginocchiata in preghiera con le mani incrociate sul petto in atto di accettazione della volontà divina, rappresentata dalla colomba dello Spirito Santo che scende su di lei. Le scene scolpite sul lato restrostante sono da leggersi da sinistra a destra, dall'alto in basso e narrano le Storie della nascita di Cristo: l'Annunciazione (ripetuta perché la si vede solo in alternativa alla raffigurazione dipinta), la Visitazione, ovvero la visita della giovane Maria alla più anziana cugina Elisabetta, anch'essa in attesa di un bambino, il futuro San Giovanni Battista, la Natività di Gesù Bambino che giace a terra nella stalla, disteso entro una mandorla, simbolo dell'incontro tra l'umano e il divino che si attua in Gesù. L'ultima formella raffigura l'"Adorazione dei Magi": dopo aver consegnato il suo dono a San Giuseppe, Gaspare, il più anziano dei Magi, è inginocchiato davanti al Bambino che ha al collo una collanina di corallo dal significato apotropaico. Dietro di lui stanno Baldassarre, il moro, abbigliato secondo la moda della fine del XV secolo, e il più giovane dei tre, Melchiorre. Il fondo dei riquadri scolpiti è di colore blu scuro, che però in origine, come ha dimostrato il recente restauro, era trapunto di piccole stelle in foglia d'oro. Le due ante facevano parte in origine di un polittico a portelle collocato sull'altare maggiore della chiesa di Santa Maria, antica parrocchiale di Gandino. Questa ancona, smembrata prima del 1609, quando fu collocata nell'abside l''"Assunta" del Benfatti, aveva l'impostazione dei nordici "flugelaltare", ovvero altari con ali richiudibili di una tipologia del tutto insolita in Val Seriana ma che a Gandino si giustifica con i frequenti scambi commerciali tra gli intraprendenti mercanti del posto e il mondo sud-tirolese, tirolese e germanico tra Quattro e Cinquecento. Questo polittico fu certamente realizzato dopo il 1503 perché il riquadro raffigurante la "Visitazione" è derivato in modo puntuale da un'incisione eseguita da Durer in quell'anno. Le incisioni di Durer, che dal 1505 al 1507 soggiornò a Venezia, ebbero un'ampia circolazione in Lombardia e influenzarono l'iconografia locale del primo Cinquecento, sia in ambito pittorico che scultoreo. Le facce dipinte delle ante sono certamente di ambito bergamasco, come è evidente dall'analisi stilistica delle due figure, pur non agevole per il cattivo stato di conservazione della Madonna, molto abrasa e ridipinta. Di diversa fattura appaiono le scene ad altorilievo, riconducibili all'area trentina molto frequentata dai mercanti gandinesi perché sede della rinomata fiera di Bolzano e perché via di accesso alle regioni austriache e tedesche. Di questo "flugelaltare" facevano parte quasi certamente anche le statue di "Santa Caterina d'Alessandria" e "Santa Lucia", anch'esse conservate nel Museo di Gandino, dallo stile molto simile. row-je5m~h4rr~3mjp Adorazione del Bambino Milano Piazza Pio XI, 2 row-kcf3-iq6w.4yc8 Agnus Dei Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Del piccolo pulpito in stile barocco si conservano i tre distinti elementi che ne costituivano la balaustra. Ognuno dei pezzi, in legno intagliato, è leggermente curvo, e presenta le facciate decorate a finto marmo venato di verde e incorniciate da profili dorati. Al centro delle specchiature sono presenti medaglioni mistilinei con cornici a volute vegetali dorate; quello centrale contiene la figura di un agnello realizzato in rilievo. I lati di ogni elemento sono delimitati da lesene che riprendono i motivi dipinti a marmo verde e le cornicette dorate. Lo zoccolo della base è dipinto a finto marmo rosa e grigio. Le notizie sulla costruzione del pulpito provengono dal Libro Mastro dell¿Archivio Parrocchiale della Chiesa di San Giovanni Battista di Campodolcino: il pulpito venne costruito nel 1779 in concomitanza con il restauro dell¿organo e l¿esecuzione degli affreschi del presbiterio per mano del pittore Guidetti, lo stesso che dipinse l¿Oratorio di Sant'Antonio all¿interno del Palàzz, l'attuale sede del museo di Campodolcino.Le antiche carte dell'archivio documentano quali esecutori dell'opera l¿intagliatore Guglielmo Buzzetti di Morbegno e l¿indoratore Luigi Maranesi. Agli stessi venne affidato l¿incarico di intagliare e dorare il crocifisso "per le donne" poi collocato nel pulpito. Gli stessi documenti tramandano i nomi dei Mastri Antonio Della Bella e Giuseppe Gianoli che curarono la messa in opera del pulpito.Il manufatto, confluito nelle raccolte del Museo della Via Spluga e della Val San Giacomo, è ricomposto all'inizio del percorso espositivo. row-rybk_5bxy~km2x Flautista Brescia Via dei Musei, 81/b Al centro della scena, un giovane uomo è raffigurato a mezzo busto e posto di tre quarti mentre volge il viso allo spettatore. L'uomo, che indossa un copricapo nero, una veste nera dalla quale sporgono i lembi di una camicia bianca e un mantello orlato di pelliccia, è seduto davanti ad un piccolo tavolo su cui è aperto un libro con notazioni musicali e nelle mani tiene un flauto di legno; alle sue spalle, sulla parete della stanza, in alto a sinistra è appeso uno spartito e a destra si apre una nicchia con due libri chiusi e un calamaio. La tela compare per la prima volta nella collezione del cardinale Richelieu nella prima metà del XVII secolo. Come documentato nell'inventario, alla morte del prelato l'opera è assegnata alla nipote e probabilmente ben presto venduta, come la maggior parte delle opere d'arte da lei ereditate.Il dipinto ricompare solo nel 1894 in occasione della mostra degli Old Masters provenienti dalle collezioni private britanniche, allestita presso la Royal Academy di Londra, con la corretta attribuzione a Savoldo e non a Giorgione, come riportava invece l'etichetta fino ad allora apposta sulla cornice. Il quadro apparteneva allora a lord William Archer, terzo Earl of Amherst (1836-1910) al quale perviene attraverso la collezione di famiglia probabilmente avviata dal diplomatico William Pitt Amherst, primo Earl of Arracan (1773-1857) e arricchita dal figlio di questi, William Pitt jr (18028-1886). Prima di approdare presso la Pinacoteca Tosio Martinengo come deposito della Banca Popolare di Brescia e poi di Unicredit Group, la tela ha avuto diversi passaggi di proprietà.Fin dalla sua comparsa all'esposizione londinese del 1894, il Flautista si impone gradualmente come uno dei capolavori del pittore bresciano Giovanni Girolamo Savoldo, distinguendosi per la funzione dominante, coordinatrice e compositiva assunta dal luminismo savoldesco: le implicazioni precaraveggesche e la concezione straordinariamente moderna sembrano infatti preludere al Suonatore di liuto di Caravaggio.Evidenti sono anche i rapporti con la ritrattistica di Lotto, soprattutto in virtù dell'ineffabilità psicologica affiorante nello sguardo del protagonista, sottilmente ambiguo tra la tacita intesa con l'osservatore e il distacco di una solitaria meditazione. La consonanza con i ritratti lotteschi, anche di formato orizzontale, eseguiti in coincidenza con il rientro del pittore a Venezia nel 1525, appare probante per la datazione del Flautista. L'esecuzione della tela risalirebbe quindi al secondo soggiorno a Venezia di Savoldo, iniziato attorno al 1521.Secondo la critica più recente, le annotazioni leggibili sui due spartiti si rapporterebbero all'esecuzione, secondo una pratica allora diffusa, di un brano in origine destinato al canto a più voci. La firma del pittore, apposta tra i righi dello spartito fissato alla parete, indicherebbe come il musico assente, atteso quale più anziano maestro e amico, sia da identificare con Savoldo stesso. Il Flautista si rapporta del resto alla moda del ritratto allegorico di tema musicale, diffusasi in Veneto tra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento, in consonanza con la letteratura del tempo, esemplata al meglio dai notissimi Asolani di Pietro Bembo, dove la musica e la poesia concorrono all' "amoroso pensiero". row-c522~37st.sssc Samarate Via Giovanni Agusta, 510 L'AB 47 è stato il primo elicottero brevettato per uso civile, non che selezionato come elicottero da addestramento balistico dalle forze armate italiane e di molti paesi. I primi modelli erano realizzati con configurazione molto diverse tra loro, variando con cabine aperte o chiuse o con carrello a quattro ruote. Fu progettato da un team di ingegneri capitanato da Arthur M. Young che lavorò con la Bell Helicopters a partire dal 1941. In Italia ne sono stati prodotti 1.200 modelli costruiti su licenza dalla Agusta e in tutto il mondo ben 56.000 esemplari fino al 1974. Il modello più comune è il 47 G, divenne il più noto nella sua configurazione con il cockpit racchiuso in una grande bolla in plexiglas e con la struttura scoperta, realizzata con tubi saldati, serbatoio di carburante esterni e a sbalzo e carrello a pattino. L'elicottero può portare fino a due passeggeri, ha pattini da 2.30 m e un'altezza di 2,80 m. Il peso massimo che può raggiungere al decollo è di circa 1.300 kg. Il motore è un Franklin 6 cilindri raffreddato ad aria 6V 200-C32, con potenza massima 200 Hpa 3.100 giri che gli permette notevoli prestazioni. Raggiunge una velocità massima di 145 Km/h e può mantenere una velocità di crociera di 130 Km/h; l'autonomia di percorrenza è di ben 4 ore per un totale di 392 Km. Negli anni si sono susseguite diverse versioni sia civili che militari. La versione dell'AB 47G realizzata su licenza Agusta riproponeva la configurazione con la bolla di plexiglas anteriore e fusoliera a traliccio con tubi metallici a vista. L'elicottero, chiamato affettuosamente "Gigetto" dagli equipaggi italiani, ha servito nell'Aeronautica Militare Italiana, nell'Aviazione Leggera dell'Elicottero, nella Marina Militare, nell'Arma dei Carabinieri, nella Guardia di Finanza e nel Corpo dei Vigili del Fuoco. Agli inizi degli anni cinquanta l'elicottero Bell 47 iniziò ad essere costruito su licenza in Italia dalla società Agusta che, fino ad ora, era stata coinvolta prevalentemente nella produzione di motociclette. Il primo AB 47G prodotto in Italia iniziò le prove di collaudo il 22 maggio 1954 e nel 1956 la produzione era arrivata a dieci esemplari al mese. In precedenza il Ministero dell'Agricoltura aveva acquistato due Bell 47-D, impiegandoli nel 1949 in Sardegna in una campagna antimalarica. La versione dell'AB 47G realizzata su licenza Agusta riproponeva la configurazione con la bolla di plexiglas anteriore e fusoliera a traliccio con tubi metallici a vista. L'elicottero, chiamato affettuosamente "Gigetto" dagli equipaggi italiani, ha servito nell'Aeronautica Militare Italiana, nell'Aviazione Leggera dell'Elicottero, nella Marina Militare, nell'Arma dei Carabinieri, nella Guardia di Finanza e nel Corpo dei Vigili del Fuoco. L'esercito Italiano ricevette i suoi primi elicotteri AB-47 G2 nel 1956 e nello stesso anno, a Casarda della Delizia, in provincia di Udine, veniva inaugurato ufficialmente il Reparto Sperimentale Elicotteri, che nel 1958, con l'arrivo degli AB-47 J divenne la prima unità operativa su ala rotante dell'Aviazione Leggera dell'Esercito con il nome di Primo Reparto. Gli Ultimi esemplari di AB 47 vennero radiati dall'Esercito nel 1984. L'Aeronautica Militare ricevette i suoi primi AB 47 alla fine del 1954, immettendoli in servizio presso il Reparto Addestramento Elicotteri, costituito il primo febbraio 1953 presso l'aeroporto di Roma-Urbe. Il reparto venne trasferito nella primavera del 1955 al Centro Elicotteri dell'Aeronautica Militare di Frosinone evolvendosi nella Scuola Volo Elicotteri, occupandosi dell'addestramento degli equipaggi anche delle altre Forze Armate e Corpi dello Stato. Concludendo nella cultura di massa, forse risulta più semplice ricordare in ambito cinematografico la presenza di un Bell 47 nel film "Agente 007 - Si vive solo due volte". row-ebih.sc3t~yfcz Ritratti di Cesari Brescia Piazza della Loggia, 6 I sei busti raffiguranti imperatori romani ornano il prospetto orientale del palazzo della Loggia, quello che affaccia sull'omonima piazza. Sono collocati nei pennacchi degli archi del primo ordine all'interno di oculi poco profondi che restano sempre in ombra creando così un fondale scuro che esalta il candore del marmo ed evidenzia il vigore plastico delle figure. Elaborazioni rinascimentali della ritrattistica antica, i busti non ricalcano fisionomie generiche, ma propongono ritratti di personaggi storici ben riconoscibili. Il primo a sinistra è modellato sul monumento equestre di Bartolomeo Colleoni che il Verrocchio realizza a Venezia; un'altro riprende l'effige di Antonino Pio che era molto nota in epoca rinascimentale grazie alla sopravvivenza e alla diffusione di numerosi ritratti originali; non manca la riproduzione del ritratto di Nerone elaborata a partire da modelli molto diffusi nella Lombardia rinascimentale.L'immediatezza con la quale è possibile individuare i personaggi ritratti mette in evidenza la qualità ritrattistica e naturalistica delle opere: gli sguardi non sono vacui, ma sembrano cercare il contatto visivo con lo spettatore, i tratti fisionomici sono definiti con precisione e rilievo plastico, il panneggio è modulato con elegante essenzialità, i dettagli di capelli e sopracciglia sono definiti con tratto quasi calligrafico. I sei busti vengono realizzati dallo scultore lombardo Gasparo Cairano fra il 1493 e il 1495 e fanno parte del più ampio progetto decorativo del Palazzo della Loggia improntato alla celebrazione delle nobili origini romane della città. Fra le prime opere portate a compimento ad appena un anno e mezzo dall'apertura dell'importante cantiere edilizio cittadino, raggiungeranno nel 1503 il ragguardevole numero di 30 di cui 24 autografe del Cairano e 6 assegnati ad Antonio Tamagnino. row-p2kn~7i6p.ah5k NATIVITA' DI GESU' Brescia Via dei Musei, 81/b In prima piano la Madonna inginocchiata adora Gesù Bambino adagiato per terra sul manto; sulla sinistra, in secondo piano, S. Giuseppe seduto volge la testa verso due pastori in piedi alle sue spalle; all'estrema sinistra si vedono il bue accovacciato e la testa dell'asino; in alto, al centro, tre angioletti svolazzanti reggono un cartiglio con note musicali. La scena si svolge davanti ad un'architettura classicheggiante diroccata, che a destra lascia intravedere un paesaggio agreste con altre architetture. Intorno al 1545, all'età di circa sessant'anni, il pittore bresciano Girolamo Romanino dipinse questa Natività. La grande tela ornava una cappella laterale della chiesa di S. Giuseppe a Brescia, all'epoca intitolata all'Immacolata Concezione. Questo particolare tema influisce profondamente sulla composizione del dipinto, determinando molte delle scelte compiute dal pittore.Romanino in effetti presenta la scena della Natività inserendo diversi elementi che suggeriscono la purezza della Vergine Maria. In particolare, il pittore riserva ampio spazio alla rappresentazione del manto della Madonna, il cui colore bianco perla ha un chiaro significato simbolico e che occupa buona parte della zona inferiore del dipinto, del quale è in un certo senso il vero protagonista. In questa fase della sua vita, del resto, Romanino mostra una grande attenzione per il colore luminoso e cangiante, probabilmente influenzato dalle ricerche condotte da Savoldo: il dipinto si costruisce quindi sul contrasto tra la penombra dorata del tramonto e il colore chiaro e argenteo del primo piano.L'artista ambienta la scena fra le rovine di un antico edificio, secondo una tradizione figurativa molto diffusa arricchendola di numerosi dettagli. Nello sfondo, infatti, si nota la sagoma di un palazzo in costruzione, forse la Loggia di Brescia, edificio vicino alla chiesa di S. Giuseppe terminata proprio negli anni in cui Romanino dipinge questa tela. Sulla sinistra i due pastori raffigurano probabilmente i Frati minori osservanti, risiedenti nella chiesa di S. Giuseppe. Le due figure si rivolgono a S. Giuseppe per chiedere spiegazioni, con un atteggiamento confidenziale, appoggiando la mano sulla sua spalla e instaurando in questo modo un intenso colloquio emotivo che coinvolge chi osserva il dipinto. Il santo si gira per indicare il Bambino adagiato su un lembo del manto della madre. Sopra la capanna tre angeli in volo reggono un cartiglio con note musicali. Sopra i pastori, sull'imposta dell'arco, si scorge una civetta che preannuncia il sacrificio salvifico di Cristo: tradizionalmente infatti questo uccello notturno, che vive al buio, è considerato simbolo di Cristo che affronta le tenebre della morte per salvare l'umanità. row-vzng_74i2-f88n Civico Museo Archeologico di Casteggio e dell'Oltrepo Pavese Casteggio Palazzo Certosa Cantù, via Circonvallazione, 64 Il Museo è strutturato in quattro sezioni, ordinate in base a criteri didattico e cronologici: Geologia e la Paleontologia; Preistoria e Protostoria; le Collezioni; Età romana, tardoantica e medievale.Il primo piano ospita la sala I che riguarda la Preistoria e la Protostoria in Oltrepo Pavese. Il percorso espositivo propone la vita dell'uomo a partire dal Neolitico: vasi in ceramica, strumenti in pietra, oggetti in bronzo, tra cui una rara testina di epoca celtica, documentano i primi insediamenti umani in questo territorio dal Neolitico (IV millennio a.C.), con la capanna di Cecima, fino all'arrivo dei popoli celtici (II secolo a.C.), passando per l'età del Rame, del Bronzo e del Ferro. La II sala, dedicata al collezionismo, ospita alcuni esempi di raccolte locali, frutto di trovamenti sul territorio, donate da privati al Comune, ma comprendono anche reperti magno greci.Nella III sala sono esposti i più significativi corredi funerari di età romana (secoli I-IV d.C.) provenienti dalle necropoli di Casteggio e dal territorio, notevole quello emerso dallo scavo del 1987 dell'Area Pleba in via Torino a Casteggio.Corposo il materiale proveniente da abitazioni di età romana nella sala VI; significativi i ritrovamenti avvenuti durante gli scavi del 1992 nell'area Quaglini di Casteggio (I sec. a. C. - V sec. d.C.): ceramiche d'uso comune, coperchi, pesi, lucerne, bronzetti, parti di piccola statuaria in marmo.Degni di nota alcuni oggetti in vetro: un calice di produzione renana, un pregiato vassoio realizzato a stampo e un bellissimo specchio in vetro e stagno. Diversi i reperti in bronzo e in ceramica, tra i quali le statuette di Mercurio e Giove o la patera in terra sigillata dotata di bollo in planta pedis.La sala VI dedicata al tardo-antico nell'Oltrepo, espone tre brocche in bronzo da Oliva Gessi, Codevilla e Voghera-Fornace Servetti, due corredi funerari tardo-antichi da Castelletto di Banduzzo e da Casteggio: anfore, terra sigillata chiare e un tesoretto di monete proveniente dall'area Quaglini di Casteggio.Al piano terreno tre sale dedicate, la I alla Geologia e alla Paleontologia, con resti fossili animali e vegetali precedenti all'arrivo dell'uomo in Oltrepo; la II alla didattica con l'esemplificazione di tecniche costruttive e abitative di età romana; la III all'edilizia funeraria con la ricostruzione di alcune sepolture rinvenute a Casteggio: due tombe a cassa in laterizio e una sepoltura a cremazione in anfora. row-8izt-av4s.3hgd Pluteo di Teodote Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Il pluteo istoriato con l'albero della vita tra draghi affrontati, connotato da una raffinata eleganza formale e da una felice inventiva iconografica, è tra gli esempi più significativi e più noti della plastica di età longobarda a livello europeo.La lastra marmorea, interamente decorata, ospita al centro due mostri alati con testa di leone e coda anguiforme, disposti simmetricamente ai lati dell'albero della vita. Negli angoli inferiori campeggiano due piccoli delfini, cui corrisponde in quelli superiori la porzione terminale tripartita della coda dei draghi. Una sottile bordura a fusarole e perline ed un'alta fascia omogenea a girali, in cui si alternano fiori e tralci di vite, di squisita fattura, incorniciano la scena centrale.E' interessante notare che nel bassorilievo convivono modelli plastici di derivazione 'classica' con temi inediti e originali, quali le spirali annodate che generano i corpi dei mostri alati. Il raffinato rigore distributivo, proprio della lastra, appare derivato da una stoffa orientale, allo stesso modo l'albero della vita è un motivo mutuato dall'Oriente che si lega ai temi del rinnovamento, della vita eterna e simbolizza il cosmo e l'uomo. Il bassorilievo con draghi ha un pendant in quello con calice compreso tra due pavoni, pure in marmo e di misura simile, che la critica però considera opera di un diverso scultore, sempre nell'ambito dei migliori maestri dell'Italia settentrionale. Le due lastre provengono dal monastero femminile di Santa Maria Teodote, detto anche della Pusterla, area dell'attuale Seminario Vescovile, fondato verso la fine del VII secolo, nel 1828 furono infatti recuperate montate come stipiti di una porta. Inoltre per lungo tempo i due bassorilievi furono considerati i fianchi lunghi di un sarcofago a cassa, il cui coperchio era stato identificato nell'epigrafe sepolcrale della badessa longobarda Teodota e un lato corto nella formella con l'agnello crucifero, entrambi custoditi nei musei pavesi, mentre perduta risultava la lastra dell'altro lato breve. Successivamente Adriano Peroni ha correttamente interpretato i due manufatti come plutei, cioè come parti di una recinzione di un edificio chiesastico riemerso durante scavi archeologici eseguiti in Seminario nel 1970.Teodota, dedicataria dell'epigrafe, verosimilmente una badessa longobarda di sangue reale, viene confusa con l'omonima fanciulla di nobile stirpe romana che secondo Paolo Diacono nell'Historia Langobardorum (testo fondamentale per la storia dei Longobardi) è violata da re longobardo Cunincperg (688-700) e rinchiusa nel monastero.Questo capolavoro è stato esposto ad Aquisgrana nel 2014, in occasione della grande mostra dedicata a Carlo Magno allestita per il 1200° anniversario della morte avventua nella città tedesca il 28 gennaio dell'814. row-abnd-36g7~5w2k Elefante Milano Piazza Castello Il Portico dell'Elefante si presenta come una struttura dalle proporzioni insolite (8 metri di altezza e profondità per una lunghezza di 28 metri), aperta verso il cortile interno della Corte Ducale attraverso una fila di colonne di serizzo alte 5 metri con capitelli corinzi scudettati, caratterizzati da eleganti peducci che sorreggono una grande volta lunettata. Nell'angolo prossimo alla Torre tale portico mostra ancora oggi ciò che rimane di una decorazione ad affresco che interessa le prime due campate, entrambe incorniciate da un arco a conci bianchi e neri. La campata sinistra, maggiormente danneggiata, mostra le zampe posteriori di un leone, oltre il quale si colloca il profilo scuro di un uomo a cavallo e un edificio residenziale, con tetto a capanna dotato di comignolo e di due file di aperture ad arco profilate in mattoni nella parte superiore. Sulla destra, invece, era probabilmente raffigurato in primo piano un gruppo di personaggi oggi purtroppo quasi del tutto perduti; in secondo piano sono visibili altre sagome di contadini al lavoro nei campi sullo sfondo di un paesaggio bucolico-agreste.La campata successiva, che da il nome all'intero portico, è invece occupata dalla raffigurazione di un elefante che tiene due bastoni stretti nella proboscide. L'animale fronteggia un domatore vestito con una tunica azzurra di foggia orientale e con un turbante bianco in testa. In origine l'animale doveva essere cavalcato da un altro personaggio, oggi per la maggior parte scomparso, che probabilmente raffigurava un nano ed è seguito da un uomo dalla pelle scura, vestito all'antica, che reca tra le mani un oggetto di difficile identificazione. Lo sfondo di questa seconda scena è caratterizzato da un paesaggio naturale ricco di pareti rocciose, sul quale è ancora visibile la traccia di un gruppo di personaggi, sia a piedi che a cavallo. Il portico dell'Elefante fu costruito in concomitanza con i lavori effettuati in Corte Ducale dall'architetto toscano Benedetto Ferrini a partire dal 1472 fino al 1476, su commissione del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza che decise di trasferirsi all'interno del fortilizio trasformandolo in una residenza signorile. Il duca concentrò la sua attenzione nei lavori di sistemazione del cortile della Rocchetta e della cosiddetta "Corte Ducale", che Ferrini chiuse sul lato di fondo con le sei arcate del portico dell'Elefante. Il progetto del portico, sui documenti dell'epoca indicato come "Sala aperta", è generalmente a lui attribuito nonostante non esistano prove sicure di un intervento diretto. Nel 1497 Ludovico il Moro, nel dare istruzioni per la realizzazione di una serie di stemmi dipinti all'interno del Castello, si riferisce alla zona indicandola con il termine "Sala dello Elefante", il che farebbe pensare che all'epoca il portico fosse stato parzialmente murato. Ad oggi è impossibile stabilire se ciò che resta del dipinto sia solo una piccola parte di un ciclo più ampio, tuttavia la definizione stessa datagli dal Moro parrebbe suggerire che l'immagine dell'elefante fosse considerata comunque il fulcro dell'intera pittura murale. Nessuna testimonianza documentaria pare confermare l'esistenza di un pachiderma nel parco ducale milanese (dove sono invece, ad esempio, attestati leopardi) ma è comunque possibile che nella Milano del XV secolo gli elefanti fossero stati visti come esemplari di attrazioni itineranti o che fossero conosciuti attraverso i tacuini di artisti in contatto con il mondo culturae orientale e nordafricano. E' dunque possibile che Galeazzo Maria avesse deciso di far realizzare sulle pareti di questo portico una sorta di bestiario. Gli animali erano inoltre sovente utilizzati nella pittura rinascimentale con particolari valenze simboliche e perciò spesso legati all'invenzione di stemmi nobiliari e imprese familiari. L'elefante era considerato simbolo di memoria e di magnificenza, mentre il leone (presente ormai in solo in traccia nella prima campata del portico) era indicativo di forza e coraggio. All'inizio del Novecento, durante alcune campagne di ristrutturazione del cortile, buona parte dell'immagine dipinta nella prima arcata fu distrutta: l'architetto responsabile dei lavori, Luca Beltrami, era infatti convinto che la "Sala dello Elefante" fosse collocata nel corrispondente ambiente al piano superiore e dunque agì incurante dei dipinti. Solo durante la campagna del 1912-1913 furono scoperti alcuni lacerti di pittura murale sotto le pesanti scialbature e l'intera zona fu poi restaurata e liberata nel 1920 dai pittori-restauratori Quarantelli e Silvestri. Ad oggi risulta impossibile ipotizzare un nome cui attribuire la paternità dei dipinti. Probabilmente si tratta di un artista dalla personalità abbastanza marcata e aggiornata, di vaga ispirazione mantegnesca nella trattazione dei dettagli del paesaggio. I personaggi, che rimangono solo al livello della preparazione o poco oltre, sono raffigurati in pose leziose e aristocratiche, il che farebbe pensare ad una conoscenza da parte dell'artista dei coevi modelli ed esempi di pittura ferrarese. Con grande abilità è invece resa la pelle dell'elefante, caratterizzata da profonde rugosità incise nell'intonaco. row-jujv.mstb.wifb Collezioni del Museo Archeologico Lecco Corso Matteotti, 32 I materiali conservati nel museo documentano le fasi della preistoria, protostoria, età romana e altomedievale nel territorio lecchese, a partire dalle prime testimonianze dell'occupazione umana sul territorio risalenti al Paleolitico Medio, costituite dal sito della Bagaggera di Rovagnate, frequentato da un gruppo di cacciatori neanderthaliani. Per il Neolitico la documentazione più importante proviene dal recente scavo effettuato a Ello. Durante l'età del Rame il rinvenimento di ossa umane nel cosiddetto "Buco della Sabbia" di Civate attesta il rituale funerario delle sepolture secondarie collettive in grotticelle o ripari sotto roccia. Risalente all'età del Rame è anche il famoso menhir istoriato di Ello. Il più importante sito risalente all'età del Bronzo è, invece, la torbiera di Bosisio Parini. Un sito funerario in riparo sotto roccia con sepolture databili tra la fine del Bronzo Antico e l'inizio del Bronzo Medio è stato, inoltre, recentemente identificato a Ballabio. Allo stesso periodo risalgono le ossa umane ritrovate anch'esse in un riparo sotto roccia sul Monte S. Martino. Rinvenimenti sporadici di oggetti in tutto il territorio testimoniano il diffondersi della metallurgia. Durante la prima età del Ferro il territorio di Lecco rientra nell'ambito della cultura di Golasecca. I rinvenimenti di piccoli gruppi di tombe in tutto il Lecchese testimoniano, inoltre, l'occupazione del territorio per villaggi sparsi. Per quanto concerne l'età romana, i rinvenimenti di numerose tombe documentano una fitta rete insediativa per villaggi sparsi. L'importanza militare del territorio nell'Alto Medioevo è, infine, testimoniata da diversi insediamenti come, ad esempio, quello di Monte Barro. Le collezioni del Museo Archeologico di Lecco si costituiscono grazie ai primi ritrovamenti archeologici risalenti al XVIII secolo e alle opere di eruditi ed antiquari dell'Ottocento. I primi scavi archeologici intenzionali sono effettuati nel 1840 dall'industriale svizzero Keller a Mandello del Lario; nel 1860 la ricerca si intensifica grazie all'attività dell'abate lecchese Antonio Stoppani. Verso la fine del 1800 inizia la sua attività Antonio Magni, che creò nell'anno 1900, con il naturalista Carlo Vercelloni e il geologo Mario Cermenati, i Musei Civici di Lecco. A partire dal 1979 la nuova Direzione dà inizio ad un lungo lavoro di sistematizzazione del patrimonio archeologico che ha portato e alla all'apertura del museo negli ambienti medievali sotterranei di Palazzo Belgiojoso nel 2001.Il progredire della ricerca ha incrementato, nel corso degli anni, le collezioni del museo. row-4x6i-dmtm_rtiu Arte del Contrappunto Plastico n. 1 Briosco Via Col del Frejus, 3 Scultura astratta, costituita da numerose lastre d'acciaio modellate a raffigurare forme geometriche saldate l'una all'altra. La struttura che ne deriva è un gigantesco parallelepipedo che si sviluppa in lunghezza, aperto su tutti i lati e ritmato al suo interno dall'alternarsi di sbarre, cerchi ed altri elementi geometrici. L'opera, alta 2,70 metri e lunga 10,80 metri, è installata all'aperto sopra una vasca di recupero per l'acqua piovana. L'opera, oggi facente parte della collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini, venne acquistata dall'imprenditore brianzolo Alberto Rossini nel 1990 da un collezionista privato, il quale l'aveva a sua volta acquisita dopo averla vista alla Biennale di Venezia del 1986. Nonostante tutte le sculture della Fondazione siano, nella mente del collezionista, da considerarsi "come figli" e dunque tutte allo stesso livello, per sua stessa ammissione questa particolare opera fu da lui fortemente desiderata, in quanto vi riconobbe una sorta di superiorità intellettuale, dettata dall'intenderne l'autore, Fausto Melotti (1901-1986), non solo come uno scultore ma come un vero e proprio poeta. La scultura venne dunque posizionata all'interno del Parco di sculture della Fondazione, a stretto contatto con la natura, ovvero installata sopra una vasca di recupero per l'acqua piovana, rispecchiando così le intenzioni dell'artista.Per lo scultore trentino, infatti, la scultura è essenzialmente un linguaggio basato sulle forme e lo spazio all'interno del quale esse penetrano. Per questo motivo egli sceglie di volta in volta i singoli luoghi specifici all'interno dei quali individuare vibrazioni e scansioni, che poi traduce in materia attraverso la costruzione di strutture fatte di elementi primari, solitamente riconducibili a forme geometriche basilari e sottili diaframmi. Le sculture che ne risultano sono ritmiche, volutamente legate al linguaggio musicale, in cui le note rompono e ricostruiscono il silenzio (che equivale allo spazio vuoto): in questo caso, esplicitato dal titolo "Arte del Contrappunto Palstico n. 1", i contrappunti diventano lance, fili, sagome curvilinee, lamine e dischi, posti in un ordine imprevedibile che pure ricorda la scrittura pentagrammatica. La scelta di lavorare con la lamina metallica valorizza inoltre l'indice di luminosità della scultura e il suo senso di precaria instabilità, acuito dall'effetto di riflessione ottenuto nello specchio d'acqua sottostante. row-8ri9.km2b.qxxu Statua di Eracle in riposo Milano Corso Magenta, 15 row-remj.saay-rmar Madonna con san Cristoforo e due committenti Alzano Lombardo Piazza Italia, 8 La tela raffigura l'episodio della conversione di San Cristoforo. Secondo la versione popolare della vicenda, tratta dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, Cristoforo era un cananeo di statura gigantesca. Dopo essere stato al servizio del demonio, decise di seguire Cristo e, guidato da un eremita, si dedicò a trasportare i poveri e i deboli al di là del fiume. La scena rappresenta il momento culminante: Cristoforo, che sta sprofondando nell'acqua, si volta per osservare il bambino che ha sulle spalle, sorreggendosi con la mano destra al suo bastone, un tronco di palma. Il fanciullo lo invita a proseguire, indicandogli la via per la salvezza. Dopo aver raggiunto con grande fatica la sponda opposta, il Bambino si rivela di essere Cristo e che quella notte ha portato sulle spalle il peso del mondo, ben esemplificato dal globo che regge tra le mani. Secondo uno schema cinquecentesco tipico del Tintoretto, assistono alla scena la Madonna, le cui vesti sono della stessa tonalità di quelle del Bambino, e due dignitari riccamente abbigliati, che sono i donatori dell'opera. La complessa visione prospettica e i contrasti luminosi, creano effetti carichi di suggestione drammatica. Già segnalato alla bottega di Jacopo Tintoretto, il dipinto è oggi attribuito alla mano del grande maestro veneziano, l'ultimo dei grandi "vecchi" da molti additato come padre della pittura "moderna". Acquistata dalla Fabbriceria San Martino intorno al 1820-1821 probabilmente dalla raccolta di Brera che custodiva le opere confiscate nelle soppressioni napoleoniche, l'opera proviene quasi certamente da qualche chiesa veneziana, forse dall'Oratorio della Confraternita dei Mendicanti. Prima di essere esposta nelle sale del Museo, decorava le pareti della Cappella del Rosario nella basilica di San Martino. La pennellata energica, le forme sempre più solide e potenti e il senso della luce concepita come formula espressiva drammatica, consentono di riferire il dipinto ad una fase matura del Tintoretto, molto probabilmente intorno al 1575. row-m3tg_dv3b-je3g Varese Piazzale Litta, 1 Il Salone Impero, costruito tra 1829 e 1830 da Luigi Canonica per il duca Pompeo Litta Visconti Arese al piano terra della villa, in aggiunta al corpo principale della dimora settecentesca, si presenta a forma di parallelepipedo all'esterno, mentre all'interno la forma ovale è ottenuta dall'architetto arrotondando internamente gli angoli. L'ambiente è decorato in ogni particolare da Luigi Canonica secondo uno stile tardo impero classicheggiante. La monumentalità dell'ambiente è sottolineata dalle grandi semicolonne corinzie, dai fregi in stucco con figure di putti e dall'ispirazione classica della decorazione. Sfingi, mascheroni, trofei, palmette, rosette e girali vegetali intervallati da gustosi particolari come ananas, carciofi, limoni e pere dipinti a chiaroscuro sul soffitto sono inquadrati in una moderna trama di quadrature e figure geometriche, ripetuta nei riquadri del pavimento a mosaico, realizzato con la tecnica cosiddetta "a semina". Alla mano del Canonica si deve anche il disegno delle consolles, delle specchiere, dei profili delle porte, dei lampadari di cristallo e dell'elegante decorazione della stufa a parete. Nel caso del Salone, il disegno di una nitida riquadratura ricompone geometricamente la tradizionale casualità della decorazione.I due acrilici su tela di David Simpson collocati ai lati della stufa sono Dear to Saturn (Sapphire) e a destra Quicksilver Shift, entrambi del 1994. Il grandioso Salone decorato in stile impero è l'ambiente più sontuoso dell'intera villa. Costruito tra il 1829 e il 1830 per volere del duca Pompeo Litta Visconti Arese come ambiente di rappresentanza per ospitare banchetti e accomodare gli ospiti più prestigiosi, il salone viene progettato nell'insieme e in ogni suo minimo particolare della decorazione d'interni da Luigi Canonica, l'architetto di stato ufficiale in epoca napoleonica. Ispirandosi al gusto della grandeur napoleonica, così importante per le sorti della famiglia, Canonica costruisce un ambiente a forma di parallelepipedo all'esterno arrotondando internamente gli angoli e creando un ambiente ovale impreziosito da decorazioni classicheggianti. La data 1830 leggibile sulla lapide esterna della facciata, unita a quella rinvenuta, nel corso del recente restauro, nel cornicione della sala, che riporta "M F 1831", anno della definitiva inaugurazione del salone, rappresentano dei punti di riferimento precisi riguardo l'esecuzione del complesso decorativo e ne confermano l'inserimento cronologico all'interno del tardo stile Impero. Alla grandeur imperiale richiamano i motivi degli ornati: sfingi, mascheroni, trofei, palmette, rosette e girali vegetali ripresi dai modelli del mondo classico greco e romano e inquadrati in una moderna trama di quadrature e figure geometriche, ripetuta nei riquadri del pavimento a mosaico. Canonica si occupa si ogni particolare: disegna la geometria del pavimento a mosaico veneziano, consolles, specchiere, i profili delle porte, i lampadari di cristallo e l'elegante decorazione della stufa a parete, progetta il raffinato decoro a chiaroscuro del soffitto con figure mitologiche e inusuali bouquet di frutta e verdura, con gustosi particolari come ananas, carciofi, limoni e pere. La monumentalità classica della sala, sottolineata dalle grandi semicolonne corinzie e dai fregi in stucco con figure di putti, la simmetria e l'ordine vogliono simboleggiare l'ordine della situazione politica portata dall'impero napoleonico, al quale ricordo la nobiltà dei Litta rimane fedele fin dopo il suo declino.In apparente contrasto, ma in raffinato e studiato equilibrio, vengono allestite da Giuseppe Panza due grandi opere dell'artista contemporaneo David Simpson (Pasadena, 1928) dalle cangianti cromìe, che riprendono i colori dell'ambiente in complesse variazioni che spaziano dal grigio, all'azzurro, al blu scuro, ogni volta diverse secondo l'incidenza della luce naturale che irrompe nell'ambiente dalle grandi porte finestre affacciate sul parco. I quadri di David Simpson sono solo apparentemente monocromi: a seconda delle condizioni atmosferiche e luminose, del punto di osservazione e del movimento la superficie cambia colore sotto gli occhi dell'osservatore. L'artista californiano inventa per i suoi lavori colori artificiali, non esistenti in natura: mescolando l'acrilico con la mica, pigmento metallico iridescente, crea colori cangianti e mutevoli, sovrapposti sulla tela di lino in vari strati a colpi di spatola: la gestualità dell'artista e i riflessi generano esperienze visive sempre mutevoli e fanno dell'opera un portale verso una dimensione nuova. row-kde6~swih-pgxr Altare dei Santi Pietro e Paolo Meda Piazza Vittorio Veneto La prima cappella a destra della Chiesa di S. Vittore, ospita l'altare dedicato ai Santissimi Pietro e Paolo, l'ultimo in ordine di tempo ad essere stato realizzato all'interno del complesso.Il dipinto murale che la decora raffigura nella parte bassa i santi Pietro e Paolo, affiancati dalle relative scene dei rispettivi martiri. Questi sono sormontati da una colonna di angeli senz'ali e nuvole che culmina nella parte alta nella raffigurazione di due nudi umani circondati da angeli musicanti, con le braccia tese verso l'alto in direzione della colomba dello Spirito Santo. Sulla sinistra della composizione è dipinto San Pietro, con alle spalle un alto e robusto albero che arriva fino alla sommità del cielo: ha una corta e ispida barba bianca, il volto rivolto in direzione dell'osservatore ed è vestito con una tunica violacea, coperta da un mantello color arancio brillante. Nella mano destra tiene le chiavi, suo attributo caratteristico - simbolo delle chiavi del Cielo che Gesù gli promise quando decise di fondare su di lui la Chiesa terrena - e con la sinistra regge il libro delle sue Lettere ai Romani. Sullo sfondo, alla sua sinistra, è raffigurata la sua morte avvenuta per crocifissione a testa in giù, di fronte ad un drappello di soldati e cavalieri armati. Sulla destra è invece raffigurato San Paolo, con capelli castani e barba lunga, il volto orientato verso destra, vestito con una tunica verde scuro e un mantello rosso appoggiato sulla spalla destra. Nella mano destra tiene la spada, suo caratteristico attributo iconografico, mentre con la mano sinistra regge un libro dalla copertina azzurra, riferimento alle diverse lettere da lui scritte alle prime comunità cristiane. Altri due libri, uno chiuso con una fibbia e uno aperto con le pagine stropicciate, sono appoggiati sotto i suoi piedi scalzi. Sullo sfondo, alla sua sinistra, è dipinto il suo martirio, avvenuto per decapitazione presso le mura della città di Roma, in presenza della cittadinanza.La presente cappella si differenzia dalle altre per la mancata divisione tra parete e lunetta soprastante. Si segnala però nel profilo dell'arco la presenza di piccole formelle dipinte in cui sono raffigurate le tre Virtù Cardinali (Fede, Speranza e Carità), le quattro Virtù Teologali (Giustizia, Fortezza, Prudenza e Temperanza) ed alcuni episodi tratti dagli Atti degli Apostoli. Sul fianco sinistro sono dipinte la guarigione dello storpio e degli ammalati (At. 5,15) e Pietro liberato dal carcere da un angelo (At. 12, 1-18); mentre sul fianco opposto, la folgorazione di San Paolo sulla via di Damasco (At. 9,3-9) e l'uscita del santo da Gerusalemme dove fu minacciato di morte dai Giudei (At. 23,12-24). Sulla chiave di volta, infine, è collocato l'episodio di Pietro e Simon Mago (At. 8,9-24). L'opera è stata accostata dalla critica a Giovanni da Monte, la cui attività è documentata dal 1541. Probabilmente originario di Monte Cremasco (presso Como), l'artista fu ampiamente attivo a Milano dove realizzò, tra le altre cose, le ante dell'organo della chiesa di S. Nazaro, raffiguranti le storie dei santi Nazaro e Celso, nonché di Pietro e Paolo. Il presente dipinto è segnalato in bibliografia come confrontabile con la decorazione da lui eseguita nella chiesa di S. Lorenzo a Lodi, che lo impegnò tra il 1566 e il 1568, e frutto della forte relazione personale con San Carlo Borromeo e della ritrovata frequentazione con Antonio Campi, dopo una negativa vicenda che li aveva visti contrapposti nella realizzazione di una pala raffigurante la "Resurrezione" per la chiesa di S. Maria presso S. Celso a Milano. Il rapporto tra i due artisti è caratterizzato da una comune volontà di sperimentazione. Pur riconoscendo infatti il ruolo della pittura locale cremasca, Da Monte dovette subito percepire come superata la sua "maniera", e si orientò verso la pittura veneta e la cultura figurativa di Genova, in linea con i desideri delle committenze lombarde.Per quanto riguarda il soggetto raffigurato, i SS. Pietro e Paolo sono personaggi fondamentali per la storia della Chiesa del I secolo, spesso accostati dall'iconografia e dalla tradizione agiografica. Qui l'enfasi del racconto viene posta sulla storia del loro martirio, raffigurata sullo sfondo. Sulla sinistra è dipinto San Pietro: il suo vero nome era Simone, poi cambiato da Gesù in "Kefa", che in ebraico significa "pietra" (da cui Pietro), a significare che su di lui avrebbe fondato la Chiesa. Nato in Galilea, egli era un pescatore di Cafarnao che conobbe Gesù tramite il fratello Andrea e venne da Lui chiamato a diventare "pescatore di uomini". Testimone della Trasfigrazione e dell'agonia nel Giardino del Getsemani, cercò di opporsi alla cattura di Cristo ma poco più tardi lo rinnegò tre volte, poi pentendosene amaramente. Fu il primo apostolo ad operare miracoli, a battezzare ed organizzare la Chiesa, pertanto viene identificato come il primo papa. Morì, come rappresentato nel dipinto, a Roma sotto Nerone, tra il 64 e il 67 d.C., crocifisso a testa in giù poichè si considerava indegno di morire come il Signore. Sulla destra della composizione appare invece San Paolo. In origine egli era chiamato Saul ed era un fabbricante di tende di Tarso che, subito dopo la morte di Cristo, prese parte alle persecuzioni contro i cristiani. Durante un viaggio verso Damasco, però, ebbe una visione che lo accecò conducendolo alla conversione: battezzato ad Anania si mise a predicare la fede in Cristo fra gravi pericoli, sia per la diffidenza dei cristiani nei suoi confronti, che per il desiderio di vendetta degli ebrei che aveva tradito. Morì a Roma sotto Nerone, intorno al 65 d.C., ma in quanto cittadino dell'Impero non venne condannato alla crocifissione, bensì alla morte per decapitazione, come si vede raffigurato nell'affresco sulla sinistra della composizione.Per quanto invece riguarda le scene dipinte sul profilo dell'arco, le piccole figurette che le animano si avvicinano molto ai medaglioni in stucco realizzati sempre da Giovanni Da Monte nel catino absidale di S. Lorenzo a Lodi, raffiguranti scene della vita e del martirio del santo. row-f4vv~ii2e.6r2t I ladri e l'asino Milano Via Palestro, 16 row-trdp-q6a8_pp89 Madonna Immacolata Vimercate Via Vittorio Emanuele II, 53 La pala è parte integrante dell'altare della cappella gentilizia di Villa Sottocasa di Vimercate, e rappresenta la Madonna Immacolata assisa sul globo tra le nuvole, coronata di stelle ed immersa in un'atmosfera fredda. Gesù Bambino, con lunghi riccioli biondi, è raffigurato in piedi, di tre quarti, in una naturale e dinamica torsione, con i fianchi cinti da un panno rosa e la mano sinistra poggiata nella mano della Madonna, mentre la destra è adagiata sulla sua coscia. La gamba è in luce e il piedino, sovrapposto a quello di Maria, schiaccia la testa del serpente a significare la sconfitta del male. Il viso aggraziato della Madonna è illuminato da un dolce sorriso malinconico, premonitore del destino doloroso del Figlio. Sullo sfondo a sinistra, aleggiano tre cherubini in gloria, mentre sulla sinistra un angioletto regge il manto azzurro e lucente di Maria. Il quadro, opera di Stefano Maria Legnani detto il Legnanino, geniale maestro del barocchetto milanese, è stato solo recentemente attribuito al pittore e datato attorno al 1705. Presenta le ridotte misure tipiche di un¿opera realizzata per la devozione privata e deriva, evidentemente, dalla più importante Immacolata dipinta dal Legnanino per la Chiesa di S. Maria Assunta di Orta S. Giulio, databile intorno al 1701. Dal modello deriva in froma accentuala l'eleganza del taglio compositivo diagonale, la raffinatezza estrema delle connotazioni fisionomiche dei personaggi, l¿attenzione al gesto affettuoso con cui s¿intrecciano le mani della madre e del figlio, mentre diviene essenziale, quasi astratto, l¿impianto cromatico. Gli incarnati, luminosi e chiari come porcellane, si confondono con la veste immacolata di Maria, mentre al prezioso e intenso azzurro di lapislazzuli del manto della Vergine, tipico di questo artista, si accorda il colore del panno che cinge il Bambino, un tono di lacca rosso violacea delicatamente attenuato. Ancora attentamente da studiare è l'originaria destinazione del quadro. Il recente restauro ha infatti verificato che le sue attuali dimensioni corrispondono a quelle originali e che la tela non ha mai subito alcun adattamento. Per questa ragione è stato ipotizzato che la complessiva sistemazione della cappella gentilizia di Villa Sottocasa, il cui arredo ripropone i modelli del neoclassicismo lombardo con qualche interessante sfumatura eclettica nel gioco grafico e pittorico delle modanature e delle superfici, sia stata progettata intorno al piccolo capolavoro e sia avvenuta dopo l'acquisto della villa da parte della famiglia d'Adda, cioè tra il secondo e il terzo decennio dell'Ottocento. row-hsxm-avbf-pzte Madonna con Bambino Lodi Via Cavour, 31 La tavola, a fondo oro, raffigura la Madonna in trono con il Bambino. La Vergine indossa un abito candido, con scollo accentuato e dall'elegante e aderente manica dai piccoli bottoni, con manto blu decorato da fiori e foderato di rosso. Il Bambino ripropone lo stesso colore per l'abitino, con ricami dorati come quello della Madre, e manto verde. Il dipinto è documentato dall'inizio dell'Ottocento nella chiesa della Madonna della Fontana a Camairago (Lodi), per poi essere spostato al Museo diocesano di Lodi. Si tratta di un'unica tavola rifilata in alto e in basso, così da lasciare troncato il suppedaneo del trono. L'impostazione delle due figure sembra rifarsi a modelli più veneti che lombardi. Ad esempio la posa del piccolo Gesù pare ricordare dell'immagine proposta da Paolo Veneziano nella Madonna di Cesena del 1347, così come il mantellino di opaco tessuto che lo avvolge a spirale. Il motivo del cuscino sotto i piedi, estraneo all'arte toscana e a quella lombarda, è invece presente in quella veneziana. Le aureole, molto ampie e con piccoli decori creati da un punzone a sedici punte, non corrispondono al repertorio comunemente in uso in Toscana e Lombardia nel secondo Trecento, ma avvicinano l'opera al tardo e discusso affrescocon la Madonna col Bambino e due angeli in S. Agostino a Cremona, sul quale aleggia il nome di Stefano da Ferrara, di cui è nota l'attività in territorio veneto, nonchè il tramite tra l'ambiente veneto e quello lombardo, row-4e27-43vi_e9um Artemide cacciatrice Cremona Via S. Lorenzo, 4 Questa statuetta di Artemide, corrispondente alla romana Diana, rappresenta la dea durante una battuta di caccia, nel momento in cui si prepara a scoccare la freccia dopo averla presa dalla faretra che porta sulla schiena. La figura, purtroppo priva della testa, del braccio sinistro e della mano destra, indossa una corta veste, cinta sotto il seno e rimborsata sui fianchi, dove si apre anche un ampio panneggio svolazzante. La dea è accompagnata da un cane dal muso allungato. Questa rappresentazione di Artemide risale a un modello greco più antico, il cui autore rimane per noi sconosciuto. La statuetta si trovava, forse, collocata in una delle nicchie della fontana monumentale che ornava il giardino della casa del Ninfeo, così denominata proprio per la presenza di questo elemento architettonico che dominava l'ambiente. E' uso frequentissimo nel mondo romano abbellire i giardini con statue di divinità, che sono spesso copie di famose opere greche. Non fa eccezione questa statuetta di Artemide, in cui è stata riconosciuta la copia di un originale greco più antico, ridotta nelle dimensioni per poter rispondere alle esigenze e ai gusti del padrone di casa. Sfuggita al saccheggio dei soldati di Vespasiano che incendiano la città nel 69 d.C., durante la guerra civile per la successione all'impero, dopo essere rimasta sepolta per quasi 2000 anni sotto le macerie della casa dove era ospitata, è ora tornata a risplendere al centro della nicchia del ninfeo, presso il Museo Archeologico San Lorenzo. row-cxdi-p42m-cc6f Transito di S. Giuseppe Mantova Piazza Sordello, 40 Nella pinacoteca di Palazzo Ducale, il Settecento è rappresentato dalla colta e raffinata sensibilità del mantovano Giuseppe Bazzani (1690-1769). In questa tela l¿artista descrive il momento della morte di S. Giuseppe, ritratto sdraiato nel suo letto e circondato come in un abbraccio dalle figure di Maria, Gesù e alcuni angeli. Il petto del santo ed il bianco lenzuolo vengono inondati di luce e diventano il punto focale della scena. La tavolozza tende al monocromo, tutta costruita su colori terrosi e caldi, e la pennellata vaporizza le anatomie. È purtroppo ignota la provenienza di questa tela, che, per il formato, poteva in origine ornare una sagrestia o essere destinato alla devozione privata. Il quadro è documentato per la prima volta solamente nel 1895, quando lo troviamo esposto nella Galleria del Palazzo Accademico di Mantova. Gli studiosi datano l'opera alla fine del sesto decennio del XVIII secolo. Si ritiene infatti che l'intero gruppo di dipinti con questo soggetto sia databile agli ultimi anni di attività del pittore e implichi, nella rappresentazione della sofferenza e del trapasso, riferimenti autobiografici. Sono note varie versioni del soggetto nel catalogo del pittore mantovano, la tela in oggetto è quella di dimensioni maggiori e mostra le massime affinità con un dipinto del Musée Départemental de L'Oise di Beauvais. row-xkuh-ymw2~c48d Il riposo Milano Via Brera, 28 row-cztt.qau5.hbva Corteo dei Re Magi Milano Piazza Castello row-ys7u_x45b-qvwr Matrimonio mistico di santa Caterina d'Alessandria con il donatore Niccolò Bonghi Bergamo Piazza G. Carrara, 82 La scena fa riferimento all'episodio in cui Santa Caterina d'Alessandria, di stirpe regale, mentre prega davanti a un'immagine della Madonna con Gesù Bambino, vede il Bambino rivolgersi verso di lei e metterle l'anello al dito, traducendo quindi in visione l'offerta di sé a Dio. Sulla sinistra si trova in secondo piano la figura un po' impacciata, probabilmente inginocchiata, del committente Niccolò Bonghi in atto di adorazione con una mano aperta e una sul petto, impreziosita quest'ultima dall'anello con lo stemma di famiglia. Il rettangolo di tela mancante sulla destra corrispondeva al paesaggio o alla veduta che si apriva dalla finestra sullo sfondo: era probabilmente una veduta del monte Sinai in riferimento a Santa Caterina, così come ricordato dal Ridolfi nel 1648, oppure una veduta di Bergamo, come sostiene qualche critico recentemente. Gli elementi d'arredo della semplice stanza sono quelli di una dimora dell'inizio del Cinquecento: il seggiolone con borchie e schienale di pelle, il piccolo poggiapiedi di legno (su cui compare la firma e la data dell'opera), i tappeti orientali (le caratteristiche 'preghiere' anatoliche a disegno rientrante di questo stesso periodo) appoggiati a prender aria sul davanzale dalla finestra. La presenza di tappeti nei dipinti di Lotto è ricorrente e lo denota come grande conoscitore a giudicare dalla precisione con cui li raffigura. L'opera è considerata la più rappresentativa dipinta dal grande pittore veneziano durante il suo soggiorno a Bergamo dal 1514 al 1525. Curiosamente un'opera di così alto pregio è realizzata da Lotto in pagamento delle rate di affitto non pagato al suo padrone di casa, ovvero quel Niccolò Bonghi, un po' rude nell'aspetto, che compare dietro la scena sacra a sinistra in atto di adorazione. Niccolò discende da una famiglia che si è molto distinta nei secoli precedenti e, benché in lieve declino, fa parte ancora dell'elite dei maggiorenti bergamaschi. La bellezza dell'opera, già notevolissima, sarebbe ancora superiore se non fosse stata asportata una cospicua porzione della tela, corrispondente alla veduta fuori dalla finestra aperta, forse ad opera di un soldato francese durante l'occupazione di Bergamo nel 1528. L'opera si segnala per la dimensione quotidiana e domestica, in cui sono annullate le distanze gerarchiche tra i personaggi sacri e il committente: l'artista, che sta studiando nuove tipologie per i dipinti a destinazione privata, vuole qui dare un'evidenza inedita -quasi da pala d'altare con figure intere- a una scena dallo spirito fortemente intimo, dalla limitata profondità, quasi fosse posta a prolungamento di una stanza reale, dove avviene quindi un fatto sentito come reale. Il critico statunitense Bernard Berenson dichiarò che per la semplicità e la naturalezza della composizione "è difficile trovare di meglio nell'arte italiana". La composizione lungo la diagonale discendente è debitrice della pittura lombarda postleonardesca, ma la luce mobilissima che trascorre sui ricchi panneggi e sulle cose, i colori brillanti, la concatenazione ritmica dei gesti e la concentrazione psicologica delle teste, rivolte verso l'osservatore, creano un forte coinvolgimento emotivo del riguardante, che è il portato più innovativo e originale dell'arte di Lorenzo Lotto. row-vg76.uni2-2unr Collezioni del Civico Museo della Seta Abegg Garlate Via Statale, 490 Le ricche collezioni del Museo Abegg offrono la visione completa del processo produttivo della seta a partire dall'allevamento del baco fino alla realizzazione del tessuto. Questo grazie alla varietà dei macchinari esposti, che permettono di osservare le principali fasi di produzione (allevamento del baco, trattura dei bozzoli, torcitura della seta) e alla disponibilità di uno spazio specificamente dedicato alla tessitura. Il museo fu inaugurato nel 1953 come istituzione privata della società svizzera Abegg & C. con sede in Zurigo proprietaria in Italia di numerosi setifici. L'idea di un museo rivolto alla seta quale testimonianza scientifica e tecnica di questa ricca attività manifatturiera, fu concepita negli anni Trenta del Novecento da Carlo Job, direttore generale delle aziende Abegg in Italia, quando a fronte della "crisi del 1929" venivano smantellate molte manifatture seriche. Da allora iniziò a raccogliere macchinari del passato usati per la seta provenienti da Abegg e altre proprietà. La guerra sopraggiunta fece accantonare il progetto. Terminato il conflitto e ripresa l'attività industriale, poco prima del 1953 iniziarono i lavori di allestimento del Museo della Seta Abegg occupando l'intera ala ovest della antica filanda di Garlate. Dell'allestimento del Museo, Job incaricò Vittorio Crippa, allora direttore della Officina Abegg per macchine tessili. Fu così realizzata una ricca esposizione che copre tutta la filiera serica: dall'industria semaia col metodo Pasteur, all'allevamento del baco, al trattamento dei bozzoli. Dalla delicata fase di trattura, alla produzione di filati, alla tessitura, a tutti i trattamenti e controlli intermedi. Tutte le macchine vennero restaurate e in buona parte rese funzionanti.Il museo non aveva solo scopo documentale, ma si poneva obiettivi formativi rivolti alle scuole tecniche e corsi sul tessile, ai dipendenti delle varie manifatture di settore. Per far sì che i macchinari fossero facilmente compresi si fece in modo che quasi tutti funzionassero; scelta che si rivelò molto proficua. Anche dopo l'apertura nel 1953 la ricerca di altri reperti proseguì per anni. Quando nel giugno 1973 la Società Abegg come tale cessò ogni attività in Italia, per il Museo si ventilarono diverse scelte, tra cui quella di portarlo in Svizzera; Chi aveva curato il Museo di Garlate fece presente ai massimi responsabili di quell'azienda l'opportunità che il museo restasse dove venne ideato e ben ambientato storicamente fin dalle origini. La loro sensibilità fece il resto e il Museo Abegg nel 1976 venne donato al Comune di Garlate a patto che fosse conservato con cura e mantenuto efficiente. Dopo vicende alterne in cui si mise a dimora il "Gelseto storico" e si proseguì con la "Bigattiera storica", l'allevamento annuale di bachi da seta. Nello stesso periodo continuò il recupero di altri macchinari da manifatture seriche dismesse. Nell'anno 2000, grazie a un finanziamento UE (il progetto multiregionale "Archeoseta" tra Italia/Garlate, Inghilterra/Macclesfield, Portogallo/Chacim e Spagna/Terrassa) il Museo iniziò ad essere aperto, ma una fase critica ne determinò la temporranea chiusura. Grazie all'intervento del comune, a donazioni di ditte e al contributo di tanti volontari che restaurarono tutti i macchinari ora esposti, il 30 novembre 2013 è stato nuovamente riaperto. row-addj_6kem.h8p9 Figura maschile con animale Pavia Piazza San Michele Nel 1330 circa il pavese Opicino de Canistris nel "Liber de laudibus Civitatis Ticinensis" attesta la presenza, in molte chiese cittadine, di numerosi mosaici pavimentali policromi figurati e con didascalie, di incredibile bellezza, ma loda in particolare quello conservato in S. Michele, considerandolo una delle maggiori attrazioni di Pavia, città che era stata uno dei centri più importanti di produzione di tali manufatti nell'Europa romanica.Opera di eccezionale valore storico artistico della prima metà del XII secolo, il prezioso tappeto musivo che rivestiva in origine tutta l'area privilegiata del presbiterio, mentre le navate erano pavimentate in cocciopesto, giunge a noi in forma frammentaria, ma ancora in situ. Attualmente sopravvivono alcuni cerchi concentrici del Labirinto e il ciclo cosmologico dei mesi. In una fascia orizzontale, il Re Anno in trono, coronato, con scettro e globo, che allude forse alla basilica delle incoronazioni regali, compreso tra una teoria dei Mesi, personificati, identificati da iscrizioni verticali, nell'atto di compiere un lavoro agricolo stagionale, sotto archi con colonnine: Gennaio (frammento) si scalda le mani al fuoco; Febbraio fa la punta ad un paletto con l'accetta; Marzo suona due corni simmetrici dai quali escono i venti; Aprile con due mazzi di fiori simmetrici; Maggio falcia l'erba; Giugno con due rami simmetrici di ciliegie, speculare ad Aprile; Luglio miete le spighe; Agosto (frammento) fabbrica una botte. L'esame comparativo con un'incisione di Giovanni Ciampini del 1699 e un disegno della Biblioteca Vaticana hanno permesso l'utile, seppure empirica, ricostruzione grafica dell'iconografia del mosaico, in origine molto più vasto che prevedeva al centro in un clipeo il Labirinto con Teseo e il Minotauro, negli angoli figure fantastiche di animali che alludono alle costellazioni celesti e in basso a sinistra un rara raffigurazione del gigantesco Golia con lancia e scudo e del piccolo Davide con fionda. Nelle due scene di lotta, mitica tra Teseo e il Minotauro e biblica tra Davide e Golia, vi è l'accostamento tra sacro e profano, l'interpretazione cristiana del mito antico e la rappresentazione della lotta tra bene e male che, mutuata dall'antichità, ha rivestito un grande interesse nella cultura medievale. Il Labirinto ha il significato simbolico del faticoso cammino della vita umana per giungere alla finale salvezza eterna. A destra era raffigurata anche una distesa d'acqua con onde stilizzate ed un pesce, il cui significato rimane ad oggi oscuro, può forse alludere alla storia di Giona o al mare simbolo della chiesa e pesci come fedeli o ancora più semplicemente come l'Oceano contrapposto alla Terra.L'importanza del manufatto è sottolineata anche dall'esposizione di un suo calco, realizzato dall'ing. Siro Dell'Acqua, all'Exposition Universelle di Parigi nel 1867. row-y2t8_b5bf_irgk Museo Archeologico Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 L'allestimento che segue un ordine cronologico mira a esporre modesti manufatti d'uso quotidiano accanto all'unicum, al pezzo di grande valore. La I sala riguarda l'antico territorio della Pavia romana, che comprendeva il Pavese, la Lomellina, ma non l'Oltrepo, allora appartenente a Piacenza, con riferimento ad alcuni complessi funerari gallici e romani, dal sec. II a.C. al II d.C. e la ricostruzione dell'area sepolcrale di Casteggio con due tombe a cremazione in mattoni e un cippo funerario iscritto, che testimonia l'appartenenza di Clastidium al territorio di Piacenza.La sala II è dedicata al collezionismo pavese dall'Ottocento ai primi del Novecento. Peculiare la raccolta egizia di circa 150 oggetti eterogenei tra papiri, bronzetti, vasi canopi, amuleti donata da Malaspina. Notevoli i vetri di età romana, di cui il museo pavese vanta la raccolta più importante del nord Italia, tra i quali il kantharos in vetro blu scuro proveniente da Frascarolo e la rara coppa azzurra firmata Ennion e la raccolta di vasi italioti, prodotti nella Magna Grecia a partire dal V sec. a.C. La sala III ospita ceramiche fini e oggetti comuni di uso quotidiano, la tavola, il consumo di vino, i corredi da toelette, il culto dei morti, di epoca celtica e romana, reperiti in città e nel territorio.Nella IV testimonianze architettoniche e scultoree dell'antica Ticinum romana, dal I sec.all'inizio del III sec. d.C., trovati reimpiegati in edifici di epoche successive. Significativi il cippo marmoreo con il dio Attis e la statua iconica di togato di età romana, con testa non pertinente, nota come 'Muto dall'accia al collo'. Nella sala V sarcofagi e stele funerari provenienti dall'ambito cittadino. Le origini della sezione risalgono a Luigi Malaspina che raccoglie antichità egizie, lapidi e altre tipologie di manufatti nella sua ricca collezione destinata nel 1838 a beneficio pubblico. Questa prima raccolta cittadina continuamente implementata con successive donazioni di munifici cittadini (C. Bonetta, C. Brambilla, C. Giulietti, G.C. F. Reale, A. Riquier), nel 1894 genera il 'Museo Civico di Storia Patria', ulteriormente arricchito con lapidi, sculture e mosaici della 'Civica Scuola di Pittura'. Seguono acquisti e numerosi rinvenimenti fortuiti nel corso di lavori in città e nel territorio, solo in pochi casi si tratta di scavi sistematici, che culminano nel 1951 nel trasferimento del museo da palazzo Malaspina al neorestaurato castello, riallestito nel corso degli anni in cinque sale. row-brcc.i4hd-hwcd Giustizia dei Grigioni Tirano Lungo Adda Battaglione Tirano Dove l¿Adda lambisce il borgo di Tirano sorge Porta Poschiavina; all'interno del passaggio coperto compare una grande lunetta affrescata con gli stemmi più antichi tra quelli conservati nel complesso architettonico, che ingloba anche il palazzo del Podestà. Al centro del dipinto murale domina la personificazione della Giustizia, seduta, coronata, con la spada nella mano destra e la bilancia nella sinistra. Sopra di essa si srotola un cartiglio con l'esortazione DILIGITE IVSTITIAM QVI IVDICATIS TERRAM (amate la giustizia voi che siete giudici in terra), mentre sotto i piedi della fanciulla una tabella riporta la scritta SE MAI FV AL MONDO LA GIVSTITIA IN FIORE HOGGI MERCE DELLE TRE ECCELSE LIGHE FLORIR SI VEDE QVIVI IL SUO VALORE. Ai lati sono posti due grandi stemmi, a sinistra quello della famiglia Planta, a destra quello dei Quadrio. Alla base della lunetta sono raffigurati altri stemmi più piccoli, quattro per parte, che fanno ala ad una tabella centrale sulla quale compare il nome del committente, il podestà Giovanni Antonio Planta. L'arco della lunetta è decorato con un fregio di piccole volute affrontate e foglie stilizzate. Insieme a porta Bormina e porta Milanese, porta Poschiavina era uno dei tre accessi alla città di Tirano che si aprivano nella cinta muraria voluta da Ludovico il Moro, duca di Milano, nel 1492, prima che la Valtellina fosse assoggettata dai Grigioni. Il nome le deriva dalla strada che portava al borgo di Poschiavo, nell'attuale territorio svizzero.La lunetta con l'immagine della Giustizia fu affrescata da un ignoto pittore nel 1553, al termine del triennio di mandato come Podestà di Johann Anton Planta. All'epoca della sudditanza valtellinese sotto la Signoria delle Tre Leghe Grigie (1512-1797) era usanza da parte di coloro che rivestivano le maggiori cariche di governo far dipingere sulle pareti degli edifici pubblici i propri stemmi familiari, a testimonianza del prestigioso incarico rivestito. row-gygu_zh9p~zm7m Ritratto di Umberto I Monza Via Teodolinda, 4 Dipinto ad olio su tela raffigurante il giovane sovrano Umberto I in alta uniforme, seduto su una sedia con la sciabola in mano. Lo sfondo è coperto da un tendaggio rosso cupo che lascia intravedere, solo sulla sinistra, un prato fiorito e una piccola porzione di cielo. L'uomo, con capelli e lunghi baffi castano scuro che coprono la bocca, viene raffigurato a mezzo busto, orientato leggermente di tre quarti con lo sguardo rivolto verso sinistra: indossa una giacca blu scura con colletto e paramani bordati di rosso e decorati in argento, arricchita da cordelline argento, da una fascia cremisi e dal medagliere sul petto.L'opera, di formato rettangolare con orientamento verticale, è firmata e datata sul recto, nell'angolo in basso a destra ("G. Bianchi 1878"), ed è dotata di cornice lignea dorata. Attualmente esposta presso il primo piano dei Musei Civici di Monza Casa degli Umiliati, si presenta in ottimo stato di conservazione. Nel 2012 il dipinto è stato oggetto di un intervento di restauro effettuato dal Laboratorio Nicola Restauri di Aramengo (AT), di cui è conservata documentazione scritta e fotografica presso la sede museale. Firmata dal fratello minore di Mosè Bianchi, Gerardo (1845-1922), l'opera costituisce un ritratto di Umberto I di Savoia in alta uniforme. La data "1878" apposta dall'autore sotto la firma consente di collocare il dipinto in prossimità dell'ascesa al trono di Umberto, che all'epoca aveva 34 anni, dopo la morte del padre Vittorio Emanuele avvenuta appunto quell'anno.Gerardo Bianchi studiò a Brera con Giuseppe Bertini e si specializzò in miniatura. Oltre ad essere un apprezzato pittore, fu anche titolare di uno studio fotografico situato presso la piazza del Carrobiolo e la sua fama era tale che divenne il fotografo ufficiale della Casa Reale durante i lunghi soggiorni della corte in Villa Reale. Il taglio fotografico e la precisione della resa dei particolari, fanno ipotizzare che anche il ritratto in esame abbia come matrice una posa fotografica. Il dipinto in questione mostra infatti un'attenzione estrema per i dettagli: a dimostrazione dell'ufficialità del ritratto, tra i riconoscimenti di Umberto I sono ben riconoscibili nell'opera una serie di onoreficenze militari legate alla sua partecipazione alle battaglie risorgimentali, tra cui la medaglia commemorativa delle guerre per l'Indipendenza e l'Unità d'Italia, retta da un nastro con il tricolore ripetuto più volte, e la medaglia d'oro al Valor Militare, retta da un nastro azzurro e conseguita dopo la battaglia di Villafranca (1866). Umberto indossa inoltre il Collare e la Placca dell'Ordine Supremo della Santissima Annunziata di cui i Savoia si fregiavano. row-qgak-4hqb_eir9 Cremona Piazza Marconi, 5 Opera della piena maturità di Antonio Stradivari, lo strumento, dopo anni di ricerca e innovazioni da parte del maestro, rappresenta il perfetto punto di equilibrio tra armonia delle forme e inimitabile resa acustica. Dal punto di vista stilistico, le CC (parte mediana rientrante della cassa armonica) presentano un tratto centrale ad andamento più diritto, mentre i fori di risonanza, abbastanza paralleli tra loro e ben distanziati, determinano una maggiore ampiezza della tavola armonica. Nel 1727, all'età di 83 anni, Stradivari mostra di avere ancora energie da spendere per le sue ricerche sul piano sonoro, donandoci un violino a oggi insuperato. Un sottile filo unisce saldamente le sorti di questo straordinario violino, opera della piena maturità di Antonio Stradivari, alla sua città d'origine, che lo riaccoglierà definitivamente nel 2005, dopo quasi tre secoli di separazione.Sappiamo che nel 1937 il "Vesuvius" era esposto a Cremona nella mostra organizzata in seno alle celebrazioni per il bicentenario della morte del grande liutaio. Nel 1968 ne diventa proprietario il violinista Remo Lauricella e da quel momento il destino dello strumento è felicemente segnato. Nel 1977, infatti, durante una visita a Cremona, il famoso musicista confida ad Andrea Mosconi, allora conservatore dei beni liutari del Comune, la sua intenzione di lasciare alla città, dopo la morte, il "Vesuvius". Così, nel 2003, anno della sua scomparsa, il comune di Cremona viene informato che una clausola del testamento prevede il lascito del violino al sindaco e ai consiglieri in carica. Ma ciò comporta anche un risvolto negativo: per poter entrare in possesso dello strumento, che si trova a Londra, si deve provvedere al pagamento delle imposte di successione, che ammontano a più di 60.000 euro. Come nel 1966 per il violino "Hammerle" di Nicolò Amati, viene aperta una sottoscrizione che permette di raccogliere i fondi necessari. Nel 2005, il sindaco Corada preleva dalla casa londinese Sotheby's il "Vesuvius", che viene immediatamente esposto a Palazzo Comunale. row-6mbr.xy9r_mxpn Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi Chiari Via Bernardino Varisco, 9 La raccolta di incisioni occupa un posto d'onore nella Pinacoteca Repossi e realizza realmente quanto indicato nei manuali dei raccoglitori di stampe. Oggi il fondo calcografico conta 3.000 fogli tra i quali figurano stampe originali e copie preziose dei massimi esponenti delle scuole di incisione italiana - vale a dire dei più noti maestri regionali - ed estera, comprese in un periodo di tempo che va dal Quattrocento fino ai lavori del Novecento. Varie le tecniche incisorie impiegate dagli artisti: dal bulino alla puntasecca, dall'acquaforte al punteggiato, fino all'impiego combinato di questi strumenti secondo la ricerca pittorica di ogni maestro. L'importanza della collezione si evince chiaramente da un nucleo di incisioni di maestri italiani e stranieri, databili dal XV secolo alla seconda metà del XIX, tra cui un rarissimo esemplare del Combattimento di uomini nudi di Antonio Pollaiolo, il Baccanale e La sepoltura di Cristo di Andrea Mantegna, la Deposizione dalla Croce tratta dalla Piccola Passione di Dürer, fogli di Luca di Leida e di Giorgio Ghisi, fino ad alcune stampe della serie dei Capricci di Tiepolo e opere di Rembrandt, Callot e Goya. Vi sono inoltre conservate numerose incisioni delle scuole francese, fiamminga, inglese ed italiana (secc. XVI-XIX); non mancano infine gli incisori rappresentativi del XX secolo e della contemporaneità (tra cui Max Klinger, Giuseppe Guerreschi, Floriano Bodini, Gianfranco Ferroni, Tono Zancanaro, Fausto Melotti, Federica Galli, Carlo Pescatori). Una selezione delle opere più importanti è esposta dal 2009 nella Sala delle stampe, mentre il Gabinetto delle stampe si trova al primo piano della Pinacoteca. In data 25 luglio 1889 il senatore Ferdinando Cavalli indirizza da Roma una lettera alla Giunta Municipale di Chiari in cui annuncia il prossimo invio di libri "unitamente alla collezione di incisioni che sommano a 511, di cui alcune assai pregevoli". Questa sua generosa donazione costituisce per il fondo calcografico un lascito di pregevole valore, affiancandosi alle opere e alle stampe destinate dal gesuita Stefano Antonio Morcelli (1737-1821) e dall'avvocato Pietro Bartolomeo Repossi (1776-1854) ad arricchire la Pinacoteca e la Biblioteca create nella loro città natale. Il fondo attuale si è formato nel tempo grazie a donazioni private che continuano tutt'oggi. row-icju.ebwd-n88m Gardone Val Trompia Via XX Settembre, 31 L'esemplare è da identificare con un fucile a ruota di produzione bresciana, completo di bacchetta per la ricarica e databile tra 1630 e 1650. La canna si presenta a tre ordini (ottagonale, poligonale, tondo), con la bocca decorata con un cordoncino liscio. Il calcio, leggermente curvo, è a sezione ottagonale, mentre la bacchetta è di legno con calcapalle sagomato a balaustro; anche il grilletto è sagomato nello stesso modo e il ponticello che lo protegge presenta decorazioni incise a linee parallele. La piastra a ruota è di tipica forma bresciana con cartella piatta, di forma romboidale e senza decorazioni. Il cane, sagomato a richiamare la forma del grilletto, è messo in pressione da una molla a "V" esterna. Sulla cassa e sulla parte finale del calcio sono applicati motivi decorativi a rosetta. Il meccanismo con acciarino a ruota è il passo successivo dell'evoluzione del fucile con meccanismo a miccia, introdotto in Italia alla fine del Quattrocento. Due secoli più tardi, sarà proprio Gardone V.T. ad ottenere il primato europeo nella produzione di armi a ruota. L'incisione a lettere capitali sulla canna, "Francino", permette di ricondurre la fabbricazione dell'esemplare in esame a un membro non meglio identificato del ramo gardonese della dinastia di fama internazionale conosciuta come "Francini" (nota anche come "Francino" e "Franzini"), attiva nel commercio e nella produzione di canne dalla metà del Cinquecento fino all'Ottocento. Purtroppo, l'iscrizione difficilmente leggibile, l'assenza del nome di battesimo del fabbricante e la mancanza di punzoni, non permettono un'attribuzione più precisa. Ciò nonostante il buono stato di conservazione dell'arma e la qualità nella realizzazione, esemplificano egregiamente l'alto livello della produzione armiera bresciana durante tutto il XVII secolo. A causa della delicatezza che caratterizza sia la realizzazione sia la manutenzione delle armi a ruota, il loro utilizzo è tradizionalmente limitato a pochi reparti bellici: le pistole per la cavalleria corazzata, i fucili per i fanti che combattevano a piedi e a cavallo. Il resto dell'esercito era armato con fucili a miccia molto più semplici. Per l'uso civile il sistema a ruota è legato ai fucili da caccia. row-wav7-wz45.y89r Raccolte del Mu.Vi.S. - Museo della Via Spluga e della Val San Giacomo Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Le raccolte del Mu.Vi.S., Museo della Via Spluga e della Val San Giacomo, sono suddivise in tre aree tematiche, la prima dedicata alla via dello Spluga, la seconda alla storia, alla civiltà e alle tradizioni della Val San Giacomo, la terza alla figura dell'abate Antonio Foppoli. I materiali sono soprattutto etnografici e raccontano il mondo quotidiano del passato, il lavoro, la vita domestica, gli svaghi. Tra i reperti di questo genere possiamo annoverare non solo oggetti mobili ma anche diversi esempi di arredi fissi costituiti da alcune tipiche stanze interamente rivestite con pannellature di legno, che in Valchiavenna e Valtellina prendono il nome di "stüe". Vi sono pure beni storici e artistici, legati in particolare alla religiosità popolare, alcuni dei quali fanno parte dell'eredità del Foppoli. Minerali e animali imbalsamati illustrano l'ambiente naturale della valle. I reperti archeologici provengono dal Pian dei Cavalli, sito dove campagne di scavo decennali hanno permesso di ritrovare tracce tra le più antiche lasciate dall'uomo preistorico nelle Alpi Centrali.Nove i settori espositivi: la Via Spluga e il Passo sublime; storia politica e istituzionale della Val San Giacomo; l'abate Foppoli e le Cassette dei Morti; arte e letteratura; devozione popolare; l'ambiente dell'abitazione tradizionale, il lavoro femminile e i giochi dell'infanzia del passato; i mestieri tradizionali della Valle (distillatori di grappa, cavatori, falegnami); turismo, alpinismo e sport invernali; le emergenze scientifiche: archeologia, geologia e minerali, l'ambiente alpino. Il primo nucleo delle collezioni del Mu.Vi.S. nasce sulla base di un legato redatto nel 1786 dall'abate Antonio Foppoli, il quale cedeva i suoi beni, compreso il palazzo (Palàzz), oggi sede del museo, al "Consorzio delle Corti", associazione ancora in vigore e pienamente operativa con il nome di "Consorzio delle Frazioni Corti e Acero di Campodolcino". Il sodalizio, denominato in origine "Cassetta" o "Capitale dei morti", nacque da un'antica tradizione religiosa per la quale gli abitanti di Campodolcino conferivano donazioni a un fondo i cui proventi venivano utilizzati per il suffragio dei cari estinti e per azioni di carità e di pubblica utilità (civium commodis). Il museo attualmente costituisce l'emanazione forse più evidente di questa antica associazione, assumendosi come finalità la testimonianza e la salvaguardia della memoria storica e civile del territorio dei comuni della Val San Giacomo e della storica e internazionale Via Spluga. La collezione, nata con l'istituzione del museo, si è ingrandita nel tempo a partire dall'eredità dell'abate Foppoli, raccogliendo materiali eterogenei provenienti dal territorio; le acquisizioni che via via arricchiscono la raccolta sono frutto in parte di donazione dirette da parte di componenti della comunità, in parte di acquisti mirati sul mercato antiquario di pezzi e documenti legati alla storia del territorio e, infine, di depositi di materiali da parte di itituzioni pubbliche. Un moderno allestimento ha portato all'inaugurazione del museo nel 2007, istituzione che affianca all'attività espositiva anche quella della raccolta e conservazione di ogni tipo di documento relativo alla valle. row-b8vx-2q3b~ps83 Collezione del Museo Agusta Samarate Via Giovanni Agusta, 510 Il Museo Agusta raccoglie la testimonianza dell'attività espletata dal 1907 ad oggi da due storiche aziende italiane produttrici di velivoli e motociclette: rispettivamente, la Costruzioni aeronautiche Giovanni Agusta (dal 2000 AgustaWestland Spa), e la Meccanica Verghera Agusta (MV Agusta). Presso il nuovo polo museale, situato in località Cascina Costa a Samarate, sono collocate dodici sale su due piani, per una superficie coperta complessiva di circa 1100 metri quadrati, alla quale sono da sommare le aree degli edifici in sistemazione e all'aperto. Le due sezioni principali del Museo sono dedicate ai cimeli aziendali, costituiti sia da esemplari aeronautico-elicotteristici, sia da moto commerciali e da corsa. Tali apparecchi sono esposti corredati di spiegazioni riguardanti la tecnologia di funzionamento, le tecniche di costruzione e l'evoluzione dei materiali impiegati per la loro produzione. Oltre ai modelli e ai disegni originali, nelle sale sono presenti documenti storici e i diplomi originali dei Campionati Nazionali e Mondiali vinti dal 1952 al 1974 dalle gloriose motociclette MV Agusta. Alla produzione dell'azienda Agusta si uniscono poi alcuni padiglioni dedicati ad altre due grandi aziende aeronautiche italiane, la Caproni Vizzola e la SIAI Marchetti, di cui si possono ammirare numerosi aeromodelli d'epoca. Vi è poi un simulatore che consente ai visitatori di cimentarsi nel pilotaggio di un elicottero. Dal 2012, accanto alla sede museale, è stata inaugurata la sede dell'Archivio storico e della Biblioteca della Fondazione, collocata presso l'adiacente Villa Agusta. Qui è conservato l'archivio storico aziendale che custodisce i disegni, le relazioni tecniche, le fotografie e i filmati d'epoca, il cui accesso al pubblico è consentito su prenotazione o in concomitanza di particolari eventi espositivi. Il Museo Agusta è stato inaugurato il 7 dicembre 2002 e ha ottenuto il riconoscimento regionale nel 2004, ma la storia della sua fondazione affonda nel passato. Nel 1986 infatti, il conte Corrado Agusta decise di donare al Gruppo Lavoratori Seniores Agusta (GLA) una collezione di motociclette prodotte dall'impresa Costruzioni aeronautiche Giovanni Agusta e parte dell'archivio storico aziendale, che vennero raccolte ed esposte in una mostra temporanea presso il Museo della Tecnica e del Lavoro di Gallarate. Dalla necessità di lasciare questi spazi al termine della mostra, nacque il progetto di realizzare un museo che potesse raccontare l'intera storia dell'Agusta e della sua produzione: tale idea venne valorizzata dall'impresa, che dall'anno 2000 è entrata a far parte del gruppo Finmeccanica. Quest'ultima mise a disposizione risorse economiche, professionalità del settore e il sito idoneo dove realizzare gli spazi espositivi, allestiti con rigore scientifico e attenzione agli aspetti illustrativo-didattici. Il museo è attualmente gestito da volontari (circa un centinaio) appartenenti al GLA che con passione si occupano della manutenzione ordinaria, del restauro di motociclette ed elicotteri e che garantiscono l'apertura e l'accompagnamento guidato dei visitatori. row-47hi.sdq5.8838 Allegorie dei cinque sensi Milano Piazza Castello row-8tn6.46c5_zpbs Somma Lombardo Via per Tornavento, 15 Il Caproni Ca.18 fu il primo aereo di concezione nazionale ad equipaggiare interamente una squadriglia italiana. Fu progettato e costruito dal pioniere dell'aviazione trentino, l'ingegner Giovanni Battista Caproni. Il velivolo venne impiegato dal Servizio Aeronautico del Regio Esercito nelle prime fasi delle Prima Guerra Mondiale. Dal punto di vista tecnologico il Ca.18 è un monoplano da ricognizione e il cui peso massimo al decollo raggiungeva i 650 Kg. Le sue dimensioni contenute erano pari ad una lunghezza di circa 7.6 m e di un'altezza di 2.9 m, per un'apertura alare di circa 11 m. Portava un motore rotativo Gnome da 80 cv, di fabbricazione francese, che gli permetteva di raggiungere una velocità massima di 120 km/h. Il Ca.18 era caratterizzato da una struttura realizzata completamente in legno rivestito in tela. La fusoliera era dotata di un abitacolo singolo aperto e adottava dei finestrini laterali per agevolare la visuale del pilota verso il basso, in quanto questo velivolo era destinato al ruolo di osservazione aerea. Posteriormente terminava in un impennaggio classico dotato di una deriva di piccole dimensioni completamente mobile e di piani orizzontali montati a semisbalzo. L'ala era montata medio alta, controventata da un a serie di tiranti in filo d'acciaio che la collegavano ad una torre posta sopra la fusoliera. Particolare era l'adozione di un innesto a baionetta in modo da permettere un semplice smontaggio per agevolarne la rimessa. Il carrello di atterraggio era fisso, dotato di ruote a raggi di grande dimensione ed integrato posteriormente da una struttura posta sotto la parte mediana della trave di coda che fungeva da supporto al pattino di coda. Il Caproni Ca.18 è un biposto da osservazione progettato tra il 1911 ed il 1912 da Giovanni Battista Caproni (1886-1957) detto "Gianni". L'ingegnere trentino aveva iniziato i suoi esperimenti aeronautici nel 1908, anno a cui risalgono i primi voli dell'aliante biplano disegnato e realizzato insieme all'amico e collega rumeno Henri Coanda; tali voli, condotti nei pressi di Blaumal, riscontrarono un certo successo e portarono Caproni a continuare ad interessarsi all'aviazione. Nel corso del 1909 entrò in contatto con molti studiosi e veri e propri aviatori a Parigi, dove assisté anche ad alcuni esperimenti pratici di volo. Il Ca.18 venne costruito nelle officine di Vizzola Ticino (VA), seguendo lo schema introdotto da Blériot, in particolare la fusoliera a traliccio in legno, ma gli impennaggi e le ali non avevano longheroni metallici e centine in legno. Prima della standardizzazione della numerazione dei tipi Caproni era noto come Caproni Tipo 1913, 80 HP e Ca.2. Ne furono derivati il Ca.19, con motore Le Rhone da 80 CV, ed il Ca.20, primo aereo da caccia del mondo, munito di una mitragliatrice, motore da 110 CV e ali ad apertura ridotta. Il primo Ca.18 fu portato in volo nel 1913, forse da Emilio Pensuti (1890-1918). Fu costruito in serie sotto la gestione del Battaglione Aviatori, che aveva rilevato Vizzola dopo la mancata affermazione della Caproni nel concorso militare di Torino del 1913. I Ca.18 furono tutti collaudati entro l'aprile 1914 ed assegnati prima alla 6a e poi alla 15a Squadriglia di Piacenza, dove sostituirono i Blériot per trasformarla in Squadriglia di Parco d'Assedio. Il 5 maggio 1915 un Ca.18 sorvolò Quarto (GE) per l'inaugurazione del monumento ai Mille, dove Gabriele D'Annunzio (1863-1938) lanciava la propria campagna interventista. I Ca.18 operarono per alcune settimane all'inizio della prima guerra mondiale. row-tmxs.zxsr~zne2 Piadena Piazza Giuseppe Garibaldi, 3 Costituisce uno dei vanti del Museo Archeologico Platina questa collana formata da 17 vaghi d'ambra di forma sferoidale e dall'intenso colore arancione, perfettamente conservati. Le dimensioni decrescenti dei vaghi, da quello centrale a quelli laterali, ne fanno un oggetto d'ornamento di estrema modernità, che non dimostra affatto i suoi quasi 4000 anni di età. Rinvenuta nel 1983 in località Lagazzi, presso Piadena, durante lo scavo di una palafitta datata tra la fine dell¿antica e l¿inizio della media età del Bronzo (XVIII-XV sec. a.C.), la collana è uno dei più antichi oggetti in ambra giunti in Italia settentrionale dalle regioni del mar Baltico, dove questa resina fossile si trova in abbondanza. Il ritrovamento di questo manufatto si rivela, quindi, di straordinaria importanza per lo studio dei commerci preistorici, in particolare quello dell'ambra baltica che, attraverso tutta l'Europa, percorrendo la cosiddetta "via dell'ambra", giungeva fino alle regione bagnate dal mar Egeo. Ritenuta capace di tenere lontano il male e di guarire dalle malattie, apprezzata per il suo luminoso colore, tanto da essere collegata al sole, l'ambra, per la sua preziosità, era innanzi tutto una manifestazione dell'elevata condizione sociale di chi se ne ornava. row-2eyy_behz.q8y7 San Gimignano Gallarate Via De Magri, 1 La tela, di forma quasi quadrata, è una veduta del borgo di San Gimignano con rappresentate all'orizzonte le suggestive colline toscane che in quest'opera si fondono con il cielo grazie al colore sfumato azzurrognolo. In primo piano l'artista inserisce le case del borgo che riduce a poche linee di base, fortemente impastate e fratte dal colore. Quest'ultimo, impiegato con tonalità calde e in maniera da valorrizzare le sfumature, gioca con una stesura pittorica del colore stratificato e steso con tratti veloci. Appartenente al periodo novecentista italiano, quest'opera si colloca tra le tela dell'ultimo periodo del maestro milanese. Qui è evidente la mancanza della durezza compositiva dei primi anni di attività dell'artista e la volontà di non inserire eccessive masse volumetriche come aveva fatto in occasione delle opere più radicali del medesimo periodo novecentista. In questo dipinto sembrano coesistere differenti concezioni di paesaggio, che attestano la sua radicata attività in Lombardia e la sua formazione accademica di impianto svizzero-tedesco. L'opera, dunque, insieme ai retaggi della sua giovinezza e della sua più florida attività artistica, risente delle visioni incantate e sognanti dei paesaggi umbri e toscani, che ebbero tanta importanza nelle opere più didascaliche dell'autore. Dalle forti connotazioni intimistiche questo dipinto trova parziale spiegazione nel suo più radicato concetto di veduta naturale che così esprimeva: "in Toscana, piuttosto che in Lombardia, il paesaggio è più secco: è un paesaggio da uomini adulti che hanno percorso un più lungo cammino spirituale. E' un paesaggio formato, come se fosse già dentro lo stile. Ecco perché i pittori lombardi dovrebbero andare in Toscana e viceversa per potersi capire e dipingere". row-93am_bsqi-hfub Cristo in trono con la famiglia dell'imperatore Ottone Milano Piazza Castello row-6qcm~mig3~z5nt Favole di Diana, La Sapienza e la Virtù trionfano sul Vizio Pavia Piazza del Municipio, 2 Il più prestigioso palazzo cittadino, capolavoro del barocchetto lombardo e sede del Comune di Pavia dal 1875, viene realizzato tra il 1726 e il 1732 dall'architetto pavese Giovanni Antonio Veneroni come dimora della nobile famiglia Mezzabarba, destinata ad ospitare le raccolte d'arte precedentemente conservate nel palazzo milanese; affrescato tra il 1731 e il 1737 reca un fastoso partito decorativo aggiornato alle novità del rococò.La residenza pavese, come in uso nel XVIII secolo presso la nobiltà, viene mirabilmente decorata da una equipe di maestranze specializzate in quadrature, paesaggi, prospettive e ornati floreali, al seguito di uno stimato pittore di figura, in questo caso il cremonese Giovan Angelo Borroni, che conferisce lustro al palazzo affrescando gli ambienti di rappresentanza con una leggiadra decorazione a soggetto profano. In particolare lo spettacolare salone da ballo, considerato il suo capolavoro e tra le opere più briose e gradevoli di tutto il Settecento lombardo, gli porterà notevole successo e numerose altre committenze da parte di famiglie patrizie. Il salone con il ballatoio per i musici a mezza altezza, strutturato come quello in palazzo Dugnani a Milano affrescato da Tiepolo nel 1731, reca nella volta una medaglia allegorica con "La Sapienza e la Virtù trionfano sul Vizio" e sulle pareti il ciclo narrativo, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, con le "Favole di Diana", dea della caccia con lancia e faretra e dea lunare con falce di luna in fronte: sulla parete ovest "Diana trasforma Atteone in cervo" e a est "Riposo di Diana dopo la caccia". Le scene figurate, comprese entro cornici in stucco dorato di gusto francese, sono completate da serti di fiori, sfondi paesaggistici con rovine e marine, imponenti statue di divinità a monocromo 'trompe l'oeil' e angioletti a figura intera entro ovali, eseguiti da aiuti del Borroni.L'artista esprime eleganza e grazia, raggiungendo un alto livello qualitativo e originali capacità inventive, costanti del suo stile, quali la passione anatomica, le figure dalle forme allungate, i panneggi sfaccettati, gli incarnati rosa chiaro, cadenze morbide e vigore nel disegno. Alcune figurazioni e fortunate invenzioni anticipano soggetti e stilemi riproposti negli affreschi di villa Alari Visconti a Cernusco sul Naviglio e in quelli del milanese palazzo Clerici, dove Borroni lavora a fianco di Tiepolo. row-jede.sepx~pzx7 Miracolo di San Pietro d'Alcantara Crema Piazzetta Winifred Terni De Gregory, 5 La scena è ambientata davanti ad un altare dove San Pietro d'Alcantara è in atto di benedire un bimbo malato, seduto sulla mensa e sorretto dal padre, un povero pescatore che ha portato in dono un pesce (è posato sul gradino dell'altare). Alla scena assistono stupiti diverse gruppi di donne e uomini, meravigliati dal miracolo che si va realizzando davanti ai loro occhi. Lo sfondo spicca per le luminose architetture che si contrappongono alle zone d'ombra del primo piano. La tela appartiene all'ultimo periodo di attività di Giovan Battista Lucini (1639-1686) e si caratterizza per i decisi effetti luministici che fanno risaltare le figure dei personaggi in forte contrasto col fondo chiaro e luminoso della scena. Si contraddistingue per gli accenti naturalistici, si vedano il volto rugoso del santo, la deformità del bimbo malato e il padre miseramente abbigliato che pare anticipare i pitocchi di Giacomo Ceruti. L'abilità del pittore non si limita agli aspetti compositivi, ma sta anche nella sottile connotazione psicologica che riesce a conferire ai diversi personaggi, mossi da apprensione e stupore verso il miracolo che si sta verificando davanti ai loro occhi. Il dipinto spicca per originalità e soluzioni cromatiche che anticipano soluzioni che si imporranno nella fase iniziale del XVIII secolo. Il dipinto proviene dalla chiesa di San Bernardino infra muros di Crema, dove insieme alla pala con San Pietro d'Alcantara e a San Bernardino da Feltre, ancora in loco, ornava la cappella dedicata ai due santi. row-zmfv~t36s.4cfx Nivola Pavia Piazza Duomo L'abside, che con la cripta risulta essere la parte più antica della Cattedrale, ospita dalla seconda metà del XVII secolo una coreografica scenografia barocca in stucco dorato, una grotta raggiata con nuvole, cherubini, angeli e le figure simboliche della Religione e della Patria, compresa entro un partito decorativo ad affresco e protetta da un'elegante ringhiera in ferro battuto. L'esuberante sacello dorato cela un prezioso tesoro: il reliquiario in argento massiccio, oro e gemme con le Sacre Spine della corona di Gesù, provenienti dalla cappella ducale viscontea in castello. Dopo essere stata trafugata nel 1527, la più grande ricchezza spirituale conservata in città è custodita da sempre, per motivi di sicurezza, in alto nel catino absidale, chiusa da una porta con tre serrature le cui chiavi sono serbate dal Capitolo della Cattedrale, dal Vescovo e dal Sindaco della città. Cristoforo Pecchio, professore di matematica dell'Università di Pavia, progetta nel XVII secolo un'ingegnosa e spettacolare 'macchina' removibile, a forma di nuvola argentata con cherubini e angeli, comunemente chiamata dai fedeli "nivola" che, azionata da un argano, serve a calare lentamente la Sacra reliquia dall'alto del sacello a terra, rendendo solenne e spettacolare la discesa nel coro. Ogni anno, per tradizione dal XVII secolo, nella sola sera di Pentecoste, le Sante Spine vengono calate, esposte sull'altare maggiore in un prezioso trono in argento, portate in solenne processione per le vie cittadine, per poi risalire nel sacello la sera del giorno successivo.La solenne processione istituita nel Seicento dal vescovo Giovanni Battista Sfondrati, vedeva, ogni lunedì di Pentecoste, la partecipazione dei fedeli e delle massime autorità cittadine, che a turno portavano il baldacchino a protezione delle Spine, accompagnati da canti, addobbi, luminarie e spari di cannone provenienti dal Castello.Il rito della "nivola", ancora praticato, appartiene anche alla tradizione liturgica ambrosiana, infatti nel Duomo di Milano, ogni 14 settembre, dal XVI secolo ad oggi, viene celebrata la Festa dell'Esaltazione della Croce con la discesa della nuvola. row-hmhm_wwyv_49x7 Madonna della Misericordia con San Giovanni Battista, Santa Marta, Sant'Orsola, altro santo e i Disciplini Bormio Al centro della parete orientale della navata di S. Spirito, in alto, si trova un affresco rettangolare con la Madonna della Misericordia, ritagliata fra le numerose immagini sacre di epoche diverse, a testimonianza della perdurante devozione popolare. Sebbene lo scorrere dei secoli abbia lasciato tracce evidenti sulle immagini, senza però scalfire il fascino di una figurazione che testimonia il passaggio dalla cultura figurativa medievale a quella del Rinascimento, ancora si può ben cogliere Maria, assistita da quattro angeli in volo, che allarga il proprio manto per accogliere e proteggere tanti piccoli devoti inginocchiati ai suoi piedi, fra i quali spiccano dei Battuti o Disciplini che indossano l'abito bianco con cappuccio appuntito, divisa distintiva dei confratelli della scuola. Ai lati della Vergine assistono alla scena i santi Giovanni Battista e Marta, insieme a due personaggi in ricchi abiti damascati di foggia quattrocentesca, probabilmente sant¿Orsola accompagnata da una figura maschile altrettanto elegante. La piccola chiesa di antica origine che sorge nel centro storico di Bormio ha subito nel tempo alterne vicende, non ultima la conversione in fienile e magazzino a inizio XIX secolo, cui è seguita la trasformazione in abitazione privata nel Novecento. Al suo interno la curiosa immagine della Madonna della Misericordia che protegge i suoi devoti sotto il manto, in particolare i confratelli, riprende in maniera più provinciale un tema diffuso anche in Valtellina, caro alla tradizione devozionale quattro e cinquecentesca. Per la figura centrale e per i due santi di sinistra, Giovanni Battista e Marta, la critica più recente individua la mano di un pittore locale di inizio XVI secolo, distinguendolo dal maestro che dipinge i due santi di destra, riconosciuto in Bartolino de Buri. Suoi tratti distintivi sono il modo di posizionare la figura maschile e la ricca decorazione delle vesti, che si ritrovano molto simili in una Pietà con Santi e donatore già sul portale della canonica di Bormio (attualmente nell'ex ossario detto "sala colonne", a fianco della chiesa collegiata), firmata dall'artista nel 1474. row-e6fh_2jrr~iyw7 Dio Padre, Storie di San Bassiano, San Bassiano, Cristo e gli apostoli, Cristo alla colonna, Madonna del latte, Angeli Lodi Via Cavour, 31 L'ancona smembrata presenta la centro Cristo alla colonna, a destra la Madonna che allatta Gesù Bambino e a sinistra San Bassiano, vescovo patrono di Lodi. Le sculture a tutto tondo sono divise da due pannelli ad altorilievo che narrano alcuni episodi della vista del Santo: il "tentativo del martirio di Bitinio", il "miracolo dell'ossessa" e il "miracolo della cerva". In alto compare Dio Padre e due angeli che trattengono un cartiglio; al di sotto due testne, forse la rappresentazione antropomorfica del Sole e della Luna. Completa la struttura la predella con la raffigurazione, entro nicchie a tutto sesto su colonnine tortili, di Cristo con gli Apostoli. L'imponente ancona lignea, realizzata per la chiesa olivetana di S. Cristoforo in Lodi, ha subito numerosi spostamenti fra la chiesa d'origine e il duomo che ne hanno causato l'attuale frammentarietà. Le fonti archivistiche, infatti, testimoniano una macchina complessa, formata da parti sculture a tutto tondo e parti a rilievo. Nei rilievi con le Storie di San Bassiano, dove il racconto appare essenziale, si nota un allontanamento dalle grazie tardogotiche del polittico di Borgonovo Val Tidone, opera della stessa bottega, a favore di un plasticismo decisamente rinascimentale. row-jzat-22sw_cr7n Stemmi araldici Cesano Maderno Piazza Vittorio Veneto Lo scalone sud-ovest, con spalliera in ferro battuto, congiunge l'estremità meridionale del portico d'accesso con un ballatoio al piano superiore, tramite il quale è possibile accedere a diversi ambienti del piano nobile. La decorazione parietale ad affresco, divisa su più livelli, raffigura una ricchissima serie di stemmi familiari. Sulla parete nord sono raffigurati gli stemmi delle famiglie Archinto, Arese, Visconti, Omodei, Odescalchi e Borromeo. Sulla parete est sono presenti invece gli stemmi delle famiglie Legnani, Cusani, Opizzoni, Gallarati, Melzi, Marliani, D'Adda, Corio, Pettenari, Scanzia. La parete sud riporta, tra gli altri, gli stemmi delle famiglie Arconati e Ghisolfi, cui si aggiunge lo stemma del re di Spagna e duca di Milano. Infine la parete ovest riporta gli stemmi delle famiglie Castiglioni, Panigarola, Natta, Caravaggio, Cavenago, Simonetta, Pirovano, Tornielli, Lampugnani, Lurani, Porro, Scotti, Tolentino, Monti, Visconti Borromeo, Grillo, Caccia e Odescalchi.Sul lato sud è inoltre raffigurata a monocromo un'allegoria dell'Astronomia, a simboleggiare la vicinanza con l'ambiente dell'osservatorio, inquadrata dal partimento architettonico di una finestra dipinta dalla quale si affaccia un contadino con in mano un forcone e un cappello a cencio. Sul lato ovest è infine raffigurata una scimmietta incatenata che rappresenta la vittoria della fama familiare sul male. Le pareti affrescate di Palazzo Arese Borromeo costituiscono un'interessante testimonianza dell'araldica lombarda, e attestano l'importanza raggiunta da numerose famiglie nobili che, a differente titolo, vennero a contatto con la realtà cesanese. Lungi da doversi interpretare come sterili elementi decorativi o inutile ostentazione del potere familiare, gli stemmi sono da intendersi, in obbedienza alle rigide norme araldiche, come tasselli di un più vasto conoscere della società sei-settecentesca e delle sue differenti forme di governo. Come ha ricordato Andreina Bazzi in uno studio sugli stemmi araldici presenti in Palazzo Borromeo commissionato da Regione Lombardia all'ISAL, primo elemento metodologico per la loro conoscenza è costituito dalla "loro identificazione", ottenuta attraverso la ricerca di quale posizione le persone insignite ebbero nel casato, che nel Seicento, con Bartolomeo III Arese, raggiunse grande splendore e ricchezza grazie ad un'accorta politica di alleanze matrimoniali e amicizie.Gli affreschi del secondo scalone per l'accesso al piano nobile (lato sud-ovest), ad esempio, costituiscono un eccezionale esempio per la storia della famiglia Arese Borromeo, che si rispecchia attraverso i suoi stemmi. Tra i molti si ricordano, per le loro particolarità, gli stemmi Omodei e Borromeo, caratterizzati da berrette cardinalizie, e quello Odescalchi, sormontato da una tiara, a testimonianza delle altissime funzioni ecclesiastiche esercitate dai congiunti della famiglia Arese. Bartolomeo Arese aveva infatti sposato Eleonora Omodei, sorella del cardinale Luigi Omodei: da questo matrimonio nacquero un figlio maschio, Giulio, e due figlie femmine, Margherita e Giulia, che verranno maritate rispettivamente con le famiglie Visconti e Borromeo. Notevole è inoltre l'effige dei Cusani, con cinque punti d'oro e quattro di verde sormontato da una corona d'oro antica, inserita in ragione del matrimonio di Elisabetta Cusani con Giberto V Borromeo Arese, ultimo tra i discenti di Bartolomeo ad eseguire lavori all'interno del palazzo.Per quanto invece riguarda la figura del fattore dipinto sulla parete sud, mentre si affaccia da una finestra, essa introduce una serie ben rappresentata all'interno del Palazzo, ovvero quella dei personaggi reali (dei "tipi" umani) inseriti all'interno di narrazioni familiari solenni per collegare le raffigurazioni della gloria degli Arese alla realtà quotidiana, ad un certo gusto per l'ironia e alle potenzialità offerte dall'illusionismo pittorico.Sullo scalone sono presenti due date dipinte - 1659 sopra l'ingresso inferiore e 1663 sopra la porta della sala 48 - da intendersi non come gli estremi cronologici di realizzazione della scala ma come un riferimento cronologico simbolico di realizzazione dell'intera farbbica, racchiusa in un quinquiennio. row-d34q~5s2k-8snb Camera di Ovidio Mantova Viale Te, 13 La Camera di Ovidio, o delle Metamorfosi, è il primo ambiente che si incontra nel percorso di visita a Palazzo Te. La decorazione ad affresco delle pareti è articolata in due fasce sovrapposte: l'inferiore, con pannelli imitanti antichi marmi colorati, e la superiore, giocata sull'alternanza di scene figurate e paesaggi. Le prime a carattere mitologico e in parte ispirate a episodi delle "Metamorfosi" di Ovidio, i secondi per lo più di fantasia. A partire dalla parete di ingresso, procedendo verso destra, i soggetti ispirati alla mitologia sono: Orfeo agli inferi, Punizione di Marsia, Il giudizio di Paride, Bacco e Arrianna, Danza di satiri e menadi, La sfida tra Apollo e Pan, Dioniso ebbro, Menadi che tormentano un satiro. Il soffitto ligneo originale è composto da quindici cassettoni di forma quasi quadrata decorati con ricorrenti motivi floreali. Il camino, dalle dimensioni notevoli rispetto allo spazio generale della stanza, é collocato sulla parete orientale in posizione eccentrica. Sua caratteristica peculiare è l'unione di vero marmo rosso di Verona, componente il corpo, con finti marmi dipinti sulla cappa rifinita in stucco levigato. Al di sotto dell'architrave, una traversa a fascia piana mostra l'iscrizione dedicatoria: F<edericus> G<onzaga> II M<archio> M<antuae> V. I documenti dimostrano che questo ambiente, di probabile destinazione privata, fu decorato durante la prima fase dei lavori del palazzo. L'intera decorazione, ideata da Giulio Romano, é stata realizzata da collaboratori specializzati nella pittura di scene figurate e ornamenti a grottesca. Un mandato di pagamento del 15 ottobre 1527 si riferisce alla realizzazione, da parte di Anselmo Guazzi e Agostino da Mozzanica, del soffitto e del fregio con scene e paesaggi alle pareti. Mentre un altro mandato del 16 febbraio 1528 è relativo al pagamento di Andrea stuchiero di Pezi per l'esecuzione in stucco del fregio del camino. Scene e paesaggi si collocano all'interno di un misurato impianto architettonico, separati da delicate candelabre; la sommità della finta architettura è costituita da mensole e da un lungo cornicione che sostiene idealmente il soffitto. Le specchiature a finti marmi della decorazione inferiore, alternati nei toni del rosso, del verde e del giallo, creano un'illusione di preziosità materica e scandiscono il ritmo dell'osservazione dei riquadri soprastanti. Sulla parete Nord, sopra la finestra, è emerso un frammento di decorazione a girali vegetali di matrice mantegnesca, risalente ai primissimi anni del '500 e appartenente al complesso decorativo delle preesistenti strutture inglobate dal palazzo. row-4nxe.yxki-2me2 Milano Via San Vittore, 21 row-wz4b~g8pw.ie9c Museo "Regina" Mede Castello Sangiuliani, Piazza Repubblica, 39 La Raccolta, costituita dalle opere della scultrice medese Regina Cassolo, in arte "Regina", eccentrica interprete delle esperienze più significative dell'arte del XX secolo, comprende un corpus di 52 sculture, dagli esordi fino agli anni Sessanta, e circa 400 tra disegni, tempere e collages. Sono esposte tutte le sculture: i bronzi e i gessi (Testa di ragazzo, Ritratto di Luigi Bracchi, Scultura Concreta, Fiore a tre petali e Canarino) degli anni Venti, le prime lamiere in alluminio degli anni Trenta, le sculture di chiara appartenenza al movimento Futurista al quale aderisce nel 1933 (Aereosensibilità, Ritratto del nipote, L'amante dell'aviatore, La Danzatrice e La Piccola Italiana) e quelle relative al Movimento Arte Concreta (MAC) degli anni Cinquanta (Ritratto di Mariuccia Rognoni in marmo). I disegni coprono tutto l'arco della sua esperienza artistica e spesso sono progetti per le sculture che fanno parte della collezione. Di indubbia rilevanza, per la complessità dei riferimenti e per le indicazioni sul metodo di lavoro dell'artista, l'opera grafica conservata nel museo, gli studi della natura, i fiori soprattutto, notevoli i collages, i pastelli sui temi del suono delle campane ed una esemplare fase pittorica che si accosta ai modi dell'informale. L'importante corpus di opere permette di ricostruire quasi per intero il metodo di lavoro e il percorso artistico di questo singolare personaggio femminile che ha attraversato, con rara coerenza e singolare capacità di sintesi, le esperienze più significative dell'arte del XX secolo. L'allestimento nella prestigiosa sede espositiva delle opere di Regina, donate dal marito Luigi Bracchi, artista anch'esso, si deve ad Alberto Ghinzani, scultore di fama internazionale e docente all' Accademia di Brera. row-3xxf_54dm-549u Diavolo San Benedetto Po Piazza Teofilo Folengo, 22 La marionetta è stata realizzata con materiali differenti e raffigura un diavolo seminudo. Gli occhi sono in pasta di vetro con iride nocciola. Il muso, caratterizzato da uno spiccato prognatismo, è levigato sugli zigomi e sulla fronte. La sommità del capo, il mento, il collo, l'intero corpo e le gambe presentano solchi irregolari simili a quelli di una ruvida scorza d'albero. Le braccia sono salsicciotti di velluto imbottito fissati alle spalle ed agli avambracci per mezzo di chiodi. Due spalline di cuoio proteggono le articolazioni delle braccia. Dalla cintola alle cosce la marionetta è formata unicamente da un paio di calzoncini in velluto imbottiti, con una lunga coda, pure imbottita, applicata sul retro. Tutte le parti in legno ed in velluto sono dipinte ad olio. Un gancio alla sommità della testa indica che la marionetta era azionata con movimento a ferro. L'unico snodo è al collo. Le braccia sono mosse da fili legati ai polsi. La coda può essere azionata da un apposito filo. Con il termine Teatro di animazione sono indicate tutte le forme di spettacolo dal vivo che fanno uso di oggetti e figure che nella rappresentazione vengono animate artificialmente, a imitazione del movimento vitale. Animare, infatti, significa dare vita. Rientrano in questo ambito: burattini, marionette, ombre, pupi, pupazzi ecc. Il fantoccio-marionetta è un pupazzo animato per mezzo di fili mossi dall'alto. Il marionettista impugna l'estremità di un ferro tenuto verticale ed agganciato all'altro capo sulla sommità della testa. Gli arti, le braccia, le gambe ed il corpo vengono mossi azionando i fili di controllo. L'origine e funzione di burattini e marionette è religiosa; venivano impiegati all'interno dei templi per raccontare i miti e, in questo caso, le marionette rappresentavano dei, semidei e uomini. I reperti più antichi che si conoscono risalgono all'VIII e al VII secolo a. C. e sono stati ritrovati in Grecia.Questa marionetta fa parte della Collezione raccolta in molti anni da Gottardo Zaffardi. row-bdti~treu~mht9 Cremona Piazza Marconi, 5 Questo documento ci consente di prendere parte a un avvenimento doloroso della vita di Antonio Stradivari, la morte della prima moglie, Francesca Ferraboschi, avvenuta nel 1698. Si tratta dell'elenco delle spese sostenute per le esequie, dal quale si deduce che la cerimonia, svoltasi nella chiesa di San Domenico a Cremona, dove avvenne anche la sepoltura, dovette essere piuttosto sontuosa, a dimostrazione della florida situazione economica del maestro. Partecipano, infatti, alla funzione religiosa, 14 cappellani e un chierico, i padri delle principali chiese della città, misericordini, mendicanti "col cappello" e portatorce, elencati in successione, con l'indicazione a fianco della somma dovuta a ciascuno. Alla fine della lunga lista, compilata dal funzionario addetto a questo ufficio, leggiamo l'importo totale della spesa, che è di 186 lire. In calce al documento, Stradivari annota di suo pugno di aver ottenuto una riduzione di 8 lire sulla somma dovuta e appone la sua firma. In origine il documento era conservato presso l'Archivio del Comune di Cremona, in un fondo riservato alle esequie avvenute in città nell'anno 1698. Nel 1937 risulta essere esposto in una vetrina della Sala Stradivariana presso il Museo Civico, insieme agli altri cimeli liutari della collezione civica. Dopo aver subito numerosi spostamenti, è ora in mostra al Museo del Violino. row-cjah-u8mz.djvy Apparizione del carro solare all'Aurora, Amori degli dei Cesano Maderno Piazza Vittorio Veneto Collocata al centro dell'edificio di massima rappresentanza, sotto la loggia scenografica dell'appartamento di Renato III, la "Sala Aurora" costituisce il vertice di un articolato apparato iconografico che sapientemente unisce i temi della mitologia classica alla cultura biblico-giudaica e politico-sociale del Seicento.Fulcro della decorazione della stanza è un medaglione dipinto ad affresco, raffigurante il carro del Sole, inserito al centro di una decorazione parietale in oro e cornici azzurre su fondo bianco. La scena mostra il dio Apollo incedere su una quadriga dorata e riccamente decorata, trainata da quattro maestosi cavalli bianchi. Davanti a lui, sul lato destro del dipinto, l'Aurora danza con le braccia levate verso l'alto e le mani piene di fiori, circondata da amorini. Sulla sinistra della composizione la dea Minerva indirizza verso il carro il giovane Giulio II Arese, posto di spalle rispetto all'osservatore, che regge nella mano destra una fiaccola accesa, simbolo del suo desiderio di conoscenza. Nelle vele e lunette circostanti sono raffigurati a monocromo figure di satiri ed episodi che hanno per tema gli amori delle divinità mitologiche. La sequenza delle vele, non tutte conservatesi fino ad oggi, comprendeva in origine: "Apollo e Dafne", "Bacco e Arianna" (scena quasi completamente scomparsa), e la raffigurazione di "Eroti e la Capra Amaltea". La serie di lunette, invece, era composta dal "Trionfo di Arianna" (scena scomparsa), "Diana e Atteone", "Orfeo ed Euridice", "Venere e Adone", "Arianna e un erote", "Trionfo di Galatea", "Arione, Giove e Callisto", "Pan e Siringa sorpresi da Apollo" e la "Divinizzazione di Arianna". La scena principale, posta al centro della volta, raffigura l'"Apparizione del Carro solare all'Aurora" ed è stata attribuita a Giovanni Stefano Doneda detto il Montalto (1608-1690). Il dipinto simboleggia la salda conoscenza e la grande saggezza raggiunta dalla famiglia Arese, che governa e amministra con sapienza (perché fonda il suo operato sulla tradizione e sulla storia), conducendo Cesano Maderno e lo Stato di Milano verso una nuova "primavera/aurora" fertile e giocosa, ovvero verso una nuova era di felicità. E' infatti Minerva, dea dell'intelligenza e della saggezza a guidare Giulio II Arese, figlio di Bartolomeo, verso la luce della conoscenza rappresentata dal carro del Sole, così come sarà l'intelligenza a guidare il Re di Spagna nella scelta di fidati consiglieri per mantenere il suo regno. Nel dipinto si sposano quindi la gloria del casato con l'ideologia di stato: nel difficile momento storico successivo alla pace dei Pirenei del 1659, la famiglia Arese ha il coraggio di ipotizzare per la monarchia iberica non il declino, come avrebbe desiderato buona parte dell'Europa, ma addirittura un futuro radioso, nel quale è facile scorgere la rinnovata speranza fornita dalla nascita di Carlo II (1661) che, dopo una lunga serie di lutti fra la prole reale, aveva scongiurato il rischio di estinzione della stirpe degli Asburgo di Spagna.Il medaglione centrale è inserito in una decorazione in oro e cornici azzurre su fondo bianco di origine settecentesca, attribuibile a Mattia Bortoloni (1695-1750) ed eseguita, probabilmente, per celebrare le nozze tra Renato III Arese Borromeo e Marianna Erba Odescalchi, avvenute nel 1743. L'impianto decorativo, procedendo dall'angolo nord orientale in senso orario, comprende un ciclo di vele alternate a lunette di più modeste dimensioni dipinte, nelle quali il tema classico dell'iconografia dei satiri danzanti viene unito alla raffigurazione degli amori delle divinità mitologiche. Prima di tale decorazione settecentesca alle pareti erano appesi otto quadri che ritraevano a figura intera altrettanti sovrani spagnoli e lo spazio delle lunette era occupato da dodici dipinti ottagonali con ritratti di principi, motivo per cui la sala era detta anche "Sala grande dei ritratti". row-2uti.snaa~agjk Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli Milano Piazza Castello La consistenza della Raccolta non è determinabile con esattezza. Il patrimonio è stimato intorno a un milione di immagini a stampa. La raccolta è strutturata in numerose sezioni individuate per iconografia (Ritratti; Ritratti di artisti di teatro; Avvenimenti Storici; Piante e Vedute; Carte geografiche; Ornato; Costumi, gridi di piazza, mode; Arti, mestieri, professioni; Soldatini; Mezzi di trasporto; Teatro e Spettacolo; Sport caccia e pesca; Delitti e pene; Araldica e bandiere; Stampe popolari sacre; Stampe popolari profane; Raffigurazioni di scuole, tavole didattiche e insegne di accademie), per autore (Raccolta Mitelli; Enrico Baj), per epoca (Incisioni artistiche antiche; Stampe moderne), area di produzione (Stampe giapponesi; Epinal), tecnica (Litografie), e ancora per tipologia e destinazione d'uso (Giuochi; Decorazione del libro; Calendari e almanacchi; Carta moneta e carte valori; Ex libris; Biglietti da visita; Fogli volanti con sonetti, poesie ed epigrafi; Partecipazioni, avvisi, ringraziamenti, auguri e inviti; Passaporti diplomi, certificati e documenti vari; Tessere e biglietti; Pubblicità; Liste di vivande; Carta da lettera figurata, buste, intestazioni di atti del periodo repubblicano-napoleonico; Ventole e ventagli; Carte colorate e carte da parato; Manifesti; Cartoline; Santini; Scatole di fiammiferi Saffa; Figurine Liebig; Involucri alimentari; Matrici xilografiche e di metallo). Conserva inoltre diversi fondi (Beretta; Luigi Cagnola; Valfredo Vizzotto; Renzo Mongiardino; Eugenio e Mario Quarti; Alessandro Mazzucotelli; Emma Calderini). "Questo Istituto del Castello Sforzesco di Milano, notissimo internazionalmente come archivio iconografico, è stato fin dall'origine concepito per illustrare, con l'ausilio delle stampe, tutte le manifestazioni della vita umana, grazie alle infinite serie di tavole documentarie e ai fogli popolari che costituiscono il più vasto patrimonio formato da Achille Bertarelli (Milano 1863-1938)" (C. Salsi, Le stampe artistiche della Bertarelli. All'origine delle collezioni", in "Stampe di maestri", Milano 1998, pp. 12-17, al quale si rimanda per un profilo storico più completo). Tuttavia, rispetto al disegno originale del suo fondatore, pur conservandone l'impostazione generale, l'Istituto nel tempo si è arricchito, attraverso donazioni e acquisti, di una eccezionale quantità e varietà di tipologie di stampati e materiali grafici, prodotti dal XV secolo ad oggi, dalla stampa popolare a quella documentaria, alla grafica d'arte e al graphic design, che lo rende oggi un soggetto unico nel panorama italiano.Il Civico Gabinetto delle Stampe è stato inaugurato nel 1927 e intitolato ad Achille Bertarelli dopo la sua morte, avvenuta nel 1938. Bertarelli, come spiega C. Salsi (cit., p. 13), "ne aveva promosso la fondazione presso l'amministrazione comunale, non solo per accogliere e valorizzare degnamente la propria raccolta iconografica (donata alla municipalità nel 1925 e ricca di oltre trecentomila opere), ma anche per costituire una nuova struttura, specializzata e dotata di metodologie appropriate per lo studio e la conservazione delle stampe, che ancora mancava nella pur ampia compagine degli enti culturali della città. Infatti, il patrimonio di incisioni già di proprietà del Comune, fino ad allora, era un insieme scarsamente fruibile perchè disperso in varie sedi.". Successivamente alla costituzione del Gabinetto delle Stampe le diverse istituzioni civiche, quali ad esempio il Museo del Risorgimento, il Museo Navale, la Galleria d'Arte Moderna (da cui provengono ampia parte dei manifesti e numerosi capolavori dell'Ottocento italiano) e l'Archivio Storico Civico, vi fecero confluire i propri fondi grafici.Alla Raccolta Bertarelli furono anche destinate le stampe provenienti dall'acquisto, effettuato dal Comune di Milano nel 1935, della prestigiosa raccolta del principe Luigi Alberico Trivulzio.Ha inoltre potuto beneficiare di considerevoli donazioni, come quella del capitano Adolfo Pesaro (1932), o quella di Filippo Grandi (1957), erede della rinomata stamperia milanese "Antonio Grandi".In tempi più recenti si segnalano il legato testamentario di Lamberto Vitali (1994, che comprende tra l'altro trentadue fogli di G. Morandi), e il deposito Lampugnani di proprietà del Museo Poldi Pezzoli (1997, per un totale di 1193 stampe artistiche).Per quanto concerne la formazione dell'originale nucleo bertarelliano, si possono annoverare "oltre ai più famosi fondi delle stamperie Remondini (acquisiti circa nel 1900, attraverso la ditta Menegazzi di Bassano) e Soliani di Modena (acquisiti intorno al 1910, attraverso il negozio Barelli di Milano) anche il fondo totale della successione ereditaria di Antonio Milani, 'mercante di stampe a Venezia, al ponte dell'angelo', anno 1895 e una serie di piante e vedute di città e carte geografiche dalla raccolta di Paolo Gaffuri di Bergamo, pervenute, circa nel 1920" (Salsi cit., p. 14). row-jyfd~xhyb~a893 Casalzuigno Viale Camillo Bozzolo, 5 Posto al piano terra in posizione centrale dell'ala prospiciente il parterre e la Corte d'onore, il Salone da Ballo costituisce un sontuoso ambiente caratterizzato da ampie vetrate e aperture che trasformano questo luogo in un poliedrico spazio dalle molteplici possibili scenografie. Feste danzanti, ad esempio, potevano avere prodromi o atti d'inizio all'aperto o collegarsi con lo scalone monumentale, a sua volta direttamente connesso alla Galleria e alle sale del piano superiore. Il Salone da Ballo è oggi un raffinato ambiente nel quale sono evidenti le ricercatezze formali e ornamentali, che sfociano in decorazioni trompe-l'oeil, che cercano di ingannare l'occhio facendo apparire più ampio il volume architettonico esistente.Al centro della sala domina l'affresco della volta raffigurante le personificazioni della Pace e della Giustizia, che costituiscono l'evocazione biblica desunta dal Salmo di Davide nel quale è scritto: "giustizia e pace si baceranno". Le due figure, incoronate di ulivo e alloro, avvicinano le teste, circondate da coppie di amorini che reggono tra le mani il ramo d'ulivo della Pace e la bilancia e la spada della Giustizia, simboli di imparzialità e potere poiché, come affermava Cesare Ripa nel suo trattato di Iconologia, la giustizia retta "non si deve piegare da alcuna parte, nè per amicizia, nè per odio di qual si voglia persona".Nel suo insieme la volta rappresenta una finta architettura prospettica imposta su un imponente cornicione dipinto sormontato da sette moderni giovani "omeoni" seminudi che, a loro volta, sorreggono la cornice mistilinea centrale.La decorazione a trompe-l'oeil è presente anche nelle pareti laterali, nelle quali si susseguono ampie cornici dipinte che un tempo ospitavano tele e quadri oggi non può esistenti, a testimonianza dei numerosi furti e del lungo periodo di declino che ha subito la villa prima che divenisse proprietà del FAI. Alternate ad esse finte incorniciature marmoree e dipinte decorazioni in stucco inquadrano le porte, reali o solamente disegnate, dotate di un particolare verismo.Sotto le finestre paesaggi geografici dipinti costituiscono lo sfondato decorativo di schiacciate balaustre architettoniche che, sebbene di piacevole realizzazione, risultano qualitativamente assai inferiori alle altre parti affrescate.Per lasciare libertà alle danze nello spazio centrale, anche in origine gli arredi erano radi e disposti lungo le pareti. Oggi, a causa delle citate vicissitudini storiche, dell'arredamento originario non rimangono che pochi elementi, tra i quali i tavoli barocchi da parete. Gli altri arredi, costituiti da una serie di sedie del XVIII secolo e la guarnitura ottocentesca del camino, sono stati collocati dal FAI nell'ambito del progetto espositivo della Villa, che ha come scopo quello di far percepire il raffinato ambiente che avvolgeva chi vi abitava o chi vi si recava in visita. Sebbene alcune vicissitudini storico-architettoniche di questo ambiente siano ancora da chiarire, appare certo che questa sala fu rimaneggiata all'inizio del XVIII secolo dalla famiglia Della Porta per conferire ulteriore nobiltà all'originaria villa cinque-seicentesca e per adeguare la dimora al nuovo status nobiliare. L'affresco centrale, elemento significativo dell'impianto decorativo settecentesco e della ritualità scenografica legata al vivere in villa, fu realizzato nei primi due decenni del secolo e fu concluso certamente entro il 1714. Tale data, infatti, celebra il matrimonio fra Giovan Angelo III Della Porta e Isabella Giulini e festeggia la Pace di Rastadt, che vide l'assegnazione del Ducato di Milano agli Asburgo d'Austria.Divenuta Villa Della Porta Bozzolo proprietà del FAI anche il Salone da Ballo fu oggetto di un cospicuo intervento di restauro che si concluse nel 2001. Qui i restauratori si concentrarono principalmente sulla rimozione dei depositi stratificatisi nel tempo, alla rimozione delle efflorescenze saline provocate dalla presenza di acqua nelle murature e nel consolidamento della pellicola pittorica reintegrata nelle sue lacune con la tecnica dell'acquerello. row-fras~3iwt~m3yh Angelo Brescia Via dei Musei, 81/b L'angelo è raffigurato a mezzo busto, in posizione frontale, con il viso rivolto a destra. A sinistra in alto, in primo piano, si scorge parte di un libro e sullo sfondo un pilastro modanato. La figura indossa una veste chiara, dall'orlo finemente decorato e arricchita da un fisciù verde; sulla spalla sinistra è poggiato un manto rosso. Il dipinto compare sul mercato antiquario fiorentino nel 1821, descritto come Ritratto di giovane eseguito da Raffaello Sanzio. Acquistato da Paolo Tosio con il certificato di autenticità dell'Accademia fiorentina, grazie all'interessamento di Teodoro Lechi, da allora affianca il Cristo benedicente, l'altra opera di Raffaello già nelle collezioni del conte Tosio. Ma perché il piccolo quadro viene identificato inizialmente come Ritratto di giovane? Sebbene sia facile riconoscere oggi la figura di un angelo, anche se frammentario, connotato dal bel volto leggermente reclinato, il profilo regolare e i boccoli descritti a punta di pennello, nonché dall'attacco delle ali, tutte le parti che denunciavano il suo stato di frammento erano state ricoperte con uno spesso strato di vernice scura per poter vendere il dipinto come opera "autonoma". Così manomessa l'opera è acquistata dal conte Tosio, per entrare verso la metà dell'Ottocento nelle collezioni civiche bresciane. Solo nel 1912 Oskar Fischel, profondo conoscitore di Raffaello, individua nel Ritratto il volto del primo angelo a sinistra della pala con L'incoronazione di S. Nicola da Tolentino dipinta per la chiesa di S. Agostino a Città di Castello. Sottoposto a restauro e alla contestuale rimozione della vernice nera dal fondo, la figura ha rivelato la presenza dell'ala e di altri elementi pertinenti alla composizione originaria.Fortemente danneggiata in seguito al terremoto che nel 1789 distrugge la chiesa umbra, la pala era nota come "pala Baronci" dal nome di colui che nel Cinquecento la commissiona ad Evangelista da Pian di Meleto, maestro operoso in Urbino, e al diciassettenne Raffaello, per decorare una cappella all'interno della chiesa. Dopo il terremoto, le parti meno danneggiate, regolarizzate nella forma e ridotte nelle dimensioni, sono trasferite a Roma per volontà del papa Pio VI. Conservate per qualche tempo nell'appartamento papale in Vaticano, successivamente i frammenti risultano dispersi tra la chiesa di S. Luigi dei Francesi, il mercato antiquario e la collezione dei Borbone a Napoli.La tavola bresciana rappresenta un tassello fondamentale per la ricostruzione dell'attività dell'Urbinate in quanto si tratta della sua prima opera documentata: seppur associato ad Evangelista da Pian di Meleto che firma il contratto, nei documenti relativi alla commissione Raffaello è definito "magister". Dopo il terremoto, un modesto pittore di nome Ermenegildo Costantini esegue una copia parziale della pala (relativa alla sola la parte inferiore) tuttora conservata nella Pinacoteca di Città di Castello, affinché nella chiesa rimanesse memoria dell'opera originale. Proprio il confronto con quest'ultima ha permesso a Fischel di identificare l'Angelo in esame e riconoscerne un altro, quando a Parigi nel 1986, a Silvie Béguin si presentò l'occasione di acquistare per il Louvre un "Ritratto di giovane" con caratteristiche simili al ritratto acquistato dal conte Tosio. row-snxs_hgaw.77s9 Museo del Risorgimento Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Ospitata in tre sale al secondo piano dell'ala est del castello l'esposizione procede secondo un ordine cronologico, con al suo interno approfondimenti tematici; l'ambito è prevalentemente dedicato alla storia locale, analizzata in stretto rapporto con le vicende storiche nazionali. La I sala, dopo un accenno alla dominazione asburgica, è dedicata agli anni francesi e al Regno Lombardo Veneto. Sono illustrati aspetti della vita economica, culturale e politica della città nel corso del XIX secolo. Un inserto ricorda la statua equestre del Regisole, simbolo di Pavia.La II sala è dedicata alla famiglia Cairoli, eroi pavesi volontari nelle file garibaldine.Nella III sala uniformi, armi, equipaggiamenti degli eserciti, piemontese-italiano, austriaco, francese e dei corpi volontari garibaldini. Segue il mito Garibaldi che incarna l'eroe per antonomasia.I bozzetti di Bistolfi, Abate, Pellini e Bordrini per il monumento ai Cairoli eretto in piazza del Lino a Pavia rimandano al concorso indetto in città nel 1895. Vengono ricordate alcune personalità locali di spicco: Benedetto Cairoli, Urbano Pavesi, Tullio Brugnatelli. Uno spazio tematico è riservato alla Massoneria tardo ottocentesca, alla Croce Rossa e alla I Guerra mondiale. Ospitato inizialmente in palazzo Mezzabarba, sede del Municipio cittadino, il patrimonio museale viene continuamente incrementato con cospicue donazioni di cittadini, legati e acquisti, tanto che nel 1894 è creato il Museo di Storia Patria che vede riuniti gli istituti artistici, archeologici e storici e nel 1900 è trasferito in palazzo Malaspina in coabitazione con le raccolte d'arte e la biblioteca. Al 1919 risale il lascito della famiglia Cairoli che annovera anche alcuni mobili della villa di Gropello. Trasferito in castello nel 1948, sarà nel 1959, in occasione della mostra "Da Montebello al Volturno" curata da Mino Milani che, con il concorso e le donazioni dei cittadini, il museo assumerà la fisionomia pressochè definitiva. Nel 1982 in occasione delle celebrazioni garibaldine la raccolta viene ulteriormente ampliata e riallestita nel 1997.Una menzione particolare spetta al fondo fotografico con 1200 esemplari. row-3fwm.mfxk_zvs2 San Giovanni Battista Vimercate Via Vittorio Emanuele II, 53 La figura di S. Giovanni Battista, scolpita in marmo a tutto tondo e impostata su una base quadrangolare, si presenta con una posa sottolineata dal disegno ondulato delle pieghe del manto, appoggiato sulla spalla e panneggiato intorno alle gambe. In accordo con la descrizione del Vangelo (Marco. 1, 6), al di sotto del manto, si dispiega una veste di crine di cammello, descritta con un tessuto di ciocche ondulate. Il volto del santo presenta uno sguardo ispirato, segnalato dal taglio degli occhi, dalle pieghe espressive definiscono gli angoli del naso, mentre la fronte e le guance sono caratterizzate da una maggiore rigidità. La chioma scende fluente ai lati del volto e la lunga barba è divisa in due ciocche, a forfecchio. Il labbro è evidenziato da una stesura rosata, traccia di un'antica policromia. Con la mano sinistra il Battista regge un medaglione raffigurante l'agnello mistico, fornito di aureola e vessillo crociato, verso cui punta l'indice della mano destra, per tradurre in un'immagine di immediata comprensione la frase pronunciata alla vista di Cristo, giunto sulle rive del Giordano per essere battezzato, e che è talora registrata su un cartiglio nella mano del santo: "Ecce agnus dei qui tollit peccata mundi" (Gv. 1, 29). La statua proviene dal cupolino del fonte battesimale settecentesco della Chiesa di S. Stefano a Vimercate. La finitura a tutto tondo suggerisce che la scultura non fosse originariamente collocata contro un piano di fondo, ma fosse posta in posizione isolata. L'iconografia, ad esempio, suggerisce una sua collocazione al centro di una vasca battesimale - come quella ospitata un tempo nella Chiesa vimercatese di S. Maria e trasferita in S. Stefano poco prima del 1634.L'attribuzione dell'opera a uno stretto collaboratore di Bonino da Campione, con una datazione intorno al 1375-1385, è frutto delle accurate ricerche condotte dalla critica negli ultimi anni. Sulla base di un'attenta analisi iconografica e stilistica, si è potuta dimostrare l'assoluta originalità dell'opera nel panorama della scultura lombarda del XIV secolo, solo a tratti confrontabile con la statua del Battista del tabernacolo di Porta Nuova a Milano e attribuita al Maestro della lunetta di Viboldone con una datazione poco successiva al 1350, consentendo di avvicinare la statua ai modi di Bonino da Campione, lo scultore che con il Maestro della lunetta di Viboldone e con Matteo da Campione condivide il ruolo di più qualificato interprete della linea di maturazione del linguaggio campionese in direzione del gotico toscano.A una considerazione attenta, notevoli risultano le affinità della statua con le opere di Bonino e dei numerosi scultori della sua cerchia, specie con quelle riferibili a una fase avanzata: l'acconciatura a lunghe ciocche, le pieghe espressive agli angoli del naso, la forma della canna nasale e dell'arco sopraccigliare. row-quqn~i94s.3mdw Como Via Castelnuovo, 9 La macchina si compone di due parti fondamentali. La prima è la grande vasca in legno a fondo piatto, detta "barca", destinata a essere riempita con la miscela colorante. La seconda è il meccanismo collocato sopra di essa, composto da un aspo manovrabile con una puleggia, su cui veniva fatto scorrere il tessuto di seta man mano che veniva immerso nella vasca sottostante. La barca da tintura fu utilizzata dalla Tintoria Pessina di Como a partire dai primi anni del Novecento. Da questa industria proviene il nucleo di macchinari tessili e di stumenti di lavorazione da cui prese avvio il Museo Didattico della Seta nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso. row-xi3j~xk95~i7yx Pietà Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 La scultura a tutto tondo raffigura la Pietà con la Vergine seduta e avvolta in un ampio mantello che le copre anche il capo. Tiene sulle ginocchia il corpo del Figlio oramai morto. La statua, pur essendo di fattura non raffinata e piuttosto popolare, è riferibile all'ambito salisburghese della seconda metà del Quattrocento. row-28mg_6f6y~xjr2 Museo Civico della Calzatura Pietro Bertolini Vigevano Castello Visconteo Sforzesco, Piazza Ducale, 20/ Palazzo Merula, Via Merula, 40 La collezione comprende numerosi esemplari originali di calzature che spaziano dalla celebre pianella, con alta zeppa di legno ricoperta di pelle, del 1490 circa calzata da Beatrice d'Este (ospitata nella cosiddetta Stanza della Duchessa sala multimediale inaugurata il 26 giugno 2011), alle pantofole veneziane del Settecento e alle scarpine da ballo dell'Ottocento. La sezione Etnica conserva calzature di uso quotidiano e modelli rituali, la cosiddetta Wunderkammer espone modelli curiosi ed estrosi creati non per essere indossati ma come 'divertissement' o provocazione. Sono esibite anche calzature appartenute a personaggi illustri, come Papa Pio XI e Marilyn Monroe con le sue celebri décolleté a tacco 11 cm. Fiore all'occhiello del Museo è proprio il prototipo del "tacco a spillo", nato a Vigevano nel 1953 che servirà da modello per tutto il mondo, celebri anche le sovrascarpe in gomma e le scarpe da ginnastica degli anni Trenta.La sezione dedicata a "Stile e design" espone modelli dei più famosi stilisti (Christian Dior, Manolo Blahnik, Gucci, Chanel, Jimmy Choo, René Caovilla e molti altri) e costituisce la parte più innovativa del Museo. Una sezione è dedicata anche agli stilisti emergenti del design internazionale. Il Museo documenta l'assoluto primato di Vigevano nella produzione delle calzature che, nata a livello artigianale, si sviluppa notevolmente nella seconda metà del Novecento assumendo una dimensione industriale di eccellenza, in particolare negli anni del boom economico. Agli anni Cinquanta-Sessanta risale la fame di "capitale internazionale della calzatura", quando venivano prodotte annualmente oltre 21.000.000 paia di scarpe, destinate principalmente all'esportazione. row-7umw~3pkh~fhb7 Nascita di Maria Vergine Gandino Piazza Emancipazione I due arazzi appartengono alla serie illustrante gli "Episodi della vita della Madonna", nella quale le scene sacre sono quasi sempre inquadrate entro cornici decorative formate da trionfi di fiori e frutti, putti, figure allegoriche e mitologiche, scene di caccia e motivi ornamentali vegetali. Nell'arazzo raffigurante la "Nascita della Vergine" vi è Sant'Anna in un letto sormontato da un ricco baldacchino attorno al quale sono affaccendate parenti e ancelle, mentre in primo piano un gruppo di tre donne curano la neonata. La scena del "Transito della Vergine" fa riferimento alla morte della Vergine, che avvenne, secondo la Legenda Aurea (sec. XIII), al cospetto dei dodici Apostoli radunati miracolosamente al suo capezzale. Un Apostolo sta mettendo un cero acceso nella mani della Vergine, secondo l'antica usanza di mettere in mano ai moribondi una candela, la cui luce è simbolo della fede cristiana. San Giovanni è l'unico seduto sulla pedana del letto. A destra un altro apostolo (forse San Pietro) regge il libro a celebra il rituale funebre. Questi arazzi fanno parte di una serie di sei esemplari, dedicati a episodi della vita della Madonna e commissionati intorno al 1580 agli arazzieri fiamminghi Mattens dal gandinese Bartolomeo Castello, personaggio facoltoso e insignito di importanti cariche, in uno dei suoi numerosi viaggi nelle Fiandre. Prodotti in seno alla manifattura di Bruxelles, una delle maggiori del Rinascimento europeo, gli arazzi furono eseguiti espressamente per essere appesi alle pareti del presbiterio della quattrocentesca chiesa di Santa Maria. Gli arazzi raffiguranti la "Nascita della Vergine" e la "Morte della Vergine" recano la sigla di Heinrich Mattens, fratello minore di Cornelis Mattens che firmò gli altri quattro ("Presentazione al tempio", "Angelo annunziante", "Madonna annunciata", "Visitazione"). Tutti gli arazzi sono caratterizzati da ampie composizioni con opulente architetture incrostate di marmi e con ampi squarci di paesaggio dai boschi rigogliosi secondo il gusto fiammingo. La narrazione è affidata a numerose figure dinamiche abbigliate con ampi panneggi di stampo classico. L'ignoto autore dei cartoni del ciclo di arazzi gandinese si ispirò probabilmente alla serie di incisioni "Virginis Mariae vita" di Adriaen Collaert, con la quale si riscontrano affinità soprattutto nei due esemplari raffiguranti la "Nascita della Vergine" e la "Visitazione". row-x9t4~jz2b.6xcg Paesaggio Lissone Viale Padania, 6 L'opera del grande artista lombardo allievo di Arturo Martini, si caratterizza per il cromatismo assai ricco e suggestivo composto di azzurri intensi, rossi brillanti, verdi cangianti, ocra e bianchi. Gli impasti puri e densi sono stesi con rapidità del segno, a cui si giustappongono scritte a pennello nero, con l'aggiunta di inserti di carte incollate, frammenti di articoli e parole ritagliati da giornali. Nel dipinto prevalgono l'ispirazione favolistica e il gusto pittoresco e popolare, caratteri assai frequenti nell'opera di Gino Meloni che prendono forma nel tema del paesaggio rielaborato mediante toni lucidi e ironici. Il fervore immaginativo che domina l'opera rimanda al periodo più spensierato in cui l'artista si abbandona all'estro del cromatismo più brillante e alla predilezione per i soggetti collegati al vivere quotidiano. Nella produzione intorno al 1970 la ricchezza percettiva dominata da spontaneità e meraviglia, già presente nelle prime opere del Meloni, è accresciuta da maggiore vena fantasiosa e intima, ricca di stupori, sensazioni e memorie. In questa composizione emerge una certa incongruenza spaziale, dove si mescolano elementi figurativi e sprazzi di una realtà rievocata. Si tratta di una rappresentazione a metà tra il reale e il fantastico, in cui prevale quel senso di cronaca e del racconto strettamente legato alla vicenda personale dell'artista che si sofferma e attinge la sua ispirazione anche dal più piccolo avvenimento, quasi come si trattasse di appunti annotati sulle pagine di un diario ricolmo di riferimenti e ricordi affettuosi. L'opera è avvicinabile al ciclo più recente dei Paesaggi e delle Vetrine, realizzati a partire dai primi anni Settanta, dove si scorgono apparizioni di scorci urbani e naturalistici, evocati anche tramite scritte a pennello, e inserti realizzati a collage con vari materiali che vengono riproposti in modo imprevedibile. I luoghi, le situazioni e i dettagli, dunque, si susseguono senza un'apparente logica, né spaziale né temporale, sviluppando una narrazione fantasiosa che sembra priva di un inizio e di una fine. La realtà quotidiana è raccontata attraverso la moltiplicazione di riferimenti e immagini, frammenti di situazioni realmente vissute e corredate da simboli, reali e fiabeschi, che si compenetrano gli uni negli altri in un tessuto compositivo totale, come in una visione caleidoscopica. row-7pt7_fr56_gynb Varenna Viale Giovanni Polvani, 4 Su un alto basamento modanato con decorazioni a ornati vegetali, poggiante su tre sostegni antropomorfi, si innalzano tre figure di satiro, a tutto tondo, con funzione di cariatidi che reggono la mensola contenente tre cassetti con testa di mostro a rilievo; alzata con pannello verticale decorato con scena di raccolta dell'uva, affiancato da due figure di grifi su cui poggia sottile mensola e coronamento con putti vendemmianti che incorniciano scudo ovale, sovrastato da foglia accartocciata. L'arredo, di notevole importanza, apparteneva al tedesco di Lipsia W. E. J. Kees, che fu proprietario di Villa Monastero dal 1897 al 1906 e che operò notevoli interventi nella dimora, ristrutturandola e ammodernandola, inserendo, tra l'altro, anche un impianto di riscaldamento a bocchette di aria calda, insieme ad un altrettanto efficiente impianto di illuminazione all'avanguardia. Kees arredò la propria residenza di villeggiatura sul Lago di Como secondo il proprio gusto d'oltralpe. Ogni ambiente di Villa Monastero presenta un connubbio assai studiato in cui mobili, arredi e decorazioni si integrano riproponendo un diverso stile del passato, secondo il gusto eclettico dell'epoca. La Sala Nera, per esempio, è caratterizzata dalla presenza di mobili di Guggenheim, in stile rinascimentale e tardo manieristico (i laboratori di Guggenheim, la cui sede era nel prestigioso Palazzo Balbi sul Canal Grande a Venezia, erano, infatti, specializzati nell'esecuzione di mobili "in stile", che venivano esportati in America, Austria, Germania, Francia, Inghilterra e addirittura in Sudamerica). L'ornamentazione della sala è studiata interamente in stile neorinascimentale: decori con putti alati compaiono perfino sulla carta da parati. row-vwfe~ca9r.gx3m Samarate Via Giovanni Agusta, 510 L'elicottero Agusta A103 è uno dei primi esemplari progettati dall'azienda Agusta. Realizzato sia nella parte strutturale e di forma, sia nella composizione del motore costituito da cilindri contrapposi Agusta-MV GA70. L'elicottero permette il trasporto solo del pilota, ha una lunghezza di 6,13 metri e una altezza di 2,3 metri. L'elica bipala principale ha un diametro di 7,4 metri e il suo peso complessivo al decollo è di 460 Kg.La configurazione originaria prevede la fusoliera costituita da una bolla di materiale plastico con due aperture laterali non protette da alcuna chiusura. Nella parte retrostante la fusoliera in basso si trova il motore del veicolo, lasciato libero e non protetto da alcuna carenatura. Sora il motore si attacca la trave di coda all'estremità della quale si trova il rotore anticoppia.Nella parte superiore della fusoliera composta dalla bolla si trova l'elica bipala con barra stabilizzatrice, invece nella estremità inferiore, con lo scopo di stabilizzare l'elicottero quando si trova a terra, troviamo due pattini in tubolari d'acciaio. Nel 1959 l'Agusta per propria iniziativa interna all'azienda decise di sperimentare un prototipo di elicottero monoposto. Anche il motore che lo equipaggia è di produzione interna all'azienda. Questo particolare modello di elicottero prese il nome di A103. L'Agusta partendo dalle basi formatesi con l'azienda americana Bell, decise di impiegare i propri sforzi e risorse per procedere autonomamente nella realizzazioni di elicotteri. l'azienda italiana compì il suddetto sforzo con l'intento di ritagliarsi un posto nel panorama mondiale dell'aeronautica. row-nnaz_pgrc.w7xs Ritratto di missionario gesuita Milano Via Manzoni, 12 row-jvgm.wpev.d42n Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Questo piccolo coltello in pietra di ambito Mesolitico è stato rinvenuto sul margine settentrionale del Pian dei Cavalli, in alta Val San Giacomo, nel luogo dove circa 9000 anni fa alcuni cacciatori accesero dei fuochi e tesero agguati alle loro prede. Il reperto è stato uno tra i primi ad essere trovato durante una campagna di ricerche dell'estate 1986, permettendo di rivelare il sito archeologicamente più interessante di tutta la zona.Si tratta di una lama in pietra calcarea silicizzata di colore beige chiaro, lunga appena 59 millimetri, ricavata scheggiando opportunamente il materiale che permetteva di ricavare manufatti taglienti. Nell'agosto del 1986 una missione archeologica multidisciplinare, nell'ambito di un programma di ricerca pilota guidata dal dipartimento di Antropologia dell'Università di Napoli che ha coinvolto diversi altri atenei d'Italia e d'Europa, si prefiggeva di verificare se, subito dopo le ultime grandi glaciazioni, l'uomo avesse frequentato le terre più interne della catena delle Alpi. Quell'indagine permise di far luce ad ampio raggio sulle vicende umane più antiche di una sperduta landa montana e ad alta quota, aprendo nuovi e suggestivi orizzonti di studio. La ricerca ha svelato i segreti della storia più remota dell'alta Val San Giacomo, poco lontano dallo spartiacque del passo dello Spluga. I siti individuati nella piccola val Febbraro e nell'area di Borghetto restituirono decine di reperti che, pur nella loro modesta apparenza, permisero di ricostruire, insieme allo studio dei paleoambienti della zona, uno spaccato di vita di gruppi di cacciatori preistorici di 9000 anni fa. row-udg5.u8t3.7ddr Viduitatis gloria Bergamo Piazza Rosate Il parapetto dell'iconostasi, la cui funzione è quella di delimitare lo spazio più sacro del presbiterio da quello riservato ai fedeli, è ornato all'esterno da quattro riquadri a tarsia con episodi biblici coperti da pannelli protettivi a tarsia raffiguranti composizioni allegoriche in relazione ai contenuti delle "storie" da proteggere. La "Sommersione del Faraone", il primo da sinistra, introduce l'osservatore alla Bibbia per immagini ideata da Lorenzo Lotto. Il tema dell'esodo ben si presta a significare simbolicamente l'inizio di un viaggio creato per stimolare meditazioni sulle storie dell'Antico Testamento. Per la verità, Lotto aveva scelto come prima immagine la storia dell'Arca di Noè, la seconda da sinistra, nella quale si evidenzia il valore purificatore dell'acqua battesiamale; in fase di collocazione, i committenti diedero l'ordine a Capoferri di anteporre alla scena del Diluvio Universale la storia raffigurante l'inizio del viaggio di liberazione verso la Terra Promessa. Seguono due episodi che simboleggiano il trionfo della virtù sulla brutalità: "Giuditta", donna prefigurante colei che salva il suo popolo dall'assedio del male nemico, e "Davide e Golia", che celebra la vittoria del combattimento ottenuta da Davide per rendere manifesta la forza prodigiosa di Dio. Notevole è la resa pittorica delle tarsie dove Capoferri, grazie all'utilizzo di diverse essenze lignee, riuscì a rendere le gradazioni cromatiche e i giochi chiaroscurali del Lotto. Nel 1522 il Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo decise di dotare la basilica di Santa Maria di un nuovo coro; iniziarono così le trattative con il legnaiolo e intarsiatore loverese Giovanni Francesco Capoferri per l'esecuzione dell'opera. Al Capoferri, direttore dell'impresa, fu affiancato il marangone Giovanni Belli di Ponteranica per i lavori di intaglio. I cartoni delle tarsie furono affidati al quasi sconosciuto Nicolino Cabrini, alla cui morte il Consorzio chiamò in causa Lorenzo Lotto. L'artista inizialmente effettuò anche la 'profilatura' delle tarsie, ovvero la loro rifinitura finale mediante stucco nero per i contorni delle figure e con ombreggiatura a fuoco per il chiaro-scuro, ma un contrasto di natura economica frenò la sua disponibilità. I cartoni delle quattro invenzioni con i relativi coperchi da porre sul parapetto dell'iconostasi furono eseguiti dal Lotto tra il 1524 e il 1528. Intarsiati dal Capoferri tra il 1527 e il 1530, i pannelli risultavano messi in opera entro il 1531. row-4ibg.mhpk_vqg2 Adorazione dei pastori Busto Arsizio Piazza Vittorio Emanuele II, 2 Il centro della composizione è costituito dal Bambino avvolto in un telo bianco dalla Madre che lo mostra ai pastori. Seduto al fianco della Vergine è dipinto San Giuseppe col braccio sinistro appoggiato a uno sperone di roccia, mentre intorno alla Sacra Famiglia sono disposti i pastori genuflessi. La composizione è immersa nel paesaggio naturalistico: sulla sinistra un edificio classico chiude la scena e sulla destra in secondo piano è raffigurata la città di Gerusalemme. Il dipinto è dominato dalla figura di Dio Padre che appare tra le nuvole accompagnato da una coppia di angiolletti. I toni sono cupi, le tinte dominanti sono il bruno e il rosso. L'opera eseguita secondo Spiriti entro la prima metà del Seicento, è tratta da un'incisione di Johann Sadeler e ne rappresenta una copia di buona qualità. L'incisione a sua volta è tratta da un dipinto perduto di Polidoro da Caravaggio. Il riferimento più convincente per quest'opera rimane il dipinto di Polidoro per Santa Maria dell'Altobasso di Messina ora in Museo Regionale. row-8y2c.kwt7-thzw Firenze Gallarate Via De Magri, 1 La rettangolare tela disposta verticalmente sulla quale Carrà ha dipinto, presenta una suggestiva veduta di Firenze dominata dalla cupola brunelleschiana di Santa Maria del Fiore. Lo sviluppo del paesaggio urbano è verticale e piramidale, poiché ai piedi della cupola si distribuisce l'abitato caratterizzato da case ridotte alle loro forme essenziali: una sorta di parallelepipedi che risalgono lungo la tela. In primo piano sulla destra l'artista dipinge una quinta vegetale costituita da alberi, mentre nella parte superiore inserisce un cielo terso e azzurro.Il colore caldo e sfumato lascia trasparire le modalità con la quale Carrà ha operato, prediligendo una stesura veloce e a tratto che, talvolta, ha definito nette linee di contorno. Quest'opera di Carrà è stata dipinta durante il soggiorno fiorentino dell'artista avvenuto nel 1952 e si tratta di un suo personale omaggio alla cultura rinascimentale toscana e alla città che lo aveva accolto con grande piacevolezza. La tela appartiene all'ultimo periodo di Carrà e temporalmente si colloca dopo la sua adesione ai più importanti movimenti artistici italiani, quali: il Novecentismo, il Futurismo, la Metafisica, i Valori plastici, il Realismo magico e il Realismo mitico. Questo dipinto appartiene, dunque, al momento in cui Carrà approda a temi più tradizionali, come la natura morta e il paesaggio, esprimendo la sua creatività e la sua arte attraverso la semplicità linguistica e formale. È in questo periodo, infatti, che egli trova un certo equilibrio tra forma concreta e trasfigurazione della realtà. Questa tela, nella quale è evidente che Carrà concepisca la contemplazione del paesaggio come momento esistenziale che si trasforma in costruzione compiuta di un'opera, fu particolarmente sentita dall'artista, che nel 1953 la presentò fuori concorso al IV Premio Nazione di Pittura Città di Gallarate insieme ad altre quattro opere. row-sgqa-6gsu~w7f8 Ritratto di anziana signora con due bambine Montichiari Via Martiri della Libertà, 33 Al centro della tela spicca la figura di un'anziana gentildonna affiancata da due bambine, probabilmente le nipoti. La signora indossa un severo completo nero composto dal busto che si allunga davanti con una lunga punta arrotondata, dalla sottana e dalla sopravveste, mentre nelle mani cinge un rosario. Le due bimbe indossano invece un sobrio abbigliamento domestico, ravvivato dal dettaglio elegante del colletto rifinito a merletto e da piccoli nastri rossi: la maggiore mostra un'espressione mesta e umile, mentre la più piccola si aggrappa al rosario quasi a volere attirare l'attenzione dell'anziana donna. La tela, in buone condizioni di conservazione, si trova all'inizio degli anni Settanta del Novecento a Bergamo, dov'è acquistata da Luigi Lechi nel 1973. L'antica vicenda collezionistica rimane finora sconosciuta, ma è forte il sospetto che il dipinto provenga da qualche quadreria nobiliare bergamasca, anche perché i caratteri di stile ne dichiarano esplicitamente l'appartenenza a quella tradizione di "pittura della realtà" che segna in maniera indelebile la storia artistica lombarda e della Lombardia orientale in particolare. Sulla scorta degli elementi vestimentari, particolarmente indagati in tutte e tre le figure, è possibile precisare un intervallo cronologico che difficilmente può oltrepassare gli anni Settanta del Seicento. Quanto alla paternità, sembra non essere accettato dalla critica contemporanea il riferimento a Carlo Ceresa, sebbene l'impostazione monumentale e l'adozione del formato a figura intera, presentino qualche affinità con gli schemi compositivi della produzione ritrattistica del bergamasco. row-bsqi-zsr7.ct7h Storie della Vergine Lodi Piazza Ospitale I quattro dipinti si dispongono sulle pareti laterali della cappella dell'Immacolata Concezione, la prima del transetto destro. Raffigurano: la Nascita della Vergine, la Morte della Madonna, la Presentazione di Maria al tempio e l'Assunzione della Vergine. Le prime due sono ambientate all'interno di una stanza, illuminate da bagliori di luce che focalizzano i particolari, soprattutto i cangintismi freddi dei manti lilla della figure femminile o dell'apostolo. La Presentazione al tempio è raffigurata all'aperto, in cui spiccano architetture rinascimentali sullo sfondo, mentre l'Assunzione vede Maria occupare tutta la porzione superiore del dipinto, relegando sul fondo le figure degli apostoli, dalla gestualità accentuata pur nelle piccole dimensioni. Il 5 novembre 1605 la Confraternita dell'Immacolata Concezione affida a Camillo Procaccini le pitture per ornare le pareti della stessa, stendendo un documento con clausole ben precise, in primis che tuti i dipinti siano di mano dll'artista, data l'abbondante produzione del predetto con la sua prolifica bottega. Oltre alle Storie della Vergine, il Procaccini aggiunge dodici quadretti con le Prerogative della Vergine, poi diventati quattordici e rimossi in occasione della ristrutturazione settecentesca perchè logori. Nelle tele rimaste l'artista si esprime mediante un linguaggio misurato tale da rendere facilmente comprensibili ai fedeli gli episodi evangelici. Questa capacità, unita all'uso di colori brillanti e quasi smaltati, gli permette di ottenere un vasto successo. row-ky8q_2nb5-cjwe Polittico della Strage degli Innocenti Lodi Piazza della Vittoria Il grandioso polittico è diviso in due registri. In quello superiore, partendo da sinistra: San Michele Arcangelo che atterra il demonio; al centro la Madonna in trono col Bambino tra Santa Lucia, con gli occhi infilati nella spoletta e Maria Maddalena dai lunghi capelli e dalla pisside nella mano; a destra San Paolo, con la spada, e san Lorenzo con la graticola, simbolo del suo martirio. Il registro inferiore, da sinistra: i Santi Nabore e Felice, i primi santi martiri lodigiani, la Strage degli Innocenti con Erode sul fondo mentre assiste all'uccisione dei primogeniti; a destra San Gregorio Magno papa e, forse, il copatrono di Lodi, Sant'Alberto Quadrelli, identificabile dalla mitria e piviale vescovile. Il polittico venne commissionato dalla Scuola di San Paolo a Callisto Piazza, come pala per l'altare dedicato a Santa Lucia e allora posto nella navata di sinistra. L'opera, insieme alle Storie del Battista nell'Incoronata di Lodi, rappresenta uno degli impegni più alti assunti da Callisto subito dopo il rientro a Lodi e anche dei più significativi per valutare la situazione figurativa ancora fortemente connessa a moduli della tradizione bresciana. L'organizzazione spaziale dell'ancona, con i santi accoppiati e costretti a fatica nel limite dello scomparto, si allinea alle scelte compisitive del polittico di Gardone, un testo fondamentale del Moretto intorno al 1530. Riferimenti al Romanino sono visibili nella Madonna col il Bambino, mentre suggestioni dirette da Raffaello si ravvisano nella donna caduta in ginocchio nello scomparto della Strage, dove Callisto si appoggia per la composizione a una nota stampa di Marcantonio Raimondi, traendone liberamente alcuni spunti per la donna che fugge tenendo al petto il proprio figlio o nei corpi riversi a terra e orribilmente trafitti degli Innocenti. La tregedia è come raggelata e perpetua dall'artista nella teatralità dei gesti e degli sguardi bloccati nell'attimo di pathos più intenso; la stessa luce che spiove livida sul torso del carnefice e sulla donna caduta in ginocchio è una luce fredda che fa brillare di bagliori sinistri le spade dei soldati in un crescendo di azioni ed emozioni senza catarsi finale. Una sensibilità nordica nell'attenzione ai valori luministici rivela il bellissimo gruppo con le figure di fondo, appena toccate da deboli riverberi di luce e inserite nella penombra di una grande architettura. Di contro alla tragedia della Strage, i Santi laterali sembrano avvolti in un'aura di indifferente serenità, che forse si spiegherebbe ipotizzando l'intervento dei fratelli. row-v5xx.qufc_9cqp Cavallo alato Pavia Piazza San Michele Nel 1330 circa il pavese Opicino de Canistris nel "Liber de laudibus Civitatis Ticinensis" attesta la presenza, in molte chiese cittadine, di numerosi mosaici pavimentali policromi figurati e con didascalie, di incredibile bellezza, ma loda in particolare quello conservato in S. Michele, considerandolo una delle maggiori attrazioni di Pavia, città che era stata uno dei centri più importanti di produzione di tali manufatti nell'Europa romanica.Opera di eccezionale valore storico artistico della prima metà del XII secolo, il prezioso tappeto musivo che rivestiva in origine tutta l'area privilegiata del presbiterio, mentre le navate erano pavimentate in cocciopesto, giunge a noi in forma frammentaria, ma ancora in situ. Attualmente sopravvivono alcuni cerchi concentrici del Labirinto e il ciclo cosmologico dei mesi. In una fascia orizzontale, il Re Anno in trono, coronato, con scettro e globo, che allude forse alla basilica delle incoronazioni regali, compreso tra una teoria dei Mesi, personificati, identificati da iscrizioni verticali, nell'atto di compiere un lavoro agricolo stagionale, sotto archi con colonnine: Gennaio (frammento) si scalda le mani al fuoco; Febbraio fa la punta ad un paletto con l'accetta; Marzo suona due corni simmetrici dai quali escono i venti; Aprile con due mazzi di fiori simmetrici; Maggio falcia l'erba; Giugno con due rami simmetrici di ciliegie, speculare ad Aprile; Luglio miete le spighe; Agosto (frammento) fabbrica una botte. L'esame comparativo con un'incisione di Giovanni Ciampini del 1699 e un disegno della Biblioteca Vaticana hanno permesso l'utile, seppure empirica, ricostruzione grafica dell'iconografia del mosaico, in origine molto più vasto che prevedeva al centro in un clipeo il Labirinto con Teseo e il Minotauro, negli angoli figure fantastiche di animali che alludono alle costellazioni celesti e in basso a sinistra un rara raffigurazione del gigantesco Golia con lancia e scudo e del piccolo Davide con fionda. Nelle due scene di lotta, mitica tra Teseo e il Minotauro e biblica tra Davide e Golia, vi è l'accostamento tra sacro e profano, l'interpretazione cristiana del mito antico e la rappresentazione della lotta tra bene e male che, mutuata dall'antichità, ha rivestito un grande interesse nella cultura medievale. Il Labirinto ha il significato simbolico del faticoso cammino della vita umana per giungere alla finale salvezza eterna. A destra era raffigurata anche una distesa d'acqua con onde stilizzate ed un pesce, il cui significato rimane ad oggi oscuro, può forse alludere alla storia di Giona o al mare simbolo della chiesa e pesci come fedeli o ancora più semplicemente come l'Oceano contrapposto alla Terra.L'importanza del manufatto è sottolineata anche dall'esposizione di un suo calco, realizzato dall'ing. Siro Dell'Acqua, all'Exposition Universelle di Parigi nel 1867. row-24d7-fmgf-r7ks Benedizione dell'acqua lustrale e battesimo Chiavenna Piazza don Pietro Bormetti, 3 Presso il battistero di San Lorenzo è conservata una grande vasca monolitica circolare in pietra ollare, scolpita sulla superficie esterna a mezzo rilievo con una successione di figure che illustrano i riti della benedizione dell'acqua santa e del battesimo. Si tratta di un pregevole manufatto tra i più caratteristici ed interessanti della scultura medievale tra la fine del XI e l'inizio del XII secolo.La scena, affollata di partecipanti, mostra il padrino con in braccio un bimbo da battezzare, preceduto da un chierico con il cero pasquale; un sacerdote recita la preghiera di benedizione del fonte, leggendo dal sacramentario sorretto da un diacono. Partecipano alla funzione altri rappresentanti del clero che reggono vari oggetti liturgici. Figurano inoltre, tra i personaggi ritratti, un fabbro, un uomo emergente da mura merlate e un cavaliere con falcone al braccio, ad indicare la simbolica partecipazione dell'intera comunità rappresentata dagli artigiani-mercanti, dai cittadini del borgo e dal ceto nobile. Sul collarino della vasca corre un'iscrizione latina con una serie di nomi, corrispondenti ai consoli di Chiavenna e Piuro che nel 1156 furono committenti dell'opera. Il manufatto è custodito all'interno del battistero risalente alla prima metà del Settecento, sorto in sostituzione di un più antico edificio del XIV secolo abbattuto in occasione della risistemazione del portico antistante la chiesa collegiata di San Lorenzo. La lunga iscrizione incisa è un documento diretto che attesta la committenza congiunta delle magistrature cittadine di Chiavenna e Piuro, comunità che all'epoca venivano da un periodo di aspri conflitti. La creazione di un manufatto simbolico come la vasca battesimale - il rito della purificazione dal Peccato Originale sanciva anche l'ingresso nella società civile - solennizzava una ritrovata concordia e un nuovo assetto dei rapporti fra i due maggiori centri della Valchiavenna. L'ultimo nome citato è di tale Guido di Piuro che non fu mai console, perciò si ipotizza possa trattarsi dello scultore.L¿uomo a cavallo è interpretato anche come un delegato dell'imperatore che interviene alla veglia pasquale, in una sorta di rappresentazione simbolica di Chiavenna e della sua nuova dignità di libero Comune. row-tpes~satf.q8zx Amazonomachia Brescia Via dei Musei, 81/b Nella lastra è visibile parte del combattimento tra sette Amazzoni, due delle quali a cavallo e una a terra con il proprio destriero, abbigliate con il berretto frigio, il chitone fermato sulla spalla sinistra che lascia il seno destro scoperto, e gli stivali con il bordo risvoltato (embades). Le Amazzoni sono raffigurate intente a lottare contro sei guerrieri nudi, taluni con elmo e uno a terra avvolto in un abito da cerimonia (klamis).All'estremità sinistra si intravvede il braccio di un'altra figura mentre a quella destra il piede e il contorno della gamba di un altro combattente. Nella lastra, in marmo bianco a grana media, è visibile parte del combattimento tra sette Amazzoni e sei guerrieri nudi, taluni con elmo. La lastra risulta tagliata alle estremità, forse in occasione del reimpiego. L'intrico dei corpi, enfatizzati dai chiaroscuri del rilievo, conferisce alla scena alta drammaticità, sottolineata anche dalle pieghe nervose dei panneggi che, in particolare nella parte destra della lastra, coprono completamente il piano di fondo. Le numerose e sovrapposte posture di Ammazzoni, guerrieri e cavalli, che marcano con la loro posizione le diverse profondità di campo, sembrano segnare, pur nella continuità del rilievo, una pausa del ritmo in corrispondenza della coppia centrale, in cui il guerriero nudo con il braccio sinistro trattiene per i capelli la donna inginocchiata che gli sta davanti, mentre con il destro sta per sferrare un colpo. Tale cesura sembra porre l'accento su queste due figure, che dovevano segnare l'asse mediano della lastra.La lastra appartiene a una fronte di sarcofago prodotto tra il II ed il III secolo d. C. nella regione greca di Atene, l'Attica. A partire infatti dal regno dell'imperatore Adriano (118-138 d. C.), sino alla seconda metà del III secolo d. C., alcune botteghe di quella regione si specializzano nella realizzazione di sarcofagi, prevalentemente in marmo proconnesio, con scene di battaglie mitologiche scolpite in funzione dell'esaltazione del defunto, paragonato all'eroe del mito.In questo caso la scena scolpita ha come protagonisti eroi ateniesi, raffigurati nudi, e le Amazzoni, guerriere a cavallo di origine orientale. L'intricato rilievo allude probabilmente all'episodio mitico della battaglia combattuta dalle Amazzoni alle pendici dell'acropoli di Atene per liberare la loro regina Antiope, rapita e sposata da Teseo con l'aiuto di altri guerrieri ateniesi.Il tema della morte e l'eroicità del combattimento fanno diretto riferimento alla destinazione della cassa e alla virtù del defunto.I sarcofagi attici venivano esportati in tutto il Mediterraneo; attraverso l'Adriatico arrivavano ad Aquileia e da qui distribuiti in Italia settentrionale. Per il tipo di marmo usato e per la complessità dei rilievi, erano destinati a personaggi di rango sociale elevato. Per quanto riguarda i pochi esemplari attici rinvenuti a Brescia, si può ipotizzare che essi siano appartenuti a membri di famiglie illustri.La lastra con l'Amazzonomachia è stata recuperata nell'ottobre del 1998 dal pavimento, steso in età bassomedievale, nella chiesa di S. Salvatore, reimpiegata con la parte a rilievo rivolta verso il basso, insieme ad altri frammenti di sarcofago di età romana. row-pxvx_y9pz_i788 Falere di Manerbio Brescia Via dei Musei, 81/b Si tratta di quattordici dischi d'argento, due più grandi (diametro medio 19 cm) e dodici di dimensioni inferiori (10 cm), rinvenuti insieme ai frammenti di quattro elementi longitudinali ricurvi e tre catenelle, sempre in argento.I dischi sono decorati a sbalzo dal rovescio forse mediante l'uso di punzoni, data la ripetitività di alcuni elementi e la presenza di segni di sovraimpressioni per la ripresa del motivo decorativo. Presentano una parte centrale a rilievo, l'umbone, circondata da una cordonatura: quella dei dischi minori è liscia, mentre nei due maggiori è decorata con un motivo a tre braccia ricurve, triskele, termine greco che significa letteralmente "tre gambe", da identificare con il motivo solare della svastica diffuso presso numerose popolazioni antiche. Lungo il registro esterno tutti i dischi presentano una serie continua di teste umane rappresentate frontalmente e fortemente stilizzate. Il volto, di forma ovale, è incorniciato da un'acconciatura tipica dei Celti. Il termine fàlere, inusuale nel lessico moderno, deriva dal latino phalerae, sostantivo che indica gli elementi metallici, borchie o decorazioni di vario genere, usati come ornamento militare da portare sul petto o appendere ai finimenti del cavallo. Le quattordici fàlere in esame sono molto probabilmente ornamenti per i finimenti di due cavalli.Sepolti sotto non più di "due badilate di terra" (circa 50 cm), gli oggetti sono rinvenuti nel febbraio del 1928 dai contadini a servizio della nobile famiglia Gorno durante l'ampliamento della buca del letame presso la Cascina Remondina, poco distante dall'abitato di Manerbio. Consegnati ai carabinieri e poco dopo a Giorgio Nicodemi, allora direttore dei Musei di Brescia i pezzi sono acquistati dallo Stato e consegnati in deposito temporaneo presso le Civiche Raccolte d'Arte di Brescia, dove ancora oggi si trovano. Grazie al confronto con altri oggetti simili la datazione può essere circoscritta entro la prima metà del I secolo a.C. Più problematica è risultata l'attribuzione che vede ormai concordi gli studiosi nel riferirla a una bottega di artigiani boi o taurisci, mostrandoci a posteriori le relazioni esistenti tra gli antichi popoli della Cisalpina (Italia settentrionale) e quelli stanziati nelle regioni del Norico e della Pannonia (Ungheria).Gli occhi chiusi e la bocca semiaperta con gli angoli ripiegati verso il basso conferiscono ai volti l'aspetto di maschere funerarie. Si tratta del tema delle tétes coupées ("teste tagliate"), uno dei motivi più importanti dell'arte celtica del II-I sec. a.C., presente su molti oggetti come motivo ornamentale e nello stesso tempo con valore apotropaico. Richiamano il costume celtico di tagliare le teste dei nemici vinti e di appenderle ai finimenti dei cavalli come trofei.Perché questi materiali preziosi vennero sepolti a Manerbio? Non si tratta con molta probabilità di un corredo funerario, bensì di un trofeo di battaglia o di un dono a un santuario posto nel territorio di occupazione cenomane, a cui facevano capo diverse tribù e di cui purtroppo ignoriamo la collocazione, ma che doveva trovarsi nel territorio manerbiese, come sembra avvalorare, nella stessa zona, il ritrovamento di un tesoretto di monete, avvenuto in località Gravine Nuove nel 1959. row-hqrx~b9sm~x8x3 Ester intercede per il popolo ebraico Vigevano Piazza Sant'Ambrogio, 14 Il prezioso arazzo si ispira alla storia biblica dell'eroina ebrea, illustrando la parte del libro di Ester in cui è narrata la supplica al re persiano Assuero per la salvezza del popolo d'Israele. Il manufatto di grandi dimensioni, 412x339 cm, è interamente occupato da personaggi, ben 19, tra i quali domina al centro la gigantesca figura del re persiano assiso in trono, affiancato da Ester, seduta alla sua destra, indicata con la mano dal piccolo paggio vestito di rosso, intorno al lei altre figure femminili con abiti blu e verdi, realizzati prevalentemente in seta per apparire in piena luce. Lo sfondo è animato da architetture o da vegetazione e le scene arricchite da sontuosi dettagli di costume, cuffie, gioielli e accessori: tipica infatti l'interpretazione dei soggetti sacri in chiave profana e aristocratica, per cui la storia biblica è trattata come uno spettacolo cortese. L'arazzo monumentale, concepito come una decorazione murale, veniva appeso alla parete per assolvere alla duplice funzione ornamentale e di isolamento termico durante l'inverno, ed era considerato un vero status symbol.Il panno giunge a Vigevano nel 1534, con altri sei arazzi noti come 'serie blu' per il colore dominante nella bordura, all'interno della ricca e prestigiosa donazione elargita da Francesco II Sforza alla città in occasione della sua elezione a sede vescovile. Il corpus di arazzi fiamminghi, di grande pregio e rarità, costituisce un eccellente esempio delle qualità tecniche e delle peculiarità figurative della produzione di Bruxelles nel primo quarto del XVI secolo, ma è soprattutto un patrimonio di inestimabile valore, essendo tra i più preziosi manufatti dell'arazzeria in Italia con quelli del Quirinale e del museo del Duomo di Trento.Il panno con Ester è stato recentemente restaurato in vista di EXPO 2015. row-c3mv-jqrw.9sdp Raccolta di tessili Gandino Piazza Emancipazione La raccolta di antichi tessili del Museo di Gandino è ricchissima e annovera, tra i circa 500 reperti che conserva, "gli esemplari necessari a illustrare la storia dell'arte tessile in Europa". I principali manufatti in ordine cronologico sono i paramenti in velluto operato eseguiti tra la seconda metà del Quattrocento e l'inizio del secolo successivo, ma anche l'eccezionale nucleo di tessili settecenteschi, nel quale si segnala il baldacchino del Corpus Domini realizzato a Venezia nel 1729 su commissione della Confraternita del SS. Sacramento. La manifattura settecentesca più rappresentata è la Grand Fabrique lionese con oltre duecento reperti, tra cui si annoverano il paramento 'bizarre' di colore ceruleo, donato dalla famiglia Giovanelli nel 1713, gli originali paramenti color 'langouste' in stile Revel e il paramento 'in quinto' del Corpus Domini la cui preziosissima stoffa fu acquistata a Lione nel 1769. Tra i ricami e i merletti spiccano l'inestimabile paliotto con monogramma imperiale ricamato dagli atelier milanesi della fine del XVI secolo e il velo di calice con applicazione di perline e coralli di una squisita bottega centro-italiana del XVII secolo. Tra i merletti si ricordano il camice di San Pio X con una balza di impalpabile trina di Bruxelles del XVIII secolo e il prezioso camice con alto merletto in oro della produzione francese della prima metà del XVIII secolo. La raccolta di antichi tessili conservata nel Museo della Basilica di Gandino è una delle più importanti d'Italia per il pregio e la vasta gamma di manifatture rappresentate. Questa straordinaria ricchezza deriva dai fiorenti scambi commerciali che tra Quatto e Settecento i mercanti gandinesi intrattennero nelle principali fiere d'Oltralpe commercializzando i pannilani prodotti nella Val Gandino. I favolosi guadagni e i prestigiosi contatti incentivarono l'acquisizione di manufatti artistici di eccezionale livello, tra cui in particolare tessuti, a cui si aggiunsero anche merletti e ricami, per i quali i gandinesi avevano una particolare sensibilità, dettata dalla loro secolare produzione. Talvolta fu la stessa chiesa a commissionare, tramite intermediari, grandi quantità di tessuto destinate alla liturgia. Furono proprio l'orgoglio civico e la fede a consentire che questa ricchissima collezione fosse conservata e mantenuta nel tempo, nonostante invasioni e razzie. row-27gb~ksxv.crib Storie di San Bernardino da Siena Lodi Piazza Ospitale Sulle pareti laterali della cappella sono raffigurate in 22 riquadri disposti su quattro registri le Storie di San Bernardino. I riquadri sono corredati da un commento in latino. La vicenda inizia sulla parete destra in alto: 1) nascita di San Bernardino; 2) l'educazione materna; 3) la preghiera del santo; 4) il santo chiede alla madre di beneficare i poveri; 5) il santo istruisce e rimprovera i compagni che lo deridono; 6) i direttori dell'ospedale affidano le chiavi al santo; 7) il santo invita i compagni a curare gli infermi; 8) il santo accoglie i malati e lava loro i piedi; 9) il santo medica le ferite e le piaghe degli ammalati; 10) il santo prepara il pasto ai poveri; 11) il santo serve a tavola i poveri; 12) il santo seppellisce un cadavere. Nella parete sinistra: 13) il santo riceve l'abito religioso; 14) il santo esorta i frati a costruire un convento; 15) il santo veste dell'abito religioso alcuni seguaci; 16) il santo è accusato di eresia davanti a papa Martino V e ai cardinali; 17) il santo prepara i sermoni nella sua cella; 18) papa Celestivo V gli compare in viaggio; 19) predica nella città di Aquila; 20) il santo ricusa l'episcopato offertogli dal papa; 21) morte e compianto del santo; 22) traslazione del corpo del santo nella sua chiesa Il 2 gennaio 1476 Aloisio Bononi redigeva il suo testamento incaricando i propri famigliari di far dipingere le Storie di San Bernardino nella quinta cappella della navata destra che dovrebbe corrispondere, per i materiali usati e la posizione sghemba, all'antica torre dei Pocalodi. Le storie sono corredati da un commento in latino, con scrittura in gotico minuscolo, ripreso dalla vita del santo scritta nel 1453 dall'umanista lodigiano Maffeo Vegio, ad eccezione del diciottesimo e diciannovesimo riquadro in cui il testo ci informa di due miracoli: l'apparizione di papa Celestino V che annuncia al santo francescano che sarebbe stato protettore della città dell'Aquila e la comparsa di una stella sul capo durante la predicazion del santo agli aquilani. Gli affreschi, noti da sempre a tutte le fonti documentarie, comprese quelle manoscritte, non hanno mai trovato un'attribuzione certa, se non la supposizione avanzata dall'avvocato milanese appassionato d'arte Michele Caffi che nel 1869 proponeva il nome di Gian Giacomo da Lodi, noto ai documenti ma ancora privo di qualsiasi opera pittorica di certa esecuzione. La cappella è da considerare la prima manifestazione protorinascimentale nel lodigiano seppur senza grandi sconvolgimenti, ma evidenziando da parte dell'autore la conoscenza delle opere di Masolino e soprattutto del bresciano Vincenzo Foppa, dal quale derivano le scatole prospettiche con gli episodi della vita del santo. Un richiamo alle novità toscane portate in Lombardia da Masolino nella decorazione del battistero e della Collegiata di Castiglione Olona (Varese) eseguiti dopo il 1435, si nota invece nella fuga delle architetture del settimo riquadro della parete destra e nelle montagne che fanno capolino nel diciottesimo riquadro, come pure la presenza di oggetti quotidiani: i libri, la scatola rotonda nella nicchia. L'incantato racconto si svolge, come scrive Marubbi, in "atmosfere sospese di trepidante attesa, in strade e piazze di astratta architettura", dove il ricordo della pittura di Foppa è reso ulteriormente esplicito da alcuni dettagli, seppur colti solo epidermicamente, quali il Crocifisso infisso su una piccola mo ntagna nel riquadro del Santo che sepellisce un cadavere che in parte richiama i Tre Crocifissi dell'Accademia Carrara di Bergamo. Un'eco delle miniature del milanese Cristoforo de'Predis, quali le Storie di Gioacchino e Anna della Biblioteca Reale di Torino del 1476 pare invece risuonare nel primo riquadro a destra con la Nascita di san Bernardino. La cappella è conclusa con la decorazione del sottarco con i Santi Chiara di Montefalco, Chiara d'Assisi, un Santo martire francescano, Francesco e Ludovico da Tolosa. row-62sp-uh4e-4t5c Ariberto da Intimiano offre il modello della basilica Cantù Via San Vincenzo L'ultima porzione di affreschi a sud dell'emiciclo absidale, databile entro il 1007 come il resto del ciclo, mostra la figura di Ariberto da Intimiano, committente dell'edificio, indicato in origine da leggende oggi perdute. Egli appare stante e di tre quarti con gli abiti tipici di suddiacono, tunica verde, dalmatica gialla, calzari rossi e rivolto verso il Cristo in maestà nel semicatino dell'abside, offerente il modello architettonico della basilica. Sul colle di Galliano, nei pressi di Cantù (CO), sorge la basilica di San Vincenzo. L'attuale edificio, costruito su un complesso del V secolo, è stato commissionato entro il 1007 da Ariberto da Intimiano (960/970-1045), allora custos del sito e suddiacono della Cattedrale milanese, come indicato da un'iscrizione dedicatoria murata nel perimetrale nord. Al tempo della fondazione risalgono le pitture dell'emiciclo absidale che terminano a sud con la figura del committente nell'atto di offrire idealmente a Cristo, posto nel semicatino dell'abside, il modello architettonico della basilica. Questo dettaglio, un tempo indicato da un'iscrizione, permette di comprendere meglio la sistemazione originaria dell'edificio, grazie alla riproduzione del campanile e del portico antistante l'ingresso. La parte superiore del dipinto mostra un aspetto di maggiore integrità rispetto alla zona bassa a causa dello strappo effettuato nel 1839 che ha consentito la sua protezione presso la Pinacoteca Ambrosiana di Milano sino al 1988, anno della ricollocazione in occasione della campagna di restauri. Il buono stato di conservazione permette di cogliere molti dettagli formali e stilistici che denotano l'ampio utilizzo di una tecnica mista e di apprezzare uno dei più alti esiti dell'intero ciclo: la monumentalità della posa e l'espressività del volto denunciano la conoscenza dei coevi fermenti artistici del mondo occidentale da parte di maestranze permeate da una tradizione classica. Sebbene le iscrizioni dipinte siano andate perdute, sono ancora osservabili alcuni graffiti obituari inerenti ad Ariberto e a tre parenti dello stesso. row-2mh8-ysfc.c4p7 Filatrice e contadino con la gerla Milano Piazza Castello row-gvwk_sk36-65tk Borgo di Casalzuigno Casalzuigno Il piccolo Borgo di Casalzuigno è ricco di numerosi angoli e scorci suggestivi che indirizzano lo sguardo oltre le basse case che lo caratterizzano, verso il paesaggio montuoso che lo circonda. Percorrendo le strette vie del borgo si può ancora apprezzare il silenzio e l'armonia di un contesto rurale. Molto caratteristiche sono le vecchie case contadine, alcune rigorosamente ristrutturate, altre invece che portano ancora i segni di un passato rustico cronologicamente non così tanto lontano. Le piccole vie di cui è composto il paese si diramano tra le case e i giardini, consentendo a chi le percorre di soffermarsi a volte a contemplare il paesaggio circostante e a volte ad ascoltare le conversazioni tra gli anziani che vivono nel borgo e che si fermano nelle piazzette a scambiarsi cortesi saluti. Caratterizzato da scorgi squisitamente bucolici, non sempre scevri di aggressioni della modernità industriale, il territorio comunale di questo antico borgo cela alcune interessanti vestigia artistiche, tra le quali degno di nota è l'Oratorio quattrocentesco di San Bernardino, che presenta anche pregevoli affreschi risalenti al XVI secolo. Alla seconda metà del Seicento, invece, risale la chiesa parrocchiale dedicata a San Vittore, edificata su un terrazzamento panoramico su probabili preesistenze longobarde. Edificio dalle forme architettoniche semplici, questa chiesa ha una storia estremamente interessante capace ancora di stupire storici e restauratori. Pochi anni fa, infatti, all'interno dell'edificio liturgico sono state rinvenute quattro tombe probabilmente di epoca medievale. Tra gli edifici residenziali più rilevati emerge per valore ed importanza la Villa Della Porta Bozzolo, un suggestivo complesso architettonico del Cinquecento lombardo che con i suoi giardini e palazzi occupa una porzione significativa dell'intero borgo. Sorta come villa di campagna, è poi divenuta nobile dimora di rappresentanza che ospita, al suo interno, significative opere d'arte e importanti cicli pittorici. Il borgo, che un tempo veniva chiamato Sovinium e, successivamente, Civignum, ha un nome composito che deriva dal termine latino Casalium (= casale)e Zuìgno, che gli storici fanno risalire a un cittadino romano di nome Sivinius. Il borgo, infatti, ha certamente origine romana, come attesta il rinvenimento di tomba con epigrafe ritrovata all'inizio del XX secolo. Notizie documentali più precise sull'esistenza del borgo risalgono all'epoca medievale e, più precisamente, al XII secolo, quando il territorio circonvicino ebbe un periodo di rinnovato fulgore grazie alla pace siglata tra Milano e Como, che si contendevano il predominio di queste terre. Un periodo di pace che culminò per Casalzuigno nel 1259 con la sua annessione al Ducato di Milano. Legata da stretti vincoli politici al capoluogo lombardo Casalzuigno nel Quattrocento divenne feudo di Pietro Cotta per nomina sforzesca, che seppero mantenere il predominio su queste terre sino al 1728, quando le sue proprietà passarono a Giulio Visconti Borromeo Arese. Dopo un periodo di parziale declino economico per la società locale e delle valli limitrofe, il territorio comunale conobbe un periodo di parziale ripresa economica nella seconda metà del XX secolo legata a piccole botteghe artigianali e ad un turismo residenziale che si palesa nei mesi estivi. Oggi, dopo un ulteriore periodo di crisi dovuta alla contrazione di notorietà del vicino borgo di Arcumeggia, Casalzuigno sembra aver ritrovato nuova vitalità attraverso la valorizzazione di Villa Della Porta Bozzolo, divenuta proprietà del Fondo per l'Ambiente Italiano (FAI). 45.906575207047524 8.711801561336276 1 1 row-q7j5-epyz_3a2d Triangoli Gallarate Via De Magri, 1 Quest'opera è costituita da tre solidi a forma di triangolo realizzati con un'intelaiatura in ferro che contiene dei blocchi di cemento. I tre solidi sono di dimensioni identiche, e sono disposti in verticale, separati l'uno dall'altro. Eseguite probabilmente come bozzetto quest'opera non presenza alcuna finitura cromatica, distinguendosi da altre sue micro-sculture, spesso dipinte con tinte rosse. La scultura eseguita da Staccioli rappresenta emblematicamente il percorso iniziato dall'artista, fortemente segnato dal tema del triangolo che sovente impiega per installazioni che interagiscono con chi fruisce delle sue opere. Inoltre Staccioli realizza sculture triangolari in cemento armato collocandole all'interno di maglie urbane storicizzate o adagiando le sue creazioni ad alberi, più o meno secolari. Sebbene non vi siano dei riferimenti puntuali tra quest'opera e le altre realizzate dall'artista vogherese, parallelismi si possono fare con le creazioni che egli studia per numerose località, tra le quali Cöln (1999),Bruxelles (1996) e Tortolì (1995), solo per rimanere nell'ambito delle installazioni permanenti. Tuttavia, tutte queste opere rispondono alla ricerca di Staccioli di segnare il territorio anche attraverso elemento cromaticamente dipinti. L'opera del MAGA, dunque, sembra maggiormente rifarsi alle ricerche condotte negli anni precedenti, quando a Celle (1982) e a Djerassi (1987-1992) progetta degli elementi triangolari di grande dimensione privi di ridipinture policrome o monocrome. Il valore dell'opera posseduta dal MAGA risiede anche nelle piccole dimensioni poiché la produzione del suo artista è costellata da sculture geometriche monumentali.Pienamente corrispondente al percorso artistico di Staccioli è la corrispondenza di quest'opera alle forme pure, che egli impiega, prediligendo geometrie essenziali, per realizzare sculture in cemento e ferro. Malgrado quest'opera sia estremamente significativa per la comprensione delle differenti correnti artistiche che interessano l'arte contemporanea, è evidente che essa appaia un poco decontestualizzata, poiché la ricerca di Staccioli si basa proprio sulla corrispondenza tra gesto e forma scultorea studiata dall'artista e la sua collocazione all'interno di ambienti urbani o naturali. row-rv6f-g5k4.tk5c La Religione Lovere Via Tadini, 40 La lettura iconografica di questo bozzetto viene offerta dallo stesso Faustino Tadini, lo sfortunato figlio del fondatore dell'Accademia, nel volume scritto a commento delle opere del Canova: la personifcazione della Religione indossa l'abito sacerdotale ebraico descritto nell'Antico Testamento, mentre il velo che lascia scoperto il viso indica il coraggio della professione di fede. La croce, simbolo del culto cristiano, è il consueto attributo di questa figura, a cui Canova aggiunge, sul petto, il triangolo con l'occhio di Dio che tutto vede. La grande intensità visiva e il tratto fresco e spontaneo, in contrasto con il risultato finale perfettamente levigato, ben esemplifica la volontà dell'artista di superare nella scultura la qualità plastica del bozzetto. E' il modelletto in terracotta eseguito da Antonio Canova per l'esecuzione della colossale figura della Religione da porsi sul lato sinistro della tomba di Clemente XIII, eretta tra il 1783 e il 1792 nella basilica di San Pietro in Vaticano. Tra l'artista, che stava diventando il più acclamato e moderno interprete del Neoclassicismo europeo, il conte Luigi Tadini e il ventunenne figlio Faustino era nato un rapporto di stima e di amicizia nel 1795, quando padre e figlio, di passaggio a Roma per motivi di affari, si fermarono nello studio dell'artista, ormai tappa obbligata dei viaggiatori, rimanendo affascinati da quel nuovo modo di vedere nell'antichità classica la chiave per mediare tra natura e bellezza ideale. Entusiasta, il giovane Faustino scrisse un commento in rime e prosa sulle opere del Canova, pubblicato l'anno dopo, a cui l'artista rispose con una lettera di ringraziamento. Raramente Canova si separava dai suoi bozzetti, a cui riconosceva la più genuina e immediata espressione della sua creatività, ma per il conte Luigi Tadini fece un'eccezione e gli spedì l'opera nel 1808, mettendolo nella condizione di essere uno dei pochi in Italia a vantarsi di possedere una terracotta originale del Canova. row-ye24.dd73-p3uc La croce, i simboli degli Evangelisti, il Cristo-Verbo di Dio nella mandorla, l'Annunciazione e la Visitazione, Moduli geometrici e racemi Chiavenna Piazza don Pietro Bormetti, 3 Una semplice tavola di legno di noce è stata trasformata in un oggetto unico e inestimabile con l'applicazione di 25 lamine d'oro sbalzate e filigranate, arricchite da 94 perle, 97 pietre preziose e smalti. Dalla croce greca centrale, ornata di gemme, perle e filigrane, montata su un ovale a sua volta preziosamente decorato, si dipartono molteplici elementi: i simboli degli Evangelisti sbalzati su lamine auree, tondi a filigrana gemmati e grandi smalti cloisonné ovali. Questi ultimi raffigurano in alto il "Cristo-Verbo di Dio nella mandorla", l' "Arcangelo Gabriele" a sinistra e "Maria annunciata" a destra, la scena della "Visitazione" in basso. Corredano il braccio orizzontale quattro piastrine con smalti policromi a motivi geometrici. Smalti rettangolari traslucidi e dischi filigranati e gemmati definiscono anche i bordi della tavola. Il nome di Maria è ripetuto due volte negli ovali, quello degli Evangelisti è sbalzato presso i rispettivi simboli. Altre due scritte lungo il braccio verticale lodano la pace e coloro che fecero realizzare una tale opera mirabile. La coperta di evangeliario della chiesa di S. Lorenzo è ritenuta a ragione uno dei maggiori capolavori dell'oreficeria medievale. È più nota come "Pace", così chiamata perché in occasioni solenni viene offerta al bacio dei fedeli. È documentata per la prima volta nel 1485, ma l'oggetto è sicuramente più antico, le ricerche e le analisi scientifiche, storiche e stilistiche più recenti consentono di restringere la cronologia tra il 1030 e il 1090 e di ascrivere il manufatto a una bottega di ambito lombardo.Alcune perle forate e le gemme incise con figurine e scritte - la più curiosa è un'iscrizione in arabo - denotano il riutilizzo di materiali antichi. Le analisi di laboratorio dimostrano che le gemme provengono dallo Sri Lanka e che quelle incise risalgono al I-II secolo d.C.Anche le informazioni circa la committenza sono ridotte a ipotesi: secondo la tradizione, la "Pace" fu donata alla collegiata di S. Lorenzo da un vescovo francese o tedesco, forse Cristiano di Magonza che accompagnò a Chiavenna nel 1176 Federico Barbarossa all'incontro con il cugino Enrico il Leone, al quale l'imperatore chiese invano aiuti militari alla vigilia della battaglia di Legnano. row-vgev-8rzz~eags Milano Via San Vittore, 21 row-styj~r2s5-b8xx Virgilio legge il sesto libro dell'Eneide alla corte di Augusto Tremezzo Via Regina, 2 La tela raffigura il poeta Virgilio intento alla lettura del sesto libro dell'Eneide davanti all'imperatore romano Augusto e alla sua corte. L'emozione per i versi ("Tu Marcellus eris", Eneide, VI, 883) dedicati al nipote prediletto dell'imperatore, Marcello, morto prematuramente, provocano lo svenimento della madre del giovane, Ottavia. Augusto, sorreggendo la sorella svenuta, fa cenno a Virgilio di interrompere la lettura, mentre Livia, moglie dell'imperatore, sospettata come mandante della morte di Marcello, è raffigurata a sinistra in atteggiamento impassibile. La scena è chiusa a destra dalla figura di Mecenate, colto nell'atto di chinarsi verso Ottavia, e da quelle del medico Musa e del generale Agrippa. Una peculiarità iconografica del dipinto è data dal fatto che le sembianze di Mecenate e di Agrippa riproducono quelle di Giovan Battista Sommariva e di Napoleone. La scelta di Sommariva di farsi ritrarre nelle vesti di Mecenate è un modo di celebrare la sua attività di committente e di protettore delle arti, mentre la raffigurazione di Napoleone, ormai in epoca di Restaurazione, funge come affermazione orgogliosa degli ideali politici di Sommariva, la cui fortuna si legò strettamente al regime francese. Il dipinto fu commissionato nel 1818 dal conte Giovan Battista Sommariva al pittore francese Jean-Baptiste Wicar, di stanza a Roma. A fare da tramite tra l'artista e Sommariva fu lo scultore Antonio Canova, a cui si deve verosimilmente anche la scelta del soggetto, molto amato in età neoclassica. La tela, completata nel 1820, fu presentata nell'ottobre del 1821 a Milano all'Esposizione annuale di Belle Arti dell'Accademia di Brera, per poi essere successivamente trasferita nella villa di Tremezzo. row-jcuf.xq37_wnur Collezione dei dipinti dal XII al XVI secolo dei Civici Musei d'Arte e Storia di Brescia Brescia Via dei Musei, 81/b La raccolta dei dipinti comprende tele, tavole e affreschi staccati, databili dal XII al XVI secolo, provenienti da edifici sacri, pubblici e privati della città e del territorio, nonché da cospicue collezioni private, donate soprattutto nel corso dell'Ottocento, e in misura minore da acquisti.Il patrimonio presenta caratteri compositi. Per i secoli XII-XV risulta composto per la gran parte da affreschi provenienti da edifici bresciani, nella maggior parte non più esistenti. Fanno eccezione quattro tavolette con figure di santi di Paolo Veneziano e una tavola con S. Giorgio e il drago. Un nucleo fondamentale è costituito dalle opere, anche di grandi dimensioni, dei protagonisti della pittura bresciana del Rinascimento: Vincenzo Foppa, Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Gerolamo Romani e Girolamo Savoldo. La produzione di questi maestri è attestata da numerose pale d'altare, eseguite per le chiese della città e dalla provincia, nonché da quadri di cavalletto. La pittura del Sei e del Settecento, il cui nucleo si è formato in gran parte per via collezionistica, offre un panorama più variegato e una più ampia apertura geografica, pur avendo nelle opere prodotte in e per Brescia la sua parte più cospicua.A tale patrimonio si aggiungono capolavori di Raffaello Sanzio (Il Cristo benedicente e l'Angelo), Lorenzo Lotto, Giovan Battista Moroni, Luca Giordano e Giacomo Ceruti. Il primo nucleo della Pinacoteca si costituisce con il legato di Paolo Tosio, che nel 1844 lascia alla Città il proprio palazzo e le collezioni in esso contenute, tra le quali, principale per fama e importanza, quella dei dipinti antichi e moderni. Nel tempo al patrimonio della quadreria Tosio si aggiungono opere pertinenti ad altri legati e, affreschi e dipinti di grande dimensione di proprietà civica, nonché alcune pale provenienti dalle principali chiese cittadine. Nel tempo, le opere dei secoli XIX e XX vengono scorporate dal patrimonio di pertinenza della Pinacoteca e, unite alle sculture, costituiscono oggi la raccolta di Arte Moderna e Contemporanea, attualmente non esposta. row-8v82-jdqk.c77x Galbiate Via Camporeso La "muschiröla" era un mobiletto pensile in legno utilizzato per la conservazione di alimenti, soprattutto formaggi, pronti per essere consumati. La reticella in plastica a maglie strette inchiodata al telaio sui tre lati consentiva l'areazione e proteggeva le pietanze da mosche, piccoli roditori e insetti in generale i quali, in presenza di animali di allevamento o da cortile, penetravano in tutti gli ambienti di casa. Veniva appeso in cantina o in un angolo buio della cucina. Il manufatto fu in uso dalla prima metà del secolo XX fino agli anni Settanta.Dalle numerose mosche ci si difendeva attraverso due tipi di prendi mosche (ciapamósch): l'uno consisteva in un nastro vischioso appeso al soffitto, sul quale rimanevano appiccicate; l'altro, più studiato, era formato da una semisfera di vetro con acqua e aceto in cui gli insetti, che vi si inoltravano, rimanevano prigionieri; per invogliarli a entrare si metteva lungo il bordo un po' di zucchero. row-khkj.46kh-qiji Querce Casalmaggiore Via Formis, 17 L'opera si compone di tre parti, appese parallelamente, ma distanziate. Ogni elemento è formato da supporti laterali in metallo che reggono strisce orizzontali in acetato stampato con l'immagine fotografica di una quercia. La luce che le illumina crea effetti tridimensionali e di movimento. L'opera ha preso avvio da un'immagine fotografica, raffigurante le querce della campagna casalasca, che Tentolini ha elaborato, stampato su acetato e pazientemente tagliato a strisce orizzontali che, una volta montate sui telai metallici, prendono vita (e tridimensionalità) grazie alla luce che ne proietta l'ombra sulla parete di sostegno.L'ispirazione è giunta all'artista dall'osservazione della campagna casalasca, luogo a lui molto caro, dove le querce sono forse destinate a sparire a causa dell'avanzare dell'agricoltura intensiva. row-h4ce.5yaf.3s94 Collezioni del Museo del Giocattolo e del Bambino di Cormano Cormano Via Rodari, 3 La collezione del Museo del Giocattolo e del Bambino comprende più di mille oggetti che documentano tre secoli di storia del gioco, dal 1700 agli anni settanta del Novecento. I giocattoli originali e perfettamente funzionanti sono di varie tipologie: da bambole, ai soldatini, ai trenini, ai modellini, ai giochi da strada e da tavolo, a libri e fumetti, fino i primi videogiochi. Si tratta di esemplari, provenienti da varie parti d'Europa e del mondo, selezionati in base all'interesse storico e artistico, alla rarità, al loro valore all'interno della cultura di appartenenza. La collezione di balocchi della Fondazione Franzini Tibaldeo raccoglie tante tipologie di oggetti di diverse epoche, dal 1700 al 1960. La collezione è nata dalla passione personale del conte Paolo Franzini Tibaldeo, avviata con i primi giocattoli ritrovati nella dimora di famiglia a Fosseto presso San Salvatore Monferrato, nell'alessandrino, e si è costituita in circa quaranta anni di ricerche personali. Dopo la fondazione del Museo, nel 1989, la raccolta è oggi esposta a Cormano, negli spazi del Centro Bi, dove dispone di adeguati spazi anche per la realizzazione di attività ludico-didattiche. row-p2tj~2c6c~a8bp Pavia Corso Strada Nuova, 65 Tra gli strumenti conservati nella cassetta n. II, denominata "Cucurbitae et scalpella", si conserva lo scarificatore, un piccolo strumento di forma cubica in argento, finemente decorato con motivi floreali e vegetali incisi, opera del coltellinaio viennese "J.M. Wien" (Joseph Malliard o Maliar) come recita l'iscrizione sulla faccia superiore della scatoletta. All'interno dell'elegante manufatto sono montate sedici acuminate lamelle semilunari che, tramite una leva posta alla sommità, vengono azionate fuoriuscendo dalle scanalature presenti sul fondo del cubo. Un pulsante, posto su uno dei lati, consente il bloccaggio e lo sbloccaggio della suddetta leva. Lo strumento, utilizzato per incidere la cute e praticare i salassi, veniva appoggiato sulla parte su cui si intendeva compiere la scarificazione. Azionando la leva posta alla sua sommità, le sedici lamelle uscivano di scatto, incidendo la pelle provocando sedici piccole ferite. La scatola originale, priva di coperchio, in pelle rossa con decorazioni dorate, ospita, negli alloggiamenti rivestiti di velluto verde, una quarantina di pezzi, quattordici dei quali oggi mancanti: sono strumenti per praticare il salasso e la flebotomia e bisturi usati in diversi tipi di operazioni, che costituivano lo strumentario di base di un medico.L'astuccio fa parte dello strumentario chirurgico di Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800), chirurgo personale dell'imperatore, raggruppato secondo le operazione specifiche entro 36 eleganti cassette (oggi 32), donate nel 1786 da Giuseppe II, imperatore d'Austria, all'Ospedale San Matteo di Pavia.Il prezioso strumentario, già considerato obsoleto nell'Ottocento, cade nel dimenticatoio per essere ritrovato negli anni Settanta del XX secolo, dall'allora direttore del museo Bruno Zanobio. I 33 astucci (il n. VI "Trapanum" sarà in seguito rubato) restaurati, verranno esposti nel 1973 alla Mostra storica del libro e dello strumento di chirurgia, in occasione del 75° congresso della Società Italiana di Chirurgia, al termine della quale saranno posizionati nella loro "sede naturale" il Teatro Anatomico. E' interessante ricordare che il nuovo Teatro Anatomico, progettato dall'architetto viennese Leopoldo Pollach e inaugurato nel 1785, con un solenne discorso pronunciato in latino da Antonio Scarpa, a cui oggi è dedicata l'aula, verrà nel XIX secolo affrescato nella volta a conchiglia con figure alate che reggono gli strumenti del chirurgo, nei quali si riconoscono i ferri chirurgici dell'Instrumentarium chirurgicum militare Austriacum", testo fondamentale del Brambilla, del quale il museo pavese conserva una copia in latino che l'illustre chirurgo aveva donato allo Scarpa e che alla sua morte passerà a Luigi Porta. row-ypdw.d334_q9sw Casalzuigno Viale Camillo Bozzolo, 5 Posta all'estremità meridionale delle sale del primo piano, la Camera da letto verde costituisce un sontuoso ambiente probabilmente destinato ad appartamento privato della padrona di casa.La sala architettonicamente appare molto semplice e si distingue per un scenografico soffitto ligneo dipinto a finti cassettoni, realizzato nella prima metà del XVIII secolo da anonime maestranze lombarde. Sotto ad esso una continua fascia decorativa prosegue lungo il perimetro delle pareti, nell'alternanza di finti elementi architettonici dipinti e medaglioni figurativi in cui compaiono paesaggi allegorici e animali, reali e mitologici, accompagnati da motti scritti in lingua latina. Sulla parete di fronte al letto, ad esempio, l'anonimo decoratore di scuola lombarda che nella seconda metà del Settecento ha realizzato questa decorazione pittorica, nella riquadratura mistilinea ha inserito uno stormo di uccelli inquadrato in un paesaggio marino mentre è intento a librarsi in volo al sorgere del sole. Allusione alla capacità della casata di porsi come guida verso una nuova era, la scena è accompagnata dal motto "Omnes excitat unus" (= Uno sprona tutti). Sulla parete destra, invece, al centro della fascia policroma decorativa, il medaglione presenta cinque gru che stringono in una zampa una pietra, corredate dal motto "Ut alii dormiant" (= Affinchè gli altri dormano), che suggerisce il carattere sempre vigile della famiglia che quieta accoglie senza farsi mai sorprendere. Sulla parete opposta la raffigurazione di una fenice mentre prende fuoco, ornata dal cartiglio con la scritta "Renovant non extinguun[t]" (=Si rinnovano, non si estinguono), allusione alle vicende politico-familiari dei proprietari di Villa Della Porta Bozzolo.La sala è dominata al centro dall'imponente letto a baldacchino, privo di colonne, realizzato in Lombardia tra il 1740 ed il 1760. Qui la parte sommitale, realizzata con un prezioso tessuto di seta intrecciato a fili d'argento, è stata disegnata con un suggestivo e classico decoro floreale a fogliame ed è sormontata da quattro pennacchi.Alle pareti numerose tele e quadri di particolare rilevanza, come la tavola lignea dell'Ultima Cena, dipinta da un anonimo pittore di scuola fiamminga attivo nel nord Europa a cavallo tra XVII e XVIII secolo, e la tela dell'Immacolata Concezione ascrivibile alla bottega di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, attualmente collocata sopra il settecentesco secrétaire eseguito da ebanisti dell'Italia settentrionale. Numerosi altri mobili, suppellettili e tele adornano la sala, nella quale si impone, per qualità esecutiva e dimensione, il dipinto ad olio raffigurante il Ritratto di don Carlo Gallarati attribuito a Jacques Courtois detto il Borgognone. Sebbene alcune vicissitudini artistiche ed architettoniche di questa sala debbano essere ancora chiarite storicamente ed archivisticamente, è evidente che questo ambiente fu oggetto di una completa rivisitazione nel XVIII secolo, quando la famiglia Della Porta intese conferire all'intero complesso architettonico un rinnovato vigore artistico finalizzato ad affermare il proprio prestigio economico e politico, nell'ambito della nobiltà lombarda. In realtà è possibile ravvisare nella medesima sala due momenti distinti, entrambe risalenti al XVIII secolo. Alla prima metà del Settecento, ad esempio, risale l'intervento decorativo al soffitto dipinto a finti cassettoni, mentre al successivo cinquantennio è da ascrivere la realizzazione della fascia policroma decorativa dipinta da maestranze lombarde nella parte sommitale delle pareti.Originario della Villa è anche l'imponente letto a baldacchino menzionato nel 1862 dall'Inventario di Carlo Carpani, che lo cita come "Baldacchino con sue tende in seta verde antichissimo ricamato". Qui il tessuto damascato del XVIII secolo utilizzato per i rivestimenti interni è stato parzialmente sostituito da successive integrazioni, mentre la fascia con a fili d'argento si seta decorata con motivi floreali è forse più antico del letto, ed è stato recuperato nel 1994 in un armadio della Villa. Ad epoche successive risalgono alcuni dei mobili a parete e delle tele in precedenza afferenti anche a collezioni private. L'Ultima Cena, ad esempio proviene dalla Collezione torinese Antonio Mazzoni, mentre l'Immacolata concezione, prima di essere donata al FAI, apparteneva alla Collezione pavese Gianfranco e Mirella Tartara. Poiché la Villa fu oggetto di numerosi furti e spoliazioni degli arredi originari negli ultimi decenni del XX secolo, molte opere presenti nella Camera da letto verde non provengono dall'abito varesotto e dalla villa stessa. Di proprietà del FAI, dunque, queste opere sono state inserite nell'ambito del progetto espositivo della Villa, che ha come scopo quello di far percepire il raffinato ambiente nel quale viveva la famiglia Della Porta Bozzolo. row-bpy9~rhz9-6ed2 Veduta del Lago di Varese Varese Via Cola di Rienzo, 42 Tempera su carta raffigurante una veduta lacustre. In primo piano, a destra, si osservano alcuni personaggi intenti in attività di lavoro, mentre al centro della scena, in prospettiva più distante, è presente un altro gruppo di persone che passeggiano. Il bosco occupa tutta la metà inferiore della composizione mentre nella parte superiore si osservano il lago e i monti in lontananza i quali sono stati dipinti secondo il principio della prospettiva aerea. Egli dunque pone in atto una strategia di rilevamento e di rappresentazione del paesaggio del lago varesino basata su una cosante variazione dei colori che l'artista sottomette a rigide regole geometrico-compositive. La differente distanza dei soggetti raffigurati rispetto al punto ideale prescelto da Carlo Bossoli, è da lui sottolineata attraverso il progressivo sfocarsi delle immagini, registrando il fenomeno naturale connesso alla presenza di umidità negli strati bassi dell'atmosfera. In quest'opera, che si discosta dagli altri paesaggi posseduti dal Civico Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Varese del medesimo autore, Bossoli approfondisce la ricerca tecnica per rappresentare il vero, aggiungendo, al rimpicciolimento di elementi distanti, una diversa colorazione e una riduzione della marcatura delle linee che definiscono gli elementi paesistici. Il colore e la messa a fuoco degli elementi dipinti, ad esempio, variano in funzione del punto di osservazione del pittore, che sfuoca progressivamente gli oggetti dipinti che dota di una cromia sempre più vicina all'azzurro tenue. L'opera venne realizzata da Carlo Bossoli, artista dotato di abilità disegnative straordinarie che già nel 1834 realizza i ritratti per i sovrani di Russia e approfondisce la tecnica delle vedute ottiche dette cosmorama: vedute, cioè, che con particolari artifici ottici vengono proiettate su grandi schermi, come in un cinema ante litteram, assai diffuso tra le classi alte del tempo. Nel 1839 entra in contatto a Roma con la colonia degli artisti inglesi specializzati nella tecnica del "colore ad acqua" di cui diventerà tra i principali interpreti. Nel 1844 si trasferisce a Milano dove documenta con grande successo il bon vivre lombardo celebrando le ville e gli ambienti della nobiltà e della borghesia milanese e lombarda con una pittura descrittivae a volte visionaria. Nel 1853 è a Torino; al seguito del Re di Sardegna segue le campagna militari in Crimea dove realizza una serie di album con scene di guerra, il cui successo gli apre le porte della corte e di tutta l'aristocrazia inglese.L'opera in questione entra a far parte delle collezioni dei Civici Musei di Varese nel 1977 con il lascito del notaio Giuseppe Bonazzola, del quale fanno parte anche le quattro vedute di Bossoli che hanno per soggetto i giardini di villa Litta a Lainate. Il dipinto passò dalla famiglia Litta alla famiglia Prior quando Isolina Prior, nel 1855, sposò Antonio Litta Visconti Arese, allora proprietario dell'attuale villa Panza. La veduta è ripresa da una zona leggermente più a sud rispetto alla residenza ed è assimilabile ai dipinti del 1859 conservati alla Gazzada. Si tratta de 'Il Giardino di villa Cagnola prospiciente la facciata' e di 'Il giardino di villa Cagnola visto dal retro' (Plebani, 2014). La similitudine però non basta ad accomunare il dipinto del Castello di Masnago con quelli della Gazzada ed è più plausibile ipotizzare una cronologia più alta che va dal 1845 al 1853. In questo arco di tempo Bossoli risiedette a Milano e a questo periodo risale sicuramente anche uno dei guazzi raffigurante i giardini di Lainate, commissionati della stessa famiglia Litta. Paolo Plebani suggerisce che l'unico altro soggetto varesino di Bossoli è una veduta del 1850 appartenuta al signor Giacomo Panizza e di cui si sono perse le tracce (Plebani 2014) fatto che avvalora l'ipotesi di datazione alla seconda metà degli anni quaranta dell'Ottocento o ai primi anni cinquanta del medesimo secolo. row-azxp~9ni7~37yn Collezione d'arte della Villa del Balbianello Lenno Via Comoedia, 5 Le collezioni esposte nella villa furono costituite all'epoca in cui il Balbianello apparteneva all'esploratore Guido Monzino (1974-1988). Nella loggia del cardinale Durini, costruita al culmine del giardino, la Biblioteca raccoglie il cospicuo fondo librario dedicato alle spedizioni geografiche e alpinistiche raccolto negli anni da Monzino, mentre la Sala del cartografo (già sala della musica) custodisce le mappe utilizzate da Monzino per le proprie spedizioni. Sulle pareti è esposta una collezione di circa 200 stampe con vedute del lago di Como, in gran parte realizzate nel XIX secolo. Nelle sale dislocate nei diversi piani del corpo padronale della villa sono, invece, esposte le opere di arte preistorica e delle civiltà extraeuropee raccolte da Monzino a partire dal 1960. In particolare, la Sala dei Primitivi presenta manufatti e piccole sculture di arte cicladica, sumera, africana e precolombiana. Numerosi sono anche i reperti Maya, Olmechi e Atzechi, mentre per quanto riguarda il continente africano sono presenti soprattutto opere dei popoli Dogon, Lega, Punu e Baulé. Al piano superiore è allestito il cosiddetto Museo delle spedizioni, dove Guido Monzino volle custodire gli equipaggiamenti, i cimeli e i riconoscimenti legati alla sua attività di esploratore. Tra essi spiccano la slitta in legno e cuoio usata per la spedizione al Polo Nord del 1971 e gli equipaggiamenti relativi alla salita dell'Everest nel 1973. Ad essi si affianca una ricca collezione di manufatti artistici raccolti durante le spedizioni, con un nucleo particolarmente consistente di piccole sculture del popolo artico degli Inuit intagliate nelle zanne di tricheco. Tra le collezioni ospitate nelle sale della villa figurano inoltre un nucleo di 150 dipinti su vetro del XVIII secolo e di statuette cinesi in terracotta invetriata della dinastia Tang (618-907). Le collezioni presenti nei diversi edifici che compongono il complesso del Balbianello risalgono al suo ultimo proprietario, l'imprenditore ed esploratore Guido Monzino (1928-1988), da cui furono donate al FAI insieme alla villa. Le opere d'arte, gli oggetti di artigianato extraeuropeo, le stampe, i mobili e gli arredi, i libri di esplorazione e le carte geografiche documentano gli interessi culturali e le attività di Monzino in veste di collezionista ed esploratore. Parte delle opere fu acquistata sul mercato antiquario a partire dagli anni Sessanta, mentre l'ingresso in collezione di molti degli oggetti etnografici, in particolare quelli relativi alla popolazione artica degli Inuit, è direttamente collegata alle spedizioni organizzate dall'esploratore. row-3umm-qu3s_kfaf MOTIVI DECORATIVI Como Via Borgovico, 150 Il salone di villa Saporiti è l'ambiente di maggior spicco dell'edificio, sia dal punto di vista architettonico che da quello artistico. Collocato al piano terreno, al centro della costruzione, è caratterizzato dalla pianta ellittica e dall'altezza pari a due piani del fabbricato. Il suo profilo semicircolare sporge direttamente sul giardino a lago e costituisce il tratto distintivo della villa, chiamata per questo motivo "La Rotonda". La decorazione del salone è un esempio ben conservato di ornato neoclassico, basato su una stretta integrazione tra architettura, pittura e scultura che restituisce all'ambiente un aspetto di solenne e scenografica grandiosità. Il soffitto a volta è decorato con lacunari a rosette che digradano in prospettiva verso il centro, secondo una soluzione tipica dell'ornato neoclassico lombardo, mentre tutto intorno sono inseriti rilievi in stucco con ninfe danzanti alternate a lunette con ritratti di uomini illustri, tra i quali molti membri della famiglia che commissionò la costruzione della villa. Le pareti sono scandite da una serie di monumentali colonne corinzie con capitelli dorati, che riprendono modelli diffusi dai repertori decorativi a stampa del ticinese Giocondo Albertolli. Due statue collocate sopra gli ingressi e raffiguranti Nettuno e Anfitrite concludono il suntuoso apparato plastico del salone. La villa fu costruita alla fine del Settecento su progetto dell'architetto viennese Leopold Pollack, uno dei protagonisti dell'architettura neoclassica in Lombardia. Non conosciamo con certezza i nomi degli artisti a cui fu affidata la decorazione del salone centrale a pianta ellittica, che secondo una fonte ottocentesca andrebbero identificati nel pittore e scenografo milanese Giorgio Fuentes e in un non precisato scultore della famiglia ticinese dei Gaggini, forse Bernardo. La dilatazione scenografica dello spazio e la monumentalità che contraddistinguono il ricco ornato del salone depongono a favore dell'intervento di Fuentes e richiamano alcune soluzioni che si riscontrano nei suoi progetti per scenografie. row-u82v-gnsn.25gg Oceaniche Briosco Via Col del Frejus, 3 Installazione costituita da cinque tavole in vetroresina e poliuretano rinforzato in acciaio, infisse nel terreno: i singoli blocchi, diversi uno dal'altro, sono di forma stretta e allungata verso l'alto, dal profilo ondulato e mai spigoloso. Le tavole sono verniciate ciascuna con più colori brillanti delimitati in zone nette di colore. Complessivamente l'opera, esposta all'aperto, è alta circa 6 metri. La sgargiante installazione venne creata nel 1992 dall'artista veneziano Giulio Turcato (1912-1995), in occasione della partecipazione dell'imbarcazione "Moro di Venezia", di proprietà dell'imprenditore italiano Raul Gardini, alla Louis Vuitton Cup di San Diego. Dopo la relativa esposizione negli Stati Uniti, le tavole vennero riportate in Italia e, qualche anno dopo, rinvenute nei cantieri nautici della Montedison a Mestre, abbandonate, da dove vennero acquisite nel 1994 dal collezionista brianzolo Alberto Rossini e collocate all'interno del Parco di sculture della Fondazione Pietro Rossini, a Briosco. In realtà la realizzazione di quest'opera scaturisce da una ricerca elaborata dall'artista fin dai primi anni Settanta, nata sulla scorta di un viaggio in Kenya, da cui Turcato prese spunto per realizzare un'installazione intitolata "Oceanica", esposta alla Biennale di Venezia del 1972. In questo ultimo caso si trattava di una sequenza di tele sagomate, disposte in diagonale su una parete e successivamente riproposte appese al soffitto in una esposizione tenutasi presso le Prigioni Vecchie di Venezia nel 1974.Questa versione delle "Oceaniche" consta invece di cinque elementi scultorei allungati, realizzati in vetroresina e poliuretano rinforzato in acciaio, che ricordano nella forma delle giganti tavole da surf dal profilo sinuoso e ondeggiante, disposte perpendicolarmente al terreno una di fianco all'altra, senza un punto di vista privilegiato. In generale tutte le sculture di Turcato mirano a sovvertire e a confondere le leggi della percezione, sia attraverso la realizzazione di forme che ruotano su se stesse senza una direzione predominante, sia grazie all'uso di un colore tanto accattivante quanto destabilizzante. In quest'opera, infatti, la gamma cromatica scelta si serve di colori saturi, artificiali, seducenti e nello stesso tempo fagocitanti la forma stessa che avvolgono. row-atsq_2ivx~r9nq Spitz-Rund Bergamo Via S. Tommaso, 53 Sul fondo monocromatico rosa si articola la composizione verticale di linee curve o rette intersecantisi con figure geometriche piane, quali triangoli, cerchi e trapezi. I colori sono quelli dell'iride, in particolare il giallo, il blu, il rosso, il verde corrispondenti ciascuno a un moto dell'animo e al suono di uno strumento musicale (il giallo all'eccitazione e alla tromba, il rosso alla meditazione e alla tuba, il blu alla profondità e al violoncello, il verde alla quiete e al violino). Le forme e i colori diventano quindi i veicoli di una comunicazione che si materializza tra artista e osservatore. Il russo Kandinsky svincola completamente l'arte dalla necessità descrittiva e figurativa elaborando un nuovo linguaggio capace di comunicare più direttamente l'interiorità dell'uomo: nel 1912 pubblica il suo saggio "Lo spirituale nell'arte" in cui esprime le nuove teorie dell'arte astratta. E' bandito qualsiasi riferimento al reale ma non la razionalità che rielabora le intuizioni dell'inconscio e distribuisce gli spazi, le linee, i colori, le luci secondo un certo ordine logico, attraverso la forma della costruzione musicale. Come la musica, infatti, secondo Kandinsky, la pittura rende percettibili le vibrazioni dell'anima utilizzando esclusivamente i propri mezzi espressivi e non affidandosi alla rappresentazione della realtà. Quest'opera, intitolata "Spitz-Rund" (Aguzzo-Rotondo), risale all'epoca in cui l'artista insegnava al Bauhaus di Weimar (1922-1925), chiamato da Gropius: questa breve esperienza provocò una radicale trasformazione nella sua produzione artistica. Le linee che prima si muovevano liberamente nello spazio pittorico vengono ora ricondotte a forme geometriche elementari: rette, cerchi, triangoli. I colori sono disciplinati e riempiono gli spazi secondo complessi equilibri, chiaramente definiti sul fondo monocromatico. row-wfh2_7e3b-w4yw Ritratti di Eroi e Virtù, Natura morta Castiglione Olona Piazza G. Garibaldi, 1 La loggia, costruita come cerniera ai due corpi di fabbrica (occidentale e meridionale) del palazzo, si presenta oggi fortemente rimaneggiata sia nella struttura interna che a livello di decorazione. Originariamente l'ingresso avveniva attraverso una piccola porta posizionata in corrispondenza dell'attuale passaggio alla sala della Quadreria, ma tale parete si presenta oggi molto deteriorata, il che rende l'identificazione dei personaggi alquanto complicata, nonostante siano state dalla critica identificate come raffigurazioni allegoriche delle Virtù. L'immagine meglio conservata è quella sulla sinistra, identificata con Branda Castiglioni inginocchiato di fronte all'imperatore Sigismondo di Boemia, seduto su uno scranno ligneo con in mano lo scettro e una sacca chiusa: il sovrano indossa un elegante abito che lascia scoperte le maniche rossicce della sottoveste; porta la barba a pizzetto e un copricapo a tesa alta sopra la testa. Gli altri due personaggi sono quasi totalmente illeggibili: del primo, collocato al centro, si percepisce indossasse un abito a vita alta di colore rosso ed eleganti calzari; del secondo, sulla destra, si intravede la presenza di uno scudo ricoperto di cuoio e di una sola gamba.Ai piedi delle Virtù, è dipinto un lungo scranno munito di due ante (di cui quella destra attualmente perduta), contenente alcuni barattoli chiusi, dei contenitori aperti e un'anforetta. A fianco di questo armadietto, la superficie della parete venne completata con una serie di mazzi di fiori e cartigli su sfondo rosso, alternati a figure di volatili.Lungo la parete dove invece oggi si aprono le scale che scendono a pianterreno, sono visibili tre figure femminili, dipinte su uno sfondo neutro verde: la prima sulla sinistra è raffigurata con i capelli scompigliati e le mani giunte in preghiera; è circondata sopra e sotto da cartigli da cui oggi è impossibile ricavare l'iscrizione latina. La figura al centro è caratterizzata dalla presenza di un agnellino, che viene tenuto tra le braccia e accarezzato: il suo abito, di gusto tardogotico, doveva essere di un brillante azzurro; i capelli ondulati sono raccolti dietro al collo e poi disposti ordinatamente sulle spalle. La terza donna sulla destra, l'unica rimasta a figura intera, indossa un lungo abito di colore giallo e ha i capelli raccolti dietro la nuca e ordinati in alcune trecce lasciate ricadere sulle spalle; in mano doveva tenere un ramoscello di cui si intravedono oggi solo alcune foglie, probabilmente di ulivo.Il soffitto ligneo a cassettoni è decorato con riproduzioni di numerosi stemmi araldici affiancati ad iscrizioni abbreviate relative i singoli membri appartenenti al casato dei Castiglioni. Concepita ed edificata insieme alla sottostante Cappella di S. Martino, la decorazione della Loggetta rinascimentale è stata attribuita dalla critica al pittore e scultore senese Lorenzo di Pietro, detto il Vecchietta (1410-1480), in occasione della riscoperta degli affreschi avvenuta nel 1963. Ad oggi la leggibilità dei dipinti è fortemente compromessa e quasi totale la scomparsa di ori e argenti applicati a pastiglia o mediante lamine, utilizzati dall'artista per assecondare il gusto del suo committente lombardo, più vicino al clima cortese della Milano viscontea che a quello toscano del pittore.Il ciclo pittorico, in precedenza considerato una raffigurazione di Eroi ed Eroine, è stato più di recente ricondotto dalla critica ad una serie di immagini allegoriche di Virtù: in realtà le due interpretazioni collimano e si fondono l'una nell'altra. E' infatti possibile che i cartigli di cui le figure si circondano, oggi non più leggibili, riportassero oltre a massime morali, anche nomi di membri del casato dei Castiglioni, a cui si riferiscono anche gli stemmi dipinti sul soffitto, e che dunque spiegherebbero l'associazione esistente tra i due temi: è ipotizzabile che dietro alle "Virtù" si nascondesse il ritratto allegorico di un divino "Eroe" della famiglia, a partire dallo stesso cardinal Branda.La parete che oggi consente l'accesso alla sala della Quadreria riporta infatti come prima figurazione, l'immagine del cardinale inginocchiato di fronte all'Imperatore di Boemia: la raffigurazione del sovrano in atto di elargire doni (qui una borsa del denaro), viene di norma associata alla virtù della "Liberalità", dote fondamentale per un principe umanista e riconosciuta al cardinale in molti scritti dell'epoca che lo riguardano. Per quanto invece riguarda la altre due figure della stessa parete, così fortemente danneggiate, l'identificazione è stata più incerta: la presenza di un cartiglio con la scritta "karitas" ha portato ad individuare la figura centrale come legata al concetto di "Carità", mentre la presenza di uno scudo ricoperto di cuoio sulla destra, ha portato ad identificare l'ultima figura come quella di un personaggio in armatura da parata, riconducibile alla virtù della "Fortezza".Le tre figure femminili collocate sull'attuale parete dove si aprono le scale, sono state invece così identificate: la prima sulla sinistra è stata indicata come la "Speranza", per via delle mani giunte in preghiera, tuttavia i capelli scompigliati della donna hanno portato ad associare la sua immagine anche a quella del suo opposto, ovvero la perdita della speranza che porta alla malinconia o "Mestizia", una forma di Beatitudine spesso raffigurata come una fanciulla piangente con le mani giunte. Nella figura al centro, con un agnello tra le braccia, si è vista una raffigurazione del'"Umiltà" o della "Mansuetudine", virtù particolarmente gradita a coloro che dovevano amministrare la giustizia, evitando il vizio dell'ira e contrastandolo con le caratteristiche qui rappresentate dall'agnello, ovvero la pazienza, la purezza e la semplicità. La figura sulla destra è stata infine ricondotta all'immagine allegorica della "Pace", in quanto il modo di reggere il ramoscello di ulivo richiama alcuni suoi modelli iconografici in uso presso le corti italiane del Quattrocento.In questo senso la Soggetta venne concepita come un piccolo spazio riservato, separato rispetto alle altre sale del palazzo, ideale per meditare sulle virtù cristiane: è dunque ipotizzabile che il ciclo di immagini in essa dipinte sia stato sentito dal cardinale come necessario per aggiungere ai contenuti di carattere sacro già presenti nella cappella sottostante di S. Martino, anche alcuni spunti di comportamento di carattere più profano. row-5v9q-4h9j-neqe Assunzione della Madonna, Crocifissione, Estasi di San Filippo Neri dinnanzi all'Eucarestia Lodi Corso Umberto I, 63-65 Al centro del soffitto che sovrasta la grande navata a croce greca è affrescata l'Assunzione della Vergine, mentre nel presbiterio compare l'Estasi di San Filippo Neri dinnanzi all'Eucarestia e nella lunetta absidale la Crocifissione. L'affresco dell'ardita cupola all'ingresso è completato da cori di angeli musicanti e cherubini; in ciascuno dei quattro pennacchi che sovrastano le slanciate lesene portanti sono dipinti tre apostoli, inseriti nelle rispettive nicchie come gruppi scultorei sulle mensole aggettanti. Carlo Innocenzo Carloni è l'autore della decorazione a fresco della chiesa, pur coaudiuvato da una nutrita schiera di collaboratori, quali il quadraturista Felice Biella, i pittori Federico Ferrario e il fratello Giovanni Battista. I dipinti murali rivelano uno stile libero e fantasioso, che si fonda sulla vivacità cromatica e sull'estro prospettico. E' il periodo in cui maggiormente si avvicina alla pittura dell'ultimo rococò veneziano, pur senza mai aderirvi completamente. La sua pennellata si schiarisce per ottenere la leggerezza delle forme e gli spazio vuoti diventano sempre più ampi. I colori sono ancora piuttosto vivi, morbidi e luminosi, con grandi sfumatura giallo-rosa invadono quasi tutto il campo e in modo particolare la zona centrale. In altri zone, come nella Crocifissione, i colori diventano più accesi e smaglianti. Nell'Estasi di San Filippo Neri, il santo è presentato con una certa teatralità accentuata dall'inquadratura illusionistica. Sia nella figura allungata e abbandonata all'indietro, come quella dell'angelo con il libro aperto ai suoi piedi, rivela un ricordo di carattere mistico del Pittoni. row-cuha~scue-hyj6 La spezieria di un chiostro Tremezzo Via Regina, 2 Il dipinto raffigura il portico di un chiostro animato dalla presenza laboriosa di alcuni frati. I due monaci sul fondo della scena sono intenti alla preparazione di medicinali: uno sta scendendo le scale portando un vassoio pieno di ampolle destinate a raccogliere il medicamento che sta bollendo sul fornello posto al centro chiostro sotto il controllo di un frate anziano. Un terzo confratello è seduto in primo a piano a destra, assorto nella lettura di un libro. Tutto attorno sono raffigurati con estrema minuzia numerosi strumenti tipici dell'attività farmaceutica, ampolle, alambicchi, recipienti di vetro e di ceramica. La penombra del chiostro è rischiarata dalla luce calda del pomeriggio che penetra dal fondo della scena, proiettando lunghe ombre sui muri. Il quadro, eseguito su commissione di Giovanni Battista Sommariva, fu esposto a Milano alla mostra annuale di Belle Arti di Brera del 1823, la stessa in cui Sommariva presentò l' "Ultimo bacio di Romeo e Giulietta" di Francesco Hayez, anche esso ancora conservato a villa Carlotta. Giovanni Migliara, dopo una prima carriera come scenografo teatrale, di cui resta traccia nella articolata costruzione prospettica della tela con "La spezieria di un chiostro", si dedicò alla miniatura e alla pittura di veduta, quasi sempre in quadri di piccolo formato. Insieme ai capricci architettonici in stile veneziano del Settecento e alle vedute urbane della Milano dei suoi giorni, tipiche della sua produzione sono le raffigurazioni di interni di chiese e di monasteri, animate con episodi di vita conventuale, in linea con un gusto ampiamente diffuso nella letteratura del periodo. Il pennello di Migliara si sofferma a descrivere con minuzia ogni dettaglio, come bene dimostrano gli alambicchi e i recipienti di vetro che brillano nell'ombra del chiostro nel quadro qui presentato. La tela è da sempre ritenuta uno dei capolavori di Migliara, sia per l'altissima qualità di esecuzione sia per le grandi dimensioni, del tutto inusuali nella produzione del pittore. row-75bt-dvea-2ss7 Madonna Milano Piazza Castello row-xu49.3ttw_9ctz Collezioni del Museo delle Culture Milano Via Tortona, 56 Le Raccolte Extraeuropee annoverano testimonianze culturali provenienti dal Medio ed Estremo Oriente, America Meridionale e Centrale, Africa Occidentale e Centrale, con alcuni oggetti del Sud Est asiatico e dell'Oceania, interessando un arco cronologico che va dal 1200 a.C. (Perù preispanico) ai primi del secolo scorso. Le collezioni provenienti dall'Asia Orientale e dalle Ande preispaniche rappresentano i punti di forza delle Raccolte. Le collezioni extraeuropee del Museo delle Culture derivano della riunione di alcune raccolte appartenute a diversi enti pubblici milanesi e sono di proprietà del Comune di Milano. Si tratta di collezioni di formazione antica, frutto di donazioni compiute a partire dalla seconda metà dell'Ottocento fino ai nostri giorni da parte di missionari, viaggiatori e collezionisti milanesi. Le raccolte, che all'apertura dei musei civici del Castello Sforzesco, nel 1900, vengono esposte per piccoli nuclei, dal secondo dopoguerra, a seguito dei bombardamenti dell'agosto 1943, rimangono nei depositi, in attesa di una adeguata valorizzazione. Nel 1999, considerata la crescente importanza delle raccolte, si decide la progettazione di un museo dedicato presso l'area ex industriale dell'Ansaldo, nella zona di Porta Genova, e iniziano a essere scorporate tutte le opere extraeuropee, dando vita alle Raccolte Extraeuropee. Con il concretizzarsi del progetto di una nuova sede museale, a partire dal 2000, si registrano numerose nuove donazioni, tra le quali quella degli eredi Balzarotti e Fesce, e quella del medico Aldo Lo Curto. Inoltre la direzione del Castello effettua alcuni acquisti mirati, per esempio della collezione Bassani di arte africana. Oggi questo patrimonio è stato conferito al nuovo Museo delle Culture. row-dv9d-yu73_npfe Nascita di Maria Vergine Gandino Piazza Emancipazione I due dipinti narrano episodi non presenti nei Vangeli canonici ma tramandati negli scritti apocrifi, accettati dalla tradizione cristiana. Le due storie si collegano direttamente al tema dell'"Assunzione della Madonna", descritto nella pala centrale dell'abside e oggetto dell'intitolazione della basilica. La Nascita descrive Sant'Anna, madre della Madonna, subito dopo il parto, accudita dalle levatrici che stanno lavando la neonata e sciugando al fuoco i panni bagnati. Con l'inserimento di questo episodio si vuole sottolineare la nascita immacolata di Maria, unica dell'umanità ad essere venuta al mondo senza la macchia del Peccato originale. Il Transito, detto anche Dormitio, è invece il momento terminale della parabola terrena di Maria, quando, radunati intorno a sé gli Apostoli, sta per addormentarsi e rimanere per tre giorni come morta: il terzo giorno ascenderà al cielo, sollevata in corpo e anima dagli angeli. le due donne piangenti rappresentano le vedove amiche di Maria alle quali ella lasciò i suoi abiti. Soprattutto nella scena con la "Nascita di Maria" è evidente la ripresa, seppur parziale, del modello dell'arazzo che il dipinto andava a sostituire. Le due grandi tele raffiguranti la "Nascita della Vergine" e il "Transito" furono realizzate per essere poste sull'abside in sostituzione degli arazzi fiamminghi cinquecenteschi aventi gli stessi soggetti e oggi conservati nel Museo della Basilica. Giacomo Ceruti, celebre ritrattista e pittore dei 'pitocchi', fu molto richiesto anche come autore di pittura sacra, di cui le opere di Gandino, comprendenti le due grandi tele mariane del 1734, il ciclo di 28 tele con "Profeti" per i pennacchi eseguiti dal 1734 al 1739 e altri dipinti minori, compongono l'insieme più cospicuo. Come emerge dal contratto del primo marzo del 1734 e da altra documentazione, Ceruti si trasferì a Gandino dal marzo al luglio di quell'anno portando a compimento le due tele absidali , che evidenziano un'impostazione più arcaizzante rispetto ai successivi "Profeti", influenzati questi ultimi dall'acceso cromatismo dell'arte veneziana che Ceruti avrebbe studiato nel suo imminente viaggio a Venezia e a Padova, intrapreso a partire dal 1736. Nelle tele mariane si nota un persistente influsso della pittura della realtà bresciana, dal Romanino al Moretto, con figure un po' rustiche saldamente appoggiate al terreno. row-83f8~usi6_jix5 Madonna con Bambino Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 La scultura raffigura la Vergine con manto azzurro e tunica rossa decorati, mentre regge col braccio sinistro il Bambino dalla vestina dorata. Sul capo della Vergine la corona. La scultura, pesantemente ridipinta e dorata, si caratterizza per un sapore popolareggiante anche se la fattura non appare di grande levatura. row-9btz~586p~zbpa Madonna con Bambino Milano Piazza Castello row-j9q5_8x5z~enzd Guarigione del cieco nato Cremona Via Ugolani Dati, 4 Al centro della scena si staglia la figura di Gesù intento a toccare con l'indice destro l'occhio di un uomo devotamente inginocchiato davanti a lui. Diversi uomini e un ragazzo attorniano i due protagonisti. Lo sfondo è caratterizzato da alcune architetture che sul lato destro lasciano spazio alle nubi e ad un pilastro rivestito di edera. La resa pittorica è animata da pennellate frante e da bagliori luministici che sottolineano il colloquio di sguardi che si svolge tra le varie figure. Il dipinto viene realizzato tra il 1633 e il 1641 per l'ospedale di Santa Maria della Pietà a Cremona, come ricordano le antiche fonti cremonesi, dove era collocato "a canto dell'altare maggiore" per poi subire, nel corso del tempo, diversi spostamenti: prima nella crociera dell'ospedale e successivamente nella chiesa interna utilizzata dalle suore (Bresciani, Biffi, Panni). Alla fine del Settecento viene collocato al primo altare destro della chiesa di San Facio (Aglio), poi con la dismissione dell'edificio viene ritirato dall'amministrazione ospedaliera e depositato presso il Museo Civico.Un forte oscuramento delle vernici dovuto al "restauro" Piroli del 1949 ha portato ad una accentuatzione del tenebrismo che caratterizza l'opera.L'alta qualità e l'intensa forza espressiva portano a ritenere tale dipinto l'opera maggiormente rappresentativa di Pietro Martire Neri (1601-1661), raffinato pittore cremonese in grado di coniugare un intenso cromatismo veneto di ascendenza fettiana con il fosco tenebrismo post caravaggesco romano. row-ejxg.7kyg.d3ky Collezione del MIDeC - Museo Internazionale Design Ceramico Laveno-Mombello Lungolago Perabò, 5 Il MIDeC - Museo Internazionale Design Ceramico trova sede nello storico Palazzo Perabò, di origini cinquecentesche e attualmente di proprietà comunale. Un monumentale portone affacciato sul lungolago conduce al quadrangolare chiostro interno a doppia altezza, caratterizzato da colonne in granito rosa. La struttura dell'edificio, pur rimaneggiata nel corso dei secoli, mostra ancora oggi parte delle originali decorazioni: le stanze del piano nobile, in particolare, presentano soffitti a cassettoni o decorati ad affresco con motivi ottocenteschi. Qui sono esposte le opere della collezione, ordinate secondo una progressione temporale che mostra l'evoluzione del gusto nell'ambito della produzione ceramica. Il percorso, articolato in 11 sale, inizia con una sezione di portaombrelli e rari vasi prodotti dalla SCI (Società Ceramica Italiana) e di piatti decorati e pezzi da tavola della fine del XIX secolo. Prosegue poi con vasi e servizi da tavola in blu, cobalto e oro, fino ad arrivare alla sezione Liberty. Seguono le sale dedicate alle ceramiche a stampa all'inglese e alle terraglie di uso igienico prodotte da numerose manifatture italiane ed estere. Chiudono il piano nobile le opere realizzate dagli artisti-designer Guido Andlovitz e Antonia Campi e dallo scultore Angelo Biancini, tuttora oggetto di studio da parte di ricercatori e storici dell'arte. Al piano terra, nella corte interna, sono invece collocate opere ceramiche realizzate da artisti moderni e contemporanei, donate in seguito alla realizzazione di mostre personali. Qui si affacciano anche gli spazi per i laboratori, una piccola biblioteca-centro studi e una sala attrezzata per conferenze e presentazione di volumi sull'arte della ceramica. Palazzo Perabò risale al XVI secolo e fu edificato dai nobili Guilizzoni, commercianti di carbone dello Stato pontificio. Dopo numerosi passaggi di proprietà pervenne nel 1865 al nobile Don Leopoldo Perabò, di cui tutt'oggi porta il nome. A partire dal Novecento il palazzo divenne sede di numerosi istituti privati (Istituto Agrario, Casa di Riposo Perabò-Bassani-Menotti) sino al 1968, quando venne acquistato dall'amministrazione comunale con l'idea di creare una sede per esporre la produzione ceramica lavanese. Il 9 maggio 1971 il museo fu inaugurato con l'iniziale denominazione di "Civica Raccolta di Terraglia". La Collezione del Museo è una notevole raccolta artistica che documenta la produzione della terraglia forte dalla metà dell'Ottocento fino alla contemporaneità, con una specifica attenzione per la produzione di area lombarda. Il nucleo più antico è costituito dalle opere in ceramica (es. vasi, portaombrelli, piatti, servizi da tavola, servizi da tè, ecc.) provenienti dalla Società Ceramica Italiana (deposito "Richard Ginori 1735"), dalla donazione Scotti-Meregalli, dal lascito Franco Revelli e da ulteriori donazioni fatte da privati. A queste si aggiungono sculture e pannelli in ceramica realizzati dagli artisti e scultori Biancini, Campi, Andlovitz, Meandri e Gariboldi, che ornano le pareti del palazzo e costituiscono un patrimonio a metà tra l'arte e il design. Nell'ultimo decennio la collezione è andata inoltre arricchendosi di ulteriori opere di artisti contemporanei, donate a seguito di esposizioni temporanee presso il palazzo, che mostrano come la ceramica venga ancora oggi considerata uno dei terreni d'indagine dell'operato artistico. Nei primi mesi del 2015, inoltre, il Museo ha ottenuto un cospicuo finanziamento per ristrutturare alcune sale del piano terra impiegate sino ad oggi come deposito. Il nuovo allestimento, realizzato in coincidenza con l'inizio dell'Esposizione internazionale di Milano (EXPO 2015) ha consentito di implementare il numero degli oggetti esposti e di mostrare al pubblico il grande bozzetto di Biancini a sfondo mitologico dell'opera intitolata "Orfeo incanta gli animali con la musica". row-wcv4_5kkw_j4wb Scena mitologica Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 Il dipinto sulla parete sinistra mostra al centro due personaggi con manti gialli e azzurri e lunghe lance. La figura con la corazza porge un ramo di mirto a un re ammantato di rosso e seduto, a sinistra, su un trono. Sullo sfondo due vecchi e un giovane assistono alla scena. A destra un giovane versa vino in una coppa sostenuta da un putto. Il dipinto sulla parete di fronte, mostra un uomo al centro coperto da un panneggio mentre indica con la mano destra un giglio dipinto mostratogli da un giovane personaggio seduto, avvolta da una tunica rosata ed elmo verde piumato. A sinistra due soldati di cui quello in primo piano seduto. Sullo sfondo un tendaggio da cui spuntano due figure maschili barbute e delle architetture classiche. Nell'angolo di destra un gruppo di persone assistono alla scena e spicca il soldato di profilo dalle calze rosse. I due dipinti sembrano suggerire come autore Tommaso Formentino, pittore attivo nel Duomo di Milano, a Pavia, Como e Brescia. Modesto autore di stile giordanesco lombardo ampiamente rappresentato nelle chiese milanesi che si ispira a consimili figurazioni veronesiane e con una costante tendenza a evasioni data la mancanza di una più salda tradizione figurativa lombarda. Tale attribuzione, avanzata da Arslan, sembra essere confermata nel modo di trattare la materia in certi volti e nelle teste dei vecchi che appaiono sugli sfondi e nel confronto con la Sant'Elena che presenta due sacri chiodi a Costantino, dello stesso autore, e conservati nel Duomo di Milano. row-thye_82qa-sgtx Cristo risorto Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 Entro un'edicola trilobata e ornata da foglie d'acanto in marmo bianco scolpito, compare Cristo in pietà, col volto incorniciato dai lunghi capelli e leggermente reclinato. Le braccia si incrociano sul sepolcro adorno di un drappo. Il frammento del rilievo appartiene, probabilmente, a un sepolcro smembrato. La sua definizione stilistica, la pacata sofferenza di Cristo, individuano un ambito lombardo. row-ng6c-9ren-gbax Assunzione della Madonna, Nascita di Maria Vergine, Transito della Madonna, Re Salomone e re Davide Cairate Via Molina La parete di fondo della navata centrale, epicentro visivo dello spazio ecclesiastico, conserva oggi, a dispetto delle numerose lacune, una delle decorazioni parietali più integre dell'intero complesso monastico. Nel registro inferiore sono dipinti, sulla sinistra, una finta nicchia a trompe l'oeil contenente due libri, e sulla destra, un prezioso tendone di velluto sorretto da due putti. Lo stato di conservazione non consente di stabilire con certezza cosa vi fosse raffigurato al suo interno, poiché restano solamente alcuni lacerti di una modanatura architettonica che, un tempo, doveva interessare anche la parte centrale della parete, distrutta nell'Ottocento a seguito dell'inserimento di un camino. La fascia intermedia è occupata da tre storie che riguardano la vita della Vergine, viste attraverso un'apertura a serliana caratterizzata da modanature bicrome: al centro si colloca la grande Assunzione, con Maria in cielo, circondata da una mandorla di luce dorata tra angeli e nuvole e illuminata dalla luce divina, di molto soprastante gli Apostoli, dipinti nella parte bassa, sullo sfondo di un paesaggio naturale che culmina, in lontananza, con la raffigurazione di un'architettura. Nel riquadro di sinistra è rappresentata "La nascita della Vergine", ambientata in una stanza dalle pareti azzurre con il soffitto ligneo a cassettoni: sotto il baldacchino del letto Anna giace dopo aver partorito, circondata da ancelle che le porgono una bacinella d'acqua per detergersi le mani e un vassoio colmo di cibo per ristorarsi. Ai piedi del letto, in primo piano, altre quattro donne si occupano della neonata Maria e si apprestano a farle il bagno in una piccola vasca. Nello scomparto di destra, invece, è raffigurata "La morte della Vergine", ambientata in una stanza molto simile a quella della nascita. Qui la Madonna giace addormentata circondata dagli Apostoli e da un Angelo di bianco vestito. Ai piedi del letto è ben riconoscibile una candela che si sta spegnendo, da cui si solleva uno sbuffo di fumo.Al di sopra degli episodi laterali festoni dipinti circondano due finti riquadri marmorei all'interno dei quali si aprono due oculi con la raffigurazione di re Davide e re Salomone, accompagnati da cartigli, ora quasi illeggibili. È su di loro che si appoggia la gigantesca lunetta che chiude la parete, raffigurante Dio Padre in gloria circondato da più giri di nuvole e da innumerevoli angeli musicanti, raffigurati in multiformi pose. All'inizio della seconda metà del XVI secolo la badessa Antonia Castiglioni decise di rivoluzionare lo spazio interno della chiesa facendo realizzare una grande decorazione sulla parete di fondo della navata centrale, ottenuta tamponando un arco ogivale che originariamente introduceva in una più antica abside tronca: tale lavoro è firmato e datato "Aurelio Luini milanese 1560". Di poco successivo è l'adattamento alle nuove norme religiose previste dal Concilio di Trento per le chiese monastiche, che comportò la riduzione della chiesa ad un'unica navata e , grazie alla costruzione di un tramezzo, la netta separazione dell'area destinata alla clausura e quella aperta ai fedeli. Dopo la soppressione da parte dei francesi, tra il 1798 e il 1799 una serie di lavori stravolsero la strutturazione dell'ambiente. Le prime due campate della chiesa pubblica vennero abbattute; l'ex chiesa monastica fu controsoffittata per ricavare un nuovo piano e due camini furono sistemati nella parete di fondo della navata sinistra e in quella dipinta dal Luini. Tra il 1975 e il 1978, dopo la cessione del complesso al Comune di Cairate e alla Provincia di Varese, gli affreschi vennero restaurati. L'intero ciclo luinesco fu strappato, trasportato su poliestere rinforzato con fibre di vetro e ricollocato in loco nel 1979, un pò più in alto di quando fossero in origine per via dell'eliminazione della modanatura architettonica che circondava la lunetta a contatto con il soffitto.Per quanto danneggiata, l'opera di Aurelio Luini costituisce ancora oggi uno dei grandi esempi di decorazione parietale eseguiti dall'artista e dalla sua bottega nelle chiese claustrali lombarde, seguendo l'esempio carrieristico del padre, il noto Bernardino. L'impostazione data alla parete da Aurelio, dominata dalla grande serliana che scandisce lo spazio delle diverse storie della vita della Vergine, riprende infatti lo schema già adottato dal padre Bernardino nel tramezzo della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Lugano (1529-1532). Al contemporaneo Gaudenzio Ferrari richiama invece l'ordine delle storie narrate, con al centro l'Assunzione, a destra la morte e a sinistra la nascita di Maria Vergine, nonché la raffinatezza delle tipologie facciali, quali ad esempio il bellissimo volto della Madonna assunta. La datazione 1560 pone questi affreschi tra i primi successi di Aurelio, in concomitanza con la decorazione eseguita nel cantiere di San Maurizio al Monastero Maggiore di Milano, anch'esso monastero femminile benedettino, in cui l'artista iniziò a lavorare nel 1555. Questo conferma la volontà della badessa Castiglioni di voler adattare il suo monastero ai più aggiornati modelli milanesi in fatto di decorazione pittorica interna.Difficile è invece collocare cronologicamente e a livello di autografia la lunetta della parte superiore della parete, raffigurante Dio Padre in gloria tra gli angeli, considerata di fattura più modesta rispetto ai dipinti del Luini e più congruente alla decorazione della volta e delle altre lunette presenti nella sala (ad oggi quasi scomparse). Alcuni studiosi sostengono che tale decorazione venne eseguita prima del 1560 da una bottega milanese formatasi tra gli aiuti di Callisto Piazza, poi licenziata dopo l'esecuzione della lunetta e sostituita per volere della badessa dalla squadra di Aurelio Luini, in quello che doveva essere un tentativo di Antonia Castiglioni di imprimere nuova vitalità alle decorazioni del convento. Altri studiosi sostengono invece che lunette e soffitto siano state realizzate in concomitanza con l'iscrizione che corre lungo il cornicione della chiesa claustrale, datata 1590 (quindi posteriormente all'intervento del Luini), forse ad opera di alcuni artisti documentati come attivi tra il 1587 e il 1590 sulle volte della chiesa pubblica (Giovanni Antonio di Val Lugano, Salvatore Fontana e Giovanni Antonio Pozzi). row-2h4a_fs8v_h6ks Collezioni del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci" Milano Via San Vittore, 21 Il patrimonio storico del museo è costituito dalle collezioni (16.600 beni tecnico scientifici e artistici), dalla biblioteca (50.000 volumi e riviste) e dall'archivio (400 mt lineari di documenti e 50.000 fotografie). Raccolto a partire dagli anni '30 del Novecento dal fondatore del Museo, l'ingegnere e industriale Guido Ucelli - con il sostegno di Guglielmo Marconi e il contributo di altri industriali milanesi - testimonia la nascita dell'Italia industriale ed è rappresentativo della storia della scienza, della tecnologia e dell'industria dal XIX secolo ai giorni nostri. In questo ambito tematico e cronologico costituisce un unicum sul territorio nazionale e un punto di riferimento a livello internazionale.Il patrimonio storico del museo, in continua espansione, è frutto di donazioni o comodati da parte di istituzioni pubbliche e private, aziende e singoli cittadini.Le collezioni comprendono strumenti e apparati tecnico-scientifici provenienti dal mondo della ricerca, della didattica e dell'industria; congegni, dispositivi e prodotti di consumo di uso domestico e professionale; prototipi, modelli, macchine e impianti anche di grandi dimensioni provenienti da opifici, fabbriche e cantieri, relativi alle più diverse applicazioni della tecnica. Includono inoltre opere d'arte (pittura, scultura, arti decorative) e la celebre collezione di modelli di macchine e strumenti realizzati dall'interpretazione dei disegni di Leonardo da Vinci.Secondo il progetto del fondatore del Museo un moderno museo della scienza doveva infatti superare la tradizionale divisione tra sapere scientifico e cultura umanistica, permettendo ad arte e scienza di dialogare, convivere e compenetrarsi. In questa luce fu scelto Leonardo da Vinci come nume tutelare del Museo, una figura emblematica, che allora come oggi, rappresenta la fusione dei saperi. Nel 1953 il Museo inaugura con la mostra del cinquecentenario della nascita di Leonardo da Vinci presentando una serie di modelli di macchine e strumenti realizzati dall'interpretazione dei suoi disegni. La collezione di 137 modelli, oggi famosa in tutto il mondo, fu trasformata in esposizione permanente ed è ancora oggi il nucleo centrale del Museo.Il legame tra Arte e Scienza ha preso forma anche nelle collezioni d'arte arrivate al museo tra gli anni '50 e '70 e che comprendono dipinti, disegni, sculture, oggetti d'arte applicata e medaglie. row-f8fi_iqr9.8wwt Cristo in pietà con angeli Bergamo Via Pignolo, 76 Il dipinto raffigura il tema devozionale del Cristo in pietà, molto diffuso nella seconda metà del Quattrocento: Cristo morto in piedi nel sepolcro mostra le ferite e il corpo martoriato al fedele suscitando in lui la pietas e la compassione. Ai lati gli angeli mesti sono in atto di adorazione e accompagnano l'osservatore alla giusta disposizione d'animo. Sullo sfondo si accampa la croce in ricordo del supplizio patito mentre il drappo viola, elemento assolutamente inconsueto, simboleggia il lutto e la penitenza. Il dipinto costituisce la cimasa di una pala d'altare del pittore veneziano Alvise Vivarini raffigurante l'"Assunzione della Madonna", che si trovava in origine nella chiesa conventuale dell'Incoronata a Martinengo ed oggi conservata alla Pinacoteca di Brera. La pala con la sua cimasa è stata messa in relazione con le commissioni effettuate dal condottiero Bartolomeo Colleoni nel Monastero di Martinengo, da lui stesso fondato e completato nel 1475. Lo stesso Colleoni morì di malattia il 3 novembre di quell'anno ed è probabile che questa pala, che presenta nella tavola principale la immagine monacale della Madonna assunta al cielo e nella cimasa il Cristo morto in piedi nel sepolcro, siano in connessione con la fine dell'epopea umana di questo illustre personaggio. Il tema del "Cristo in pietà" è d'altronde ricorrente nelle commissioni artistiche del Colleoni, che aveva fondato nel 1466 una istituzione caritativa detta Luogo Pio della Pietà. row-8akj.2q7g~pmss Ecce Puer Milano Via Palestro, 16 row-wwqv_azsr-8zah Trofeo di armi Brescia Piazza della Loggia, 6 I due trofei sono posti sugli angoli del prospetto principale del Palazzo della Loggia: questa collocazione "di spigolo" conferisce loro un'evidenza plastica e figurativa che non ha uguali in tutto il decoro scultoreo dell'edificio e della piazza circostante. Secondo l'iconografia del trionfo antropomorfo, rappresentano un'armatura romana sormontata da un elmo e decorata, sul pettorale, da girali vegetali che prendono origine da un mascherone. A decorare la fronte dell'elmo ci sono una valva di conchiglia, una testa virile con la bocca spalancata ed una sfinge. Alla base dell'armatura c'è un altro volto maschile barbuto con una corona di foglie ricavato da un blocco di marmo separato. Insieme ai busti, i trofei costituiscono le sculture figurative di maggiore rilievo dell'apparato decorativo della Loggia. Con essi condividono il nitore e la plasticità delle forme che vengono esaltate dalla luce, la resa accuratissima dei dettagli evidente nelle pieghe della veste, nella descrizione delle foglie che fanno da corona al mascherone o dei dettagli decorativi di ispirazione vegetale così come nel modellato dell'armatura che evoca l'anatomia del soldato che la indossava. I tempi della loro realizzazione a opera di Gasparo Cairano sono documentati dai pagamenti che gli vengono corrisposti fra il maggio del 1499 e il marzo dell'anno successivo. Questa precisazione cronologica ha permesso, ai contributi più recenti di individuare nei trionfi della Loggia, una fra le derivazioni più precoci in Italia Settentrionale dei Trofei del Campidoglio a riprova del linguaggio innovativo e non periferico che si andava elaborando nel cantiere della Loggia fra Quattrocento e Cinquecento. row-48z9.rius_2ewq Cesti Briosco Via Col del Frejus, 3 Scultura astratta composta da due cesti di acciaio intrecciato, poggianti su una base in pietra e contenenti mattoni di forma irregolare disposti a raggiera; nella parte centrale i pezzi di cotto, dimensionalmente inferiori, vengono impilati uno sull'altro così da costruire una piccola piramide. I singoli cesti sono alti circa 110 cm e hanno un diametro di 120 cm. L'opera, realizzata da Franz Stähler nel 2004, è stata da lui donata alla collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini. Il contatto tra l'artista e Alberto Rossini avvenne in maniera casuale verso la metà degli anni Ottanta, in seguito ad una serie di viaggi di lavoro effettuati in Germania dall'imprenditore brianzolo. Durante uno di essi, Rossini conobbe il padre dello scultore, all'epoca molto giovane e non ancora affermato. Incuriosito dai suoi lavori, Rossini rimase in contatto con lui e quando l'artista si trasferì a Faenza nel 1986, lo invitò per lunghi periodi a casa sua, mettendogli a disposizione tutto l'occorrente per lavorare. Tutte le opere di Stähler presenti nel Parco di sculture della Fondazione sono dunque site-specific, ovvero create appositamente per questa sede e scrupolosamente collocate in essa dall'artista, dopo un attento studio dei parametri ambientali circostanti.La ricerca artistica di Stähler parte dalla corrente italiana dell'Arte Povera e dalle differenti esperienze che orbitarono intorno ad essa a partire dalla creazione del movimento nel 1967. Fulcro e motore dell'opera è il materiale scelto per la sua realizzazione, essenzialmente di natura povera e profondamente legato alla terra. Il ferro, il legno, la ceramica, il mattone, vengono modellati direttamente dall'artista che li eleva a materie prime dell'arte. Opere esemplari di questo processo creativo sono i due "Cesti" contenenti mattoni rossi di recupero, accuratamente disposti al loro interno per realizzare un nuovo insieme formale che punta a creare una sorta di piramide. Le opere sono disposte a terra, senza alcun piedistallo, come se si trattasse di rovine antiche, di reperti archeologici che spuntano dal terreno per trovare una nuova dimensione nel mondo moderno. row-z4tb.3bsq-gf7f Teoria di putti Pavia Via Lanfranco Beccari Tra il 1453 e il 1467 viene edificato, adiacente al fianco meridionale della chiesa, un piccolo chiostro, oggi mutilo, che nel raffinato impianto ricalca la volumetria del precedente romanico a pianta quadrata e del quale conserva le colonnine binate in marmo di Verona. L'iscrizione "HOC OPUS F. F. LUCAS ABBAS S.L. ANNO 1467" presente su un peduccio in cotto e raffigurante un putto con camiciola, a figura intera, tra foglie d'acanto, consente di risalire al committente l'abate Luca Zanachi da Parma, ultimo priore dell'abbazia vallombrosiana di S. Lanfranco, che commissiona il chiostro e promuove anche un rinnovamento del cenobio. A documentare l'eleganza originaria del chiostrino rinascimentale si conserva il solo lato porticato addossato alla chiesa, scandito da cinque arcate con esuberante decorazione plastica in cotto con una sequenza di vivaci putti rampanti e danzanti entro ornati vegetali che muove dai piedritti tra gli archi e si svolge lungo tutta la ghiera. La bellezza e la perfezione formale dei cotti con puttini in 'camiciola corta', la cui invenzione è tradizionalmente riferita all'Amadeo, hanno determinato il successo di tale motivo e la diffusione in numerosi edifici pavesi in epoca visconteo sforzesca. I puttini, affini a quelli in pietra del portale in Certosa, firmato dall'Amadeo e datato 1469, confermano l'attribuzione ad un giovane Amadeo, influenzato da Francesco Solari.Nel corso dei secoli il complesso monastico ha subito diverse perdite. Nel 1525 durante la celebre battaglia di Pavia che vede schierati Francesco I re di Francia e l'imperatore Carlo V, il monastero è scelto dal re francese, per la posizione strategica, per accampare le proprie truppe, subendo numerosi deterioramenti. A fine XVII secolo la struttura risulta pericolante a causa di gravi infiltrazioni delle vicine acque del Ticino, il cenobio è infatti edificato in Val Vernasca, in prossimità di un'ansa del fiume. Ma la menomazione maggiore risale al 1782 quando vengono demoliti tre lati del pregevole chiostro per poter ampliare la porzione destinata a cimitero parrocchiale.Si conserva, a est, anche un chiostro grande, commissionato all'Amadeo dal marchese Pietro Pallavicini da Scipione, protonotario apostolico e consigliere di Ludovico il Moro, che dal 1480 promuove un restauro della chiesa. row-gtfe_acs3_3p98 Collezione del Museo Civico "Carlo Verri" Biassono Via San Martino, 1 La Collezione del Museo Civico "Carlo Verri" si compone di migliaia di oggetti di diversa provenienza e datazione, afferenti a quattro principali sezioni.La sezione etnografica è costituita da strumenti per il lavoro nei campi (macchine agricole, attrezzi per la coltivazione e la lavorazione dei prodotti, un'incubatrice per uova di bachi da seta), oggetti legati alle principali attività artigiane (utensili da fabbro, falegname, ciabattino, sarto, muratore, ramaio, arrotino), la ricostruzione di interni domestici tradizionali (cucina e camera da letto), oltre che un orologio di campanile e una monumentale macchina fotografica. La ricca sezione numismatica consta di circa sei-settemila pezzi di origine greca, romana, bizantina e barbarica, quasi tutti in metallo vile e con alcuni esemplari in argento e oro. Di grande pregio e valore artistico è il ripostiglio monetale ritrovato nel 1975 presso la Cascina Sant'Andrea di Biassono, costituito da 2239 Sesterzi e Antoniniani di età romana imperiale, del peso di quasi mezzo quintale.La sezione archeologica include materiali di scavo di provenienza locale (Biassono, Briosco, Monza, Verano, ecc..), cui si aggiungono diversi reperti provenienti dalle grandi civiltà del Mediterraneo (Antico Egitto, Mesopotamia, Daunia, Etruria, Grecia, Roma) risalenti ad un periodo compreso dal Paleolitico e Neolitico fino al Medioevo (VI-VII sec. d.C.).La sezione dedicata a "Segno, scrittura e stampa" espone una pedalina (macchina da stampa tipografica), una lynotipe (macchina meccanica per la stampa), un torchio calcolgrafico e altri oggetti minori legati all'universo della scrittura. La nascita della collezione coincide e procede di pari passo con la fondazione e l'evoluzione del museo contenitore, a partire dal ritrovamento nel 1975 di un importante tesoro costituito da 2239 monete, scoperto dal Gruppo Ricerche Archeostoriche del Lambro (GRAL) tra i resti di una villa romana in località Cascina Sant'Andrea. A queste si aggiunsero ben presto numerosi altri materiali e reperti, da cui la necessità di ampliare le sezioni museali e trovare una sede permanente e definitiva per la collezione. Una parte del patrimonio afferente alla collezione è dunque pervenuto al Museo attraverso depositi statali (prevalentemente i reperti locali lasciati dalla Soprintendenza Archeologica) o attraverso acquisti effettuati con fondi comunali; ma la maggior parte dei beni (per lo più inerenti le raccolte etnografiche e numismatiche) è stata rinvenuta sul territorio da privati cittadini, biassonesi e non (in particolar modo dai soci del GRAL), e poi donata al Museo. Molti di questi oggetti, soprattutto attrezzi e macchine, sono giunti in sede dopo decenni di abbandono in discarica, in pessimo stato di conservazione: i volontari del GRAL si sono dunque occupati anche del loro recupero, inteso come smontaggio, ricostruzione di parti mancanti e rimessa in funzione dei meccanismi principali. L'afflusso dei materiali donati è ancora oggi continuo: essi vengono registrati e temporaneamente esposti in una vetrina all'ingresso, prima di raggiungere la collocazione definitiva presso le sale museali o il deposito, in attesa di essere esposti a rotazione o in occasione di particolari mostre tematiche. row-6ejp.d5az~rwi4 Natività Brescia Via dei Musei, 81/b La scena sacra si svolge all'interno di una capanna: due pastori accompagnati e incoraggiati da due angeli porgono in dono un agnello al Bambino. Questi, nella grande cesta di vimini riempita di paglia, lo accoglie con giocosa naturalezza, accarezzandogli il muso; la Madonna contempla assorta il figlio, mentre S. Giuseppe vigila alle sue spalle. La luce puntata sul primo piano accende i colori delle vesti, da quelle morbide e panneggiate del manto della Vergine, al bianco del drappo sul quale è adagiato il Bambino, fino a quelle setose delle tuniche degli angeli e a quelle rustiche delle casacche dei pastori. Leggere ombre sfiorano i volti degli angeli dalle grandi ali e ne sottolineano le intense espressioni. Sul fondo, dalla penombra, emergono alcuni particolari del misero rifugio, la finestra con un' anta scorciata, l'arco e il soffitto a travature della tettoia. Dal cielo si riverbera un chiarore, forse della luna o dell'angelo venuto ad annunciare, che svela l'interno della capanna con la sagoma del bue, sorprendentemente il centro visivo della scena, e la testa dell'asino con i grandi orecchi in controluce. L'opera entra nella collezione di Paolo Tosio per un acquisto avvenuto fra il 24 agosto del 1824 e il 5 gennaio del 1825: Giovanni Querci della Rovere, scaltro commerciante e antiquario che intrattiene con il conte stretti rapporti, rintraccia la grande Natività del Lotto, e da Bergamo, grazie ad un suggerimento di Teodoro Lechi, scrive al conte (21 agosto 1824) proponendogli la vendita del quadro, che aveva portato a Bergamo (forse da Milano), "fatto per i conti Baglioni di Perugia" e per il quale gli era stata negata l'esportazione in Piemonte. Il conte lo colloca sul camino della sua casa nella sala a mattino in posizione centrale vicino a due ritratti di Moroni e alla Vergine annunciata di Moretto. Il dipinto è registrato già nel 1826 nella Nuova Guida di Paolo Brognoli, dove si segnalano per la prima volta nei volti dei due pastori i presunti ritratti dei fratelli Gussoni. Al di là dell'identificazione dei personaggi, è interessante notare la fisionomia dei volti, dai lineamenti somatici somiglianti, tanto da supporre una stretta consanguineità fra i due, anche se quello leggermente stempiato sembra maggiore in età. L' insistente caratterizzazione è giustificata solo con l'ipotesi che si tratti effettivamente di ritratti dei committenti in vesti di pastori. L'abbigliamento dei due conferma l'appartenenza a un ceto sociale elevato: sotto le tipiche casacche di panno da pastore indossano camicie bianche con colletti e polsini arricciati, farsetti di velluto nero e braghe "frastagliate" e calze violette fermate al ginocchio da nastri azzurri: un elegante abbigliamento alla moda che volutamente viene nascosto per sottolineare una professione di umiltà.L'antica provenienza dell'opera è tutt'ora sconosciuta, anche se rimane plausibile una sua destinazione privata, da cappella di palazzo, confermata anche dal formato. Tramontata la supposizione di Bernard Berenson di riconoscere nel dipinto della Tosio Martinengo la Vergine che adora il Bambino attestata nel Seicento presso i Padri Riformatori di Treviso, anche l'idea di rintracciare i committenti all'interno della famiglia Baglioni di Perugia nei figli di Grifonetto è sfumata. La data 1530, emersa dal recente restauro, indirizza a ricercare la committenza a Venezia: l'artista risiede in quegli anni nella città lagunare, dove ottiene fama di ritrattista e dove la famiglia Gussoni detiene importanti proprietà e collezioni di dipinti.L'importanza dell'opera non è sfuggita a Roberto Longhi, che nella sua ricostruzione dei precedenti caravaggeschi ha ben evidenziato la propensione di Lotto a interpretare il fatto sacro con accenti di domestica e accostante familiarità. L'eccezionalità del dipinto ha la sua origine nell'atmosfera di poetico incanto creata dalle espressioni dei volti e dall'intima commozione religiosa nonché nel ruolo riservato ai committenti, chiamati a vivere in prima persona l'episodio miracoloso. row-en7a_hvgh~mpgw Crocifissione di Cristo, Assunzione della Madonna Milano Piazza San Marco La parte inferiore della parete occidentale del transetto meridionale della chiesa di S. Marco, è caratterizzata da una sovrapposizione di affreschi di diverse epoche e paternità, riscoperti durante una campagna di restauri effettuati nel Novecento. Al centro della parete, il lacerto più importante raffigura una "Crocifissione", nella quale Gesù è circondato, a sinistra, dalla Vergine sorretta da una pia donna e dalla Maddalena inginocchiata, e a destra, da San Giovanni affiancato da un santo abate (forse Sant'Antonio) e da Sant'Agostino inginocchiato, che regge tra le mani un cartiglio sul quale è ripreso un passaggio delle sue "Enarrationes in Psalmos". Sotto le braccia di Gesù, inchiodate alla croce, volano due angeli che raccolgono il suo sangue in un calice. Ai lati della Crocifissione sono visibili due lacerti raffiguranti, sulla destra, un San Cristoforo con il tipico bastone e il corso di un fiume, mentre, sulla sinistra, una santa oggi non più identificabile, di cui è rimasta solo la parte inferiore della veste. Entrambi i dipinti, eseguiti posteriormente a quello centrale, sono inquadrati in una partizione di finte lesene e possono essere considerati come un tentativo di occultare la Crocifissione, oppure di completarla facendola diventare un "trittico ad affresco" (santi di diverse proporzioni in adorazione della Croce). Ancora più a destra sulla parete si trovano lacerti di una "Assunzione della Vergine". Nella parte inferiore del frammento sono visibili soltanto cinque teste di apostoli con lo sguardo rivolto verso l'alto: esse si presentano molto ben caratterizzate a livello fisionomico e incorniciate da un'aureola dorata a pastiglia, tuttavia ne risulta impossibile l'identificazione. Sopra di loro, sullo sfondo di un cielo stellato, si staglia l'immagine della candida veste della Vergine, circondata da angeli che reggono un lungo e articolato cartiglio. Altri due angeli sono invece dipinti sullo stipite in cui risvolta la parete, intenti l'uno a cantare a l'altro a suonare l'organo. Sul lato sinistro del lacerto invece, sospeso nel cielo, appare un castello torrito che alcuni storici hanno letto come raffigurazione della Gerusalemme Celeste. Nel 1956, in occasione dei restauri eseguiti da Pinin Brambilla Barcilon sugli affreschi della parte inferiore della parete meridionale del transetto, fortemente danneggiata da fessurazioni, vennero tolte le arche di maggior peso con la conseguente scoperta di tre dipinti di epoca tardo medievale coperti nel periodo barocco. In questa sequenza non esistono sovrapposizioni di opere diverse, infatti la parte oggi mancante dei dipinti trecenteschi era stata cancellata dalla pittura dei fratelli Della Rovere (detti Fiammenghini) già in epoca seicentesca, mentre la parte visibile è rimasta intatta in quanto coperta dai monumenti marmorei.Al centro la parete è dominata da una "Crocifissione", realizzata intorno alla seconda metà del XIV secolo. L'opera è stata a lungo riferita dalla critica al pittore lombardo Anovelo da Imbonate, attivo a Milano intorno all'ultimo quarto del Trecento, mentre studi più recenti tendono ad assegnarla ad un anonimo pittore, la cui mano è stata riconosciuta anche nelle basiliche di S. Lorenzo e S. Eustorgio. Tale opera sarebbe infatti stilisticamente legata alla cultura pittorica legata alla matrice giottesca di Giovanni da Milano, qui evidente soprattutto nel realismo presente nella trattazione delle espressioni dei volti. Di norma presente nei refettori e nelle sale del Capitolo, il tema della crocifissione ritornò tra XIV e XV secolo anche a decorare gli interni delle chiese degli ordini mendicanti, affiancata al più favorito tema dell'Eucaristia, in un momento storico (quello del Grande Scisma) in cui erano assai diffusi i dibattimenti circa il sacramento eucaristico e la doppia natura di Cristo. L'inserimento di tale tematica nel transetto si deve, probabilmente, alla committenza agostiniana, che volle associare apertamente la morte in croce di Gesù al forte significato eucaristico conferito alla rappresentazione dal sangue di Cristo che viene raccolto dagli angeli nei calici. Tale riferimento risulta rafforzato anche dalla scritta presente sul cartiglio di Sant'Agostino, tratta dal sermone di commento al Salmo XXI, che recita "...croce salutare per allontanare ogni sorta di veleno dei superbi calunniatori".Alle soglie del XV secolo sono invece databili i resti dell'"Assunzione della Vergine", collocata nella parte destra della parete. Tale affresco, di notevole qualità pur nella sua frammentarietà, rappresenta un raro esempio di trattazione di questo tema in Lombardia, dove la Vergine veniva usualmente raffigurata in trono all'interno di una mandorla. La critica ha ipotizzato che questa iconografia sia connessa al dogma trinitario, capace di proporre l'immagine della Vergine Assunta o Incoronata come tramite fra cielo, qui perduto, e terra, qui rappresentata dagli apostoli. A partire dalla seconda metà del XIV secolo, inoltre, gli agostiniani parteciparono attivamente anche ai dibattiti sull'Immacolata Concezione. In quest'ottica la scelta di un tema iconografico come quello dell'Assunzione in cielo, non poteva che confermare la loro visione teologica secondo la quale la Madonna, in quanto Immacolata, fu esentata dalla morte cui invece è sottoposto tutto il genere umano.Indubbia è ad ogni modo la grande raffinatezza nell'esecuzione dei dettagli del dipinto, in particolare la veste candida della Vergine costruita attraverso un'attenta modulazione di pieghe, arricchita da lumeggiature di biacca e dalla presenza di un lungo ciondolo pendente. Tale maestria tradisce una cultura figurativa tardogotica lombarda, probabilmente formatasi nell'ambito culturale di Giovannino de' Grassi. row-zbhy.kknd_5p3c Galleria della Accademia Tadini Lovere Via Tadini, 40 Il nucleo principale della Galleria è rappresentato dalla collezione raccolta dal conte Luigi Tadini e da lui allestita nella sede attuale; comprende una sezione di dipinti antichi (dal XIV al XIX secolo), una collezione di porcellane e biscuits, sculture in marmo e legno, bronzetti, medaglie, disegni antichi, stampe e incisioni, materiale archeologico, armi e armature e una biblioteca. A questa si aggiungono successivamente il fondo della Scuola di disegno, costituito da libri di modelli, gessi didattici, utilizzati per le attività artistiche dell'Accademia nel corso dell'Ottocento, e disegni degli allievi, la donazione di Teresa Banzolini Storti, con documenti, cimeli e medaglie di età risorgimentale, e la donazione Zitti, che comprende un Ceruti e mobili pregiati. Più recentemente sono stati acquisiti fondi di arte contemporanea. Nel 1827 il conte Luigi Tadini faceva trasferire da Crema tutte le collezioni che sino ad allora erano state esposte nelle dieci sale della sua residenza privata. La collezione rispecchia la varietà di interessi di un aristocratico cresciuto nel clima dell'Illuminismo lombardo. Tra le sculture si segnala un importante nucleo legato ai rapporti del conte Tadini con Antonio Canova: il bozzetto per la statua della Religione e la Stele Tadini, conservata nella cappella interna al Museo. Le Sale a quadri non erano organizzate per scuole, ma volte a documentare alcune eccellenze della pittura. Il nucleo centrale è rappresentato dalle opere di origine cremasca e da un prezioso nucleo veronese. Gli acquisti effettuati sul mercato antiquario annoverano poi capolavori di Jacopo Bellini, Antonio Vivarini, Marco Palmezzano, Palma il giovane, fra' Galgario. La sezione dei disegni comprende pezzi sei-settecenteschi di area lombarda e veneta. La preziosa raccolta di porcellane - tra le prime in Lombardia - affianca al nucleo di materiali orientali una scelta selezione di pezzi delle manifatture di Parigi, Meissen, Hochst e Vienna e, sul versante italiano, Este e Napoli, sculture in biscuits della fine del sec. XVIII. Questo nucleo originario si è arricchito di successive donazioni tra cui, nel 1953, la collezione Zitti che annovera un Ceruti e pregiati mobili. Il fondo della Scuola di pittura comprende di modelli in gesso, alcuni libri di modelli e un nucleo di fogli realizzati dagli allievi tra Otto e Novecento. row-7qng_nedt.u2ak Collezione paramenti sacri e arredi liturigici Museo Diocesano d'Arte Sacra Lodi Via Cavour, 31 Le suppellettili che si possono suddividere in paramenti sacri e arredi liturigici sono custoditi nella cappella maggiore, in cui spicca un'urna a reliquiario del 1895 in metallo fuso e cesellato, argentato e dorato realizzato nel 1895 dal cesellatore G. Lomazzi di Milano su disegno dell'architetto E. Pirovano, evidenziando la ripresa del gusto gotico elaborato in chiave ottocentesca, come mostrano le guglie e i pinnacoli che lo decorano. Pregevoli sono anche i calici ottocenteschi e una preziosa legatura di messale romano del 1853 in velluto porpora e metallo argentato e dorato. L'oggetto più importante risulta essere la croce astile in lamina d'argento del 1519 e realizzata da Bassiano Vegio per la cattedrale di Lodi. Per quanto riguarda gli arredi liturgici, la cappella conserva una serie di paliotti ricamati che si scalano fra il Settecento e l'Ottocento, spesso realizzati con fili preziosi come argento e oro oltre alle sete policrome. Sempre ottocentesco è il faldistorio posto prima del baldacchino ligneo caratterizzato dai quattro simboli degli Evangelisti nella parte superiore e al centro dallo stemma di Mons. Benaglio. Infine, sopratutto perchè legata all'iconografia di San Bassiano, patrono della città, si ricorda la Pace con San Bassiano, in metallo argentato, che veniva utilizzata dai fedeli durante lo scambio della "pace" anzichè la più recente stretta di mano, con il santo accompagnato dalla cerva e dai suoi piccoli, che l'agiografia dello stesso ricorda essre stati salvati dal cacciatore. Un altro faldistorio compare nella Sala III, più semplice rispetto a quello della cappella, caratterizzato da quel movimento leggero e sinuoso tipico degli arredi rococò. Nella Sala IV, cioè la sala del tesoro donato dal vescovo Carlo Pallavicino nel 1495 alla cattedrale di Lodi, vi sono due oggetti straordinari: il Tabernacolo e il Baldacchino, capolavori di arte suntuaria lombarda. Nella vetrina il piccolo manoscritto col l'atto di donazione del tesoro e la bolla in pergamena della fondazione dell'Ospedale maggiore di Lodi. La collezione del Museo Diocesano d'Arte Sacra è ospitata all'interno delle sale che costituiscono un'ala del palazzo vescovile. I dipinti qui conservati provengono per la maggior parte dalla cattedrale, dal vescovado e da varie parrocchie del lodigiano, e sono posti in questo luogo per ragioni di tutela o di precario stato di conservazione. Non è possibile individuare un nucleo collezionistico nè stabilire quali siano stati i criteri espositivi o di scelta delle opere, qui esposte a partire dal 1980, quando il museo venne inaugurato e aperto al pubblico. row-hthq_jxsg_qr78 Madonna con Bambino con San Francescoa, Santo e i committenti, Cristo in Pietà con la Vergine, San Gregorio, San Giovanni Battista, Santa Maria Maddalena Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 l polittico mostra al centro la Madonna con il Bambino mentre a destra si apre un paesaggio percorso da nubi. A sinistra San Francesco d'Assisi, riconoscibile per le stigmate, il saio e la croce, che presenta il committente, a cui corrisponde il pannello di destra con un Santo che protegge la figura femminile. Entrambi i pannelli mostrano un accenno di paesaggio. La predella, caratterizzata da pilastrini che reggono sinuose arcate, mostra al centro Cristo in pietà affiancato, da sinistra, da San Gregorio magno, la Vergine, San Giovanni evangelista e Maria Maddalena. Il polittico è in realtà un incastro, in tempi recenti, di tavole di autore e provenienza diversa. La Madonna col Bambino potrebbe essere riferibile all'ambito veneziano, in quanto sembra riprendere le impostazioni di Giovanni Bellini. La stilizzazione dei panneggi, i minuti ornamenti del manto, il Bambino luminoso, volumetricamente articolato e un po'lezioso, la tenda che sembra quasi un fondo neutro contribuisce ad evidenziare la luce che investe le figure sacre. I ritratti dei due committenti, in devoto atteggiamento, sono dipinti con un semplice realismo secondo la tipologia della ritrattistica lombarda, forse di ambito bergamasco. Le formelle della predella su fondo oro, individuano un ambito pavese decisamente antecedente. row-3q33-ba2y-aqee Galbiate Via Camporeso La "caréta di pulastrèi" o "cariöla" è una gabbia di legno che veniva usata per contenere e trasportare pollame in primavera o in estate. E' un oggetto di grandi dimensioni, a listelli tondi e dotata di manici, ruota e due sportellini, uno dei quali è munito di fermo di chiusura. Sollevata e spinta a braccia, all'occorrenza veniva appoggiata a terra grazie ai due piedi di sostegno. Ogni giorno le galline venivano portate in campagna dove, una volta liberate tramite lo sportello anteriore, razzolavano liberamente nel prato. Al crepuscolo venivano fatte rientrare nella gabbia, riportate indietro presso casa e rilasciate nel pollaio (serài/pulée), dove subito si disponevano per la notte, raggiungendo un palo posto in orizzontale, sollevato da terra (la resteléra di gaén) e 'litigando' fra loro per il posto. I polli, a sera, dopo breve esperienza, rientravano da soli nel mezzo di trasporto, senza solleciti, mentre la mattina occorreva introdurli a mano, uno per volta, attraverso il portello superiore. In alcuni casi, in alternativa al pollaio, il locale rustico di disbrigo (casàscia) o anche la cucina fornivano un riparo notturno agli animali da cortile, che fino a mattina rimanevano stipati nella carriola. Analogamente, di giorno, nell'eventualità di bruschi cambiamenti meteorologici, i pennuti in gabbia trovavano rifugio (sé metéven a tèc') negli ambienti di ricovero per attrezzi (casòt/casutèi) sparsi per la campagna. Il manufatto, in uso dalla prima metà del sec. XX fino agli anni Settanta, è stato realizzato dal contadino Pietro Crippa di Brongio (frazione di Garbagnate Monastero - LC) per il proprio uso personale: le assicelle sono state tornite, levigate, forate col trapano a mano (girabechén/menàu) e unite mediante commettitura o inchiodatura; le due metà della ruota sono congiunte grazie a lamine in ferro e a una cintura in cuoio (curàm) che ne borda lo spessore, a evitare la consunzione del legno ammorbidendo nel contempo l'impatto col suolo. Le carenze proteiche dell'alimentazione brianzola venivano in parte colmate col ricorso agli animali da cortile, anche se quelli da penna (galline e capponi, oche e tacchini, anatre e faraone), insieme con le uova, il più delle volte prendevano la via del mercato; solo in speciali ricorrenze, in umido o lessati, erano destinati alla tavola. Le uova non vendute erano riservate ai bambini malati e ai maschi di casa.Le più comuni razze di galline erano il pollo nano allevato allo stato brado (mericanèi), la gallina padovana (grossa, dal rosso piumaggio), l'ovaiola (piumaggio rossiccio ma di taglia più piccola della precedente), la livornese (bianca, di medio taglio). row-iff6-m43f~33u4 Pietà Brescia Via S. Francesco Cristo è seduto su una sarcofago marmoreo dalla sagoma essenziale decorata unicamente da un profilo modanato, ai lati ci sono S. Giovanni che gli stinge la mano e la Madonna che appoggia il capo a quello di Gesù. La composizione è completata da una incorniciatura architettonica composta da due colonne grigie con plinti e capitelli compositi giallo ocra che sostengono un architrave liscio. Le figure sono legate fra loro da un complesso gioco di geometrie formate dalle vesti, dal perizoma che avvolge i fianchi di Cristo, dalle braccia e dalle gambe delle figure. La cromia, dalla consistenza perlacea, si basa su una prevalenza di grigi sui quali la luce si distribuisce a rilevare dettagli anatomici e fisionomie. Nella veste di S. Giovanni si arricchisce di un rosa intenso, con lumeggiature bianche che sottolineano il panneggio. L'affresco, staccato e riportato su tela, proviene da una casa privata situata in contrada del Carmine e viene donato alla chiesa di S. Francesco da Giovanni Battista Bertoni nel 1919. Questi dati erano illustrati da un'iscrizione, ora non più visibile, ma documentata da foto d'epoca, che si trovava nella parte bassa del dipinto. Pubblicato per la prima volta alla fine degli anni trenta del Novecento, è ascritto ad un autore operante nella cerchia di Girolamo Romanino. Le indubbie analogie stilistiche con le opere di quest'ultimo artista hanno orientato la critica nelle attribuzioni successive, che hanno coinvolto oltre allo stesso Romanino, artisti a lui vicini come Francesco Prata da Caravaggio e Altobello Melone. Proprio quest'ultimo riferimento di paternità sembra trovare concorde la storiografia più recente, che individua nella Pietà di S. Francesco quei forti legami con Bramantino e Zenale caratterizzanti le opere note del pittore cremonese. L'opera è databile a secondo decennio del XVI secolo anche alla luce di un confronto con un affresco di soggetto analogo conservato nella chiesa di S. Maria Annunciata a Nave e datato 1512 che mostra i medesimi tratti stilistici. row-rbcu~4d9v_65ct Scena marina con figura d ipescatore Milano Corso Magenta, 15 row-nivm.ywu6.htwb Dervio Piazza Giuseppe Garibaldi Il monumento è formato da un basamento caratterizzato da un motivo a fasce chiare e scure alternate, su cui poggia una struttura a edicola con arco a sesto acuto abbellito da un raffinato motivo a traforo. Superiormente una coppia di colonne binate poggia sul dorso di due delle immagini simboliche degli evangelisti raffiguranti, rispettivamente, il leone (S. Marco) e il bue (S. Luca). L'immagine dell'aquila (S. Giovanni) e dell'angelo (S. Matteo) sono, invece, scolpite su formelle poste ai lati interni dell'edicola. Il timpano è contraddistinto dalla presenza degli stemmi Andreani ai lati, mentre al centro è posta la figura dell' Ecce Homo. Sugli acroteri laterali s'innalzano le statue a tutto tondo dell'Arcangelo Gabriele e della Vergine e, su quello centrale, del Crocifisso. Anche il fronte del sarcofago è ornato da riquadri: al centro la Madonna in trono con Bambino, affiancata da due angeli reggi cortina, ai lati S. Giovanni Battista e S. Tommaso di Canterbury, alle estremità S. Pietro e S. Caterina d'Alessandria. In assenza di documenti è difficile stabilire una datazione certa. Ne è stata, tuttavia, ipotizzata una datazione su basi stilistiche alla metà del XIV secolo. row-m35h-snk8~72xe Collezione del Civico Museo d'Arte Moderna e Contemporanea - Castello di Masnago Varese Via Cola di Rienzo, 42 Il complesso dei Musei civici sorge attorno all'antica torre del secolo XI inserita nel Parco Mantegazza, sulla sommità del colle di Masnago. La struttura architettonica, pur avendo subito nei secoli numerosi rimaneggiamenti, conserva al suo interno parte delle originali decorazioni pittoriche murali quattrocentesche, oggi facenti parte del percorso espositivo. Al primo piano è visibile la "Sala degli Svaghi", decorata con affreschi raffiguranti passatempi di corte, mentre al piano superiore è collocata la "Sala dei Vizi e delle Virtù", caratterizzata da una grandiosa decorazione che ha per tema uno dei confronti allegorici più diffusi nel panorama iconografico rinascimentale. Accanto a questa sala si trovano la "Sala della Musica", la "Sala della Crocifissione" e la "Sala delle colonne". Le opere mobili musealizzate sono esposte principalmente nella parte medievale dell'edificio. Il piano terra ospita esempi di arte pittorica e scultorea del Sei e Settecento, le opere dei più importanti pittori lombardi dell'Ottocento (Hayez, Bertini, Cremona, Ranzoni, Pellizza da Volpedo) e una raccolta di disegni del Piccio. Al primo piano è invece collocata la sezione di opere legate al Novecento e rappresentate principalmente da artisti italiani, quali Giacomo Balla, Enrico Baj, Emilio Tadini, Dadamaino e Floriano Bodini. L'ala settecentesca del palazzo è invece destinata alle mostre temporanee, agli spazi didattici e all'accogliente Sala Convegni, che affaccia direttamente sul parco. L'allestimento, che procede in ordine cronologico, intende creare particolari connessioni culturali tra le opere esposte e il territorio. Per rendere maggiormente interessante la visita al museo, nell'ala più antica, decorata con affreschi tardo medioevali, è stata compiuta la scelta di collocare opere d'arte contemporanea, capaci di suggerire un dialogo inedito tra le differenti espressioni artistiche. Il Castello di Masnago nacque intorno al 1015 come fortilizio medievale, di proprietà di un ramo della famiglia Castiglioni. Dell'originale decorazione interna si conservano oggi "solamente" i cicli quattrocenteschi, probabilmente commissionati tra il 1443 e il 1453 da Maria Lampugnani, moglie di Giovanni Castiglioni e proprietaria del Castello. L'ampia "Sala degli Svaghi", salone di rappresentanza della villa, è stata ricondotta allo stile del gotico internazionale, diffusosi a partire dalla fine del XIV secolo nelle corti di tutta Europa. La "Sala dei Vizi e delle Virtù" viene invece attribuita ad un anonimo artista vissuto intorno alla metà del Quattrocento. La "Sala della Crocifissione" viene ritenuta probabilmente una cappella, mentre la "Sala della Musica" doveva essere originariamente uno studiolo, decorato all'inizio del XVI secolo con spiccato gusto rinascimentale, utilizzando come modello le opere lasciate da Bramante a Milano. La "Sala delle Colonne" è infine la più tarda del ciclo, realizzata intorno alla metà del Cinquecento. Il nucleo più antico della Collezione dei Musei Civici risale alla seconda metà del XIX secolo ed era composto prevalentemente da reperti archeologici collocati, prima, presso il Museo Patrio e, a partire dal 1949, presso la sede di Villa Mirabello a Varese. Nel 1965, grazie alla donazione effettuata da Amelia Bolchini de Grandi, il museo si arricchì di una sezione di arte moderna e contemporanea che comprendeva opere di numerosi artisti varesini oltre a capolavori di Emilio Longoni e di Giacomo Balla. Durante tutta la seconda metà del Novecento la collezione civica venne ulteriormente implementata attraverso donazioni pervenute da illustri famiglie lombarde e dagli artisti stessi, nonché acquisti mirati di ulteriori opere, soprattutto di epoca sei e settecentesca (grazie al lavoro del critico Giovanni Testori). È al 1995 che risale il trasferimento delle opere all'interno del Castello di Masnago. row-7kf6.nggn~66bi Collezione de' Micheli Milano Via Mozart, 14 La Collezione è composta da oltre centoquaranta oggetti d'arte del XVIII secolo, tra dipinti, sculture, arredi e suppellettili. Tra gli oggetti spicca un significativo nucleo di tele di scuola veneziana, quali un bozzetto di Giambattista Tiepolo, una coppia di vedute della città lagunare di Michele Marieschi, il "ritratto del Marchese di Townshends" di Rosalba Carriera, la "veduta dell'Ingresso al Canal Grande" di Canaletto. Le raffinate miniature di Jean-Baptiste Isabey, artista e scenografo della Parigi napoleonica, si affiancano ad alcuni piccoli ritratti del celebre Augustin. All'ebanisteria francese Luigi XV e XVI, si accompagnano il mobile dell'ebanista piemontese della Real Casa, Luigi Prinotto, e la bella coppia di console settecentesche di fattura genovese. La collezione si arricchisce di una raccolta di ceramiche di produzione milanese del XVIII secolo. Le porcellane provengono dall'Oriente, mentre la collezione di tabacchiere è di manifattura francese, tedesca e inglese. Nel 1995, con il consenso della moglie, Emilietta, Alighiero de'Micheli destina al FAI un generoso legato testamentario comprendente gli arredi e le opere d'arte esposte nel suo salotto di casa. Alighiero de'Micheli, esponente di spicco della borghesia lombarda, fu un noto imprenditore del settore tessile, la cui grande passione era la stampa d'arte, in tutte le sue espressioni. La collezione, oggi esposta all'interno di Villa Necchi Campiglio a Milano, è visibile nella stanza destinata un tempo a camera da letto della principessa Maria Gabriella di Savoia. La "stanza museo", per volontà del donatore, è stata allestita dall'architetto Filippo Perego di Cremnago. row-kzka.wjpi.tkcs Profeta, Annunciazione, Profeta dormiente, Crocifissione, Elementi fitomorfi, Entrata di Cristo in Gerusalemme, Adorazione dei pastori Lodi Via Cavour, 31 Le miniature, che presentano quasi tutti un fondo oro, raffigurano: la lettera P decorata con elementi floreali in azzurro e verde, nel cui campo interno su uno sfondo paesaggistico vi è un profeta stante che regeg con la sinistra un cartiglio, mentre con l'indice della mano destra indica verso l'alto; letetra N con la raffigurzione della Annunciazione ambientata in un portico di classicheggiante. A sinistra l'Angelo saluta la Vergine, seduta a un banco di lettura, mentre con atteggiamento smarrito accogli l'annuncio; lettera G, decorata con mostri marini e un fregio fitomorfo, in cui si nota un paesaggio di campagna in cui dorme un profeta, mentre a destra tre dignitari sono in attegiamento di attesa; lettera P con l'Adorazione dei pastori, che si svolge davanti ad una grotta, mentre sullo sfondo si nota l'annuncio degli angeli ai pastori; lettera O con la Crocifissione; lettera L con un profeta a mezzo busto che predica dal pulpito; lettera I con l'Entrata di Cristo a Gerusalemme. Infine cinque lettere, G, S, I, E, K ritagliate, col corpo fitomorfo. La serie di miniature su pergamena provengono dall'Abbazia olivetana di Villanova Sillaro, poco distante da Lodi. Fanno parte di un gruppo di miniature staccate provenienti da alcuni cicli di corali ora divisi in varie collezioni europee. Alcune di esse portano le iniziali B.F., sciolte da P. Wescher in "Francesco Binasco", un importante miniatire milanese attivo fra la fine del XV e il 1542. Secondo la critica più recente, i manoscritti di Villanova Sillaro sarebbero databili tra il primo CInquecento e gli inizi del terzo decennoo, per le forti impressioni leonardesche visibili in alcune scene, come l'Annunciazione. Sono state rifilate in un momento impreciso per poter essere vendute sul mercato antiquariale. row-d7ww.3u4a~y22p Ritratto di Alessandro Manzoni Lecco Via Don Guanella, 1 Alessandro Manzoni è raffigurato a mezzo busto, leggermente girato verso sinistra, su uno sfondo neutro. Il dipinto, donato nel 1987 dal Credito Valtellinese ai Musei Civici di Lecco, è stato attribuito a Giuseppe Molteni (1800-1867) che lo eseguì intorno alla metà dell'Ottocento. Costituisce l'immagine maggiormente rappresentativa di Alessandro Manzoni, autore de "I Promessi Sposi", che era peraltro alquanto ritroso nel farsi effigiare. Questo è il ritratto 'tipico' dello scrittore, entrato nell'immaginario collettivo. row-mwim~in2c~ujp4 Natura morta con manichino Milano Piazza Duomo row-faek~p2t4_tjbv Madonna Assunta Lecco Via Don Guanella, 1 La Madonna è raffigurata seduta sulle nubi, coperta da un abito bianco e da un manto azzurro svolazzante. E' circondata da paffuti angioletti, dalle carni morbide e rosate, in parte drappeggiati con panni gialli e arancioni. In basso, sul coperchio del sarcofago vuoto, sono adagiati fiori freschi. L'opera sembra avvolta da una lieve brezza che increspa le vesti, imprimendo un leggiadro moto ascendente alla composizione. Sebbene la Cappella dell'Assunta sia stata completata nel 1777, l'opera appartiene sicuramente a una fase anteriore. Infatti, inequivocabili dati stilistici inducono ad attribuirla a Carlo Preda, uno dei più significativi protagonisti del barocchetto lombardo. Si deve, perciò, ipotizzare che il dipinto provenga da un altare preesistente. Esso fu presumibilmente eseguito da Preda all'inizio dell'ultimo decennio Seicento, data la vicinanza stilistica con altri lavori coevi del pittore e, in particolare, con le Storie di Santa Caterina conservate nella Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano. row-e4nn_3fcr.fyv5 Madonna con Bambino, san Sebastiano, sant'Antonio abate, san Rocco e san Siro Breno Piazza S. Antonio Il dipinto è inserito in una cornice lignea intagliata, dipinta e dorata con motivi decorativi antropomorfi e fogliami, tre tondi della predella con santi, tra cui S. Goivanni Evangelista (al centro), e altri due tondi nei pennacchi con l'angelo annunciante e la Madonna annunciata. Al centro, in posizione sopraelevata e seduta su un trono con basamento marmoreo arricchito da un tondo scolpito con un nudo maschile reggente una fiaccola, è rappresaentata la Madonna con in braccio Gesù Bambino. Alle sue spalle due angioletti in volo reggono un drappo che copre in parte lo schienale semicircolare del trono. I santi si distribuiscono sui lati e su due piani. Più lontano vi sono S. Sebastiano e S. Rocco, rappresentati rispettivamente con le frecce conficcate sul corpo simbolo di martirio e con la conchiglia da pellegrino sul mantello, contrassegno dei pellegrini. In primo piano, a sinistra appare S. Antonio abate con piviale riccamente decorato e con il tipico campanello, comunemente usato per scacciare gli spiriti maligni, mentre a destra S. Siro, anch'egli indossante un ricco piviale. La tela è tra le migliori prove di Callisto Piazza, rappresentante di punta di una famiglia di pittori nati a Lodi e attivo nella prima metà del Cinquecento tra Brescia, Crema, Novara, Milano e Lodi. Contraddistinta da una cromia particolarmente vivace, illuminta dalla luce fredda che proviene da sinistra illuminando le forme e dando movimento alla composizione, documenta in Callisto una cultura che accoglie e coniuga suggerimenti diversi, in questo caso soprattutto legati a Romanino, Moretto e Pordenone. La critica ha sottolineato la vena naturalistica di questa rappresentazione e soprattutto delle figure dei santi vescovi, effigiati con particolare attenzione alla resa delle rughe, delle tensioni muscolari del viso, nella resa dell'incarnato. Precisa è anche la resa della base su cui poggia il gruppo mariano, a sua volta suggerito da una stesura compatta e trornita, in perfetto equilibrio con lo spazionsuggerito dalla forma circolare dello schienale del trono retrostante. Da notare che i vescovi raffigurati, e soprattutto S. Siro, sono santi cari alla devozione camuna, qui presentati mentre invocano la protezione della Madonna. row-3hs7_w55e-bepa Brescia Via S. Francesco Rispetto ad esempi contemporanei, la maestosa ancona si presenta come una vera e propria architettura tridimensionale che ripropone la struttura di un arco trionfale e non come una semplice cornice decorativa che fa da completamento secondario per la pala dell'altare maggiore. Su una base costituita da due gradini si appoggiano quattro colonne lavorate a tutto tondo che sostengono l'arco a pieno centro concluso da un architrave con fastigio. Nei pennacchi sono inseriti due tondi dai quali emergono altrettante figure di santi vescovi, il fastigio è arricchito, nella parte centrale, da un tondo scolpito a mezzo rilievo che raffigura la Pietà. Gli elementi architettonici sono completati da una vivace decorazione di ispirazione antiquaria secondo una gusto che caratterizza il linguaggio rinascimentale lombardo: grottesche, girali vegetali, festoni con fiori e frutta, animali mitologici che assumo un vero e proprio rilievo plastico nel fastigio facendo da corona al tondo figurato. Sulla base e al centro dell'architrave sono inseriti dei tondi con iscrizioni che documentano la storia dell'ancona. La maestosa ancona viene commissionata per fare da cornice alla pala dell'altare maggiore. Entrambe le opere si inseriscono nel piano di rinnovamento della chiesa e dell'annesso convento promosso da padre Francesco Sanson, divenuto generale dell'ordine francescano nel 1475. Bresciano di origine, il Sanson si adoperò per arricchire di opere d'arte di primaria importanza il convento della sua città natale. Stando all'iscrizione contenuta nel tondo che si trova al centro del basamento l'ancona era già completata nel 1502 (F. FRANCISCUS/ SANSON DE BRIX./ M.M. GENERALIS/ AERE SVO/ MDII). Sebbene la scritta sia una integrazione ottocentesca fatta probabilmente in occasione del restauro ricordato nel tondo al centro dell'architrave (A./ MDCCCXXI/ TEMPLI CURATORES/ IN MELIUS/ RESTITV[ERUNT]) , si può ipotizzare con una certa sicurezza che riproponga l'originale rinascimentale senza grandi variazioni. L'ancona è attribuita allo scultore bresciano Stefano Lamberti sulla base di un confronto stilistico stringente con una analoga opera realizzata per la chiesa di San Giovanni Evangelista, la cui autografia è documentata dal contratto di allogazione. Le grandi "macchine d'altare" dello scultore sono caratterizzate dalla loro fisonomia tridimensionale, sono delle vere e proprie architetture lignee strettamente legate, sia negli elementi strutturali sia in quelli decorativi, ai grandi cantieri rinascimentali della città come la chiesa di Santa Maria dei Miracoli o il primo ordine del Palazzo del Loggia. row-qe8g-hv3y.6emi Raccolta del Museo Diocesano d'Arte Sacra di Scaria Lanzo d'Intelvi Piazza Carloni Le collezioni sono costituite da una vasta tipologia di oggetti e di opere d'arte giunti in Museo dalle parrocchie della Val d'Intelvi, da enti pubblici (Comune di Lanzo Intelvi) e da privati. Si tratta in gran parte di manufatti e di opere d'arte di ambito ecclesiastico, già in uso nelle chiese della valle (oreficerie medievali e barocche, paramenti e arredi liturgici), tra i quali spiccano una croce astile, detta "croce antelamica", databile tra XI e XII secolo, e diverse oreficerie settecentesche. A essi si affianca una collezione di dipinti e di sculture di artisti intelvesi, dei quali fanno parte un importante nucleo di ritratti settecenteschi del pittore Carlo Innocenzo Carloni (1686-1775) raffiguranti diversi membri della famiglia De Allio, originari di Scaria ma attivi a Vienna nel XVIII secolo in qualità di ingegneri e militari al servizio della monarchia asburgica. Un altro ritratto, sempre opera del Carloni, raffigura il prete Giovanni Antonio Luraghi, nativo di Scaria ma trapiantato in Baviera, effigiato nelle vesti di benefattore della scuola per i fanciulli fondata nel paese natale nel 1754 per volontà dell'ingegnere militare Donato Felice de Allio. Dalla parrocchia di Pellio Intelvi sono depositate invece otto statuette lignee con figure di santi provenienti dalla bottega romana dello scultore Ercole Ferrata (1610-1686), originario di Pellio inferiore, a testimonianza dello stretto legame sempre mantenuto dagli artisti della Val d'Intelvi con i loro paesi d'origine. Il Museo diocesano di arte sacra è stato fondato nel 1966 come sede di esposizione delle opere d'arte, delle oreficerie e delle suppelletili ecclesiastiche di proprietà della Parrocchia di Scaria e di altre della valle Intelvi. Negli ultimi anni gli ambienti del museo sono stati sottoposti a un intervento di adeguamento e di ammodernamento, che ha comportato anche un nuovo allestimento del percorso espositivo. row-hsiu~gesi-xk4y Madonna dell'Umiltà Lovere Via Tadini, 40 Il dipinto mostra l'immagine devozionale della Madonna dell'Umiltà con la Vergine seduta su un prato fiorito, e non in trono, mentre abbraccia amorevolmente il Bambino in atto di mangiare forse un frutto. Il sontuoso manto e la veste rossa della Madonna, secondo il gusto veneziano del tempo, sono decorati finemente con fitti ricami aurei. Il fondo oro è lavorato a rilievo in corrispondenza dei nimbi dei due personaggi e della grande raggiera stellata che estende i suoi raggi fino al limitare della tavola, forse un po' decurtata lungo i lati. Inconsueto il motivo della corona di piccoli angeli dalle ali multicolori, che si riscontra anche nella coeva Madonna dell'Umiltà del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, proveniente dallo stesso ambito culturale. La Madonna dell'Umiltà è una iconografia che fa la sua comparsa nella pittura dell'Italia settentrionale nel XIV secolo e prosegue fino alla prima metà del secolo successivo. Nasce per influsso degli Ordini mendicanti che volevano la Chiesa, simboleggiata dalla Madonna, umile e più vicina alla gente. Acquistato dal conte Luigi Tadini a Venezia nel 1813, il dipinto è stato variamente riferito dalla critica ad artisti diversi operanti nell'ambito di Lorenzo Veneziano, celebre pittore della seconda metà del XIV secolo. Lorenzo e la sua cerchia operarono all'aggiornamento dei moduli bizantini, imperanti a Venezia, in chiave di una modellazione più energica dei corpi e di una maggiore espressività dei volti senza però abbandonare il gusto per lo sfarzo decorativo e per l'uso prezioso del colore. Nell'opera sono evidenti il morbido plasticismo con cui sono resi i volti e le anatomie e l'attenzione a una resa più diretta della realtà evidente nell'atteggiamento vivace del Bambino e nel sorriso dolce della Madre: ma il tutto è calato in una preziosa atmosfera sensibile alla cultura gotica internazionale, elegante e caratterizzata dal gusto per la linea ondulata. Anche il contesto spaziale, costituio dal prato fiorito, ha un mero significato decorativo, avulso dalla ricerca prospettica. row-vvb2.c7xn_hxd4 Santa Famiglia con Sant'Anna e San Giovannino Milano Piazza Pio XI, 2 row-9aft.hn5y-4xyt Cristo in pietà Varenna Viale Giovanni Polvani, 4 Il Cristo è raffigurato nel sepolcro con il capo reclinato e le braccia incrociate davanti al petto; è affiancato dai simboli della Passione. L'affresco è una delle rare testimonianze del monastero femminile cistercense fondato alla fine del sec. XII, dal quale prende il nome la Villa. Per quanto concerne la cronologia, l'attenzione ai valori plastici del corpo di Cristo e alla resa prospettica del sarcofago segnalano un moderato aggiornamento sui principali testi figurativi del Rinascimento lombardo. Anche il rapporto con analoghe rappresentazioni locali del XV secolo (ad esempio l'affrescato di analogo soggetto nella chiesa di S. Eusebio a Pasturo) suggerisce una datazione della Pietà varennese intorno agli anni Settanta del XV secolo. Il dipinto murale è collocato in un vano, forse corrispondente allo sguancio di una finestra dell'antico edificio monastico medievale, sulla parete destra della Sala Fermi, dove, in origine, era ubicata la chiesa.Nonostante il cenobio venisse soppresso nel 1567 per il numero esiguo di monache rimaste, in base alle disposizioni sancite dal Concilio di Trento e sostenute dall'arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, l'edificio di culto rimase in funzione e fu ampliato attorno al 1611. Dopo che le suore, in seguito alla chiusura, furono trasferite a Lecco, la proprietà venne venduta a Paolo Mornico di Cortenova in Valsassina. Il figlio di questi, il potente giureconsulto Lelio, podestà di Lecco, edificò sui resti del monastero, tra il 1609 ed il 1645, la villa, mantenendo, tuttavia, l'edificio di culto. row-7h2z-wcfz~q42x Vergine con Bambino, Cristo e Santi Milano Piazza Castello row-4zjt_vh65_2qm2 La convalescente Milano Piazza Duomo row-n9xc~th77-tfp3 Museo Luigi Robecchi Bricchetti Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Nel museo etnografico, al secondo piano della sala torre nell'ala est del castello, sono esposti, secondo un ordine tematico, manufatti eterogenei: monili, ornamenti, calzature, abiti, stoffe, armi, pelli di animali, zanne, conchiglie, fossili, immagini e fotografie.La curiosa collezione prende le mosse dall'eclettico ingegnere pavese Luigi Robecchi Bricchetti che durante i numerosi viaggi di lavoro in Egitto, Somalia e in altri paesi africani, acquista materiali eterogenei e raccoglie notizie che pubblica in dettagliati carnet di viaggio, spesso arricchiti da disegni e da fotografie. La passione dell'ingegnere pavese per il continente africano nasce nel 1885 quando si reca in Egitto per un progetto di illuminazione delle stazioni militari inglesi. Dall'Africa Robecchi Bricchetti porterà con sè anche Mabruc, un piccolo schiavo liberto da lui adottato. Il 'Museo Coloniale', come viene chiamato in origine, nasce nel 1926 a seguito della generosa donazione al Comune di Pavia, da parte dell'ingegnere ed esploratore pavese Luigi Robecchi Bricchetti, della propria consistente raccolta etnografica con il vincolo che venga esposta al pubblico.Implementato da due successive donazioni, quella di oggetti eritrei raccolti da Giovanni Borretti durante la sua permanenza come maggiore dell'esercito nel 1887 e quella di manufatti somali collezionati da Enrico Petrella, giovane aviatore morto a Mogadiscio nel 1921, il museo trova la sua prima collocazione nel palazzo della Prefettura. Trasferita nel 1955 nel Castello Visconteo, riallestita nel 1997 su progetto di Furio Sollazzi e del conservatore storico Gigliola De Martini, la collezione intende documentare l'eclettica personalità di Robecchi Bricchetti e fornire una preziosa testimonianza della vita quotidiana nel continente africano di fine Ottocento e dei primi del Novecento. row-ut6d-5f47-vx39 Lecco Corso Matteotti, 32 Pugnaletto in bronzo tipo Voghera, caratterizzato da manico a giorno e lama a foglia d'ulivo. Il reperto, risalente alla fase finale del Bronzo Medio (XIV sec a. C.), fu rinvenuto in località Castello a Casatenovo in una tomba a cremazione in nuda terra durante il dissodamento di un bosco, eseguito prima del 1861. Insieme al pugnaletto venne trovato un frammento di lama di pugnale in bronzo e un'urna (quest'ultima andata dispersa). row-bjhb~z9ck.bmqa Composizione G.R.U 35B Como Via Diaz, 84 Il dipinto presenta una composizione geometrica astratta, giocata sull'intersezione di forme composte, distinte una dall'altra tramite campiture cromatiche. La "Composizione G.R.U 35B" è un esempio della ricerca pittorica intrapresa dal comasco Mario Radice nel corso degli anni Trenta e che lo porterà, tra i primi in Italia, alla creazione di un linguaggio astratto di rigorosa essenzialità geometrica, in dialogo con le esperienze di punta dell'avanguardia non figurativa europea. Le ricerche di Radice si inseriscono nella più ampia sperimentazione sull'arte astratta che tocca la città di Como lungo gli anni Trenta grazie all'attività di pittori come Manlio Rho, Aldo Galli e Carla Badiali, che saranno accomunati dall'etichetta di "Astrattisti comaschi". Alla base di queste esperienze si pone il dialogo intrattenuto da questi artisti con il loro concittadino Giuseppe Terragni, uno dei fondatori dell'architettura razionalista europea, con il quale lo stesso Radice aveva collaborato per la decorazione astratta di alcuni ambienti della Casa del Fascio di Como. row-gqfr~hnvb_cdhs Compianto sul sepolcro di Cristo Brescia Via S. Francesco Contro un fondale scuro dal quale emerge unicamente una montagna scabra, si stagliano le figure che compongono la scena del compianto: a sinistra ci sono gli uomini che coprono con un velo trasparente il corpo di Gesù, a destra le donne si stringono l'una all'altra con i capi reclinati e i volti attraversati dal dolore. In primo piano un semplice sarcofago rosso accoglie il corpo di Cristo sul quale è piegata, quasi sdraiata la Madonna completamente avvolta in un manto nero che diviene espressione visibile del suo dolore. Ed è proprio questa corrente di intensità emotiva e drammatica a riflettersi da un gruppo all'altro di figure a qualificare il dipinto. Rispetto agli altri che, per vari motivi, vennero occultati e poi recuperati nel corso dei restauri degli anni trenta del Novecento, il Compianto rimase visibile nel corso dei secoli perché era oggetto di una fervente devozione ed è ricordato anche dalle guide ottocentesche. E' stato restaurato nel 1937 e poi nel 1967, quando viene riportato su tela. Stilisticamente il legame evidente con la cultura giottesca in generale e con gli affreschi padovani in particolare non è mai stato messo in discussione dalla critica, che tuttavia ha aperto una serie di ipotesi circa le modalità con cui questo linguaggio sia arrivato all'anonimo autore. Di fatto si sono create due correnti di pensiero divergenti. Da un lato viene sostenuto una derivazione diretta dalla Cappella degli Scrovegni, ipotesi che quindi presuppone una datazione alta per il dipinto che non andrebbe oltre gli anni dieci del Trecento; dall'altro i critici tendono a suggerire un legame con la cultura giottesca mediato dalla cultura veneta. Prova ne sarebbero un accresciuto patetismo dei volti dei personaggi, un forte espressionismo nelle posture e nella gestualità, una semplificazione dei piani compositivi. Quest'ipotesi critica propone una datazione agli anni trenta del XIV secolo. In ogni caso, il dipinto murale, insieme al Crocifisso conservato nella stessa chiesa, resta uno degli esempi più interessanti della diffusione del linguaggio giottesco in ambito lombardo. row-686u.5kak_7ujj Testa di Teodora Milano Piazza Castello row-ac7n_tq52~qukb viaggio al Monte Spluga Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Una grande vetrina nella sala detta "stüa granda", al secondo piano del museo di Campodolcino, presenta la serie completa, in fogli sciolti montati per l'esposizione, della rara edizione delle stampe del volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga", edito a Milano intorno al 1824. Si tratta di 16 vedute dal vero eseguite dall'artista Friedrich Lose, sia per il disegno che per l'incisione, che raffigurano luoghi e panorami lungo il percorso che da Chiavenna porta a Coira attraverso il passo dello Spuga. Le stampe sono realizzate con la tecnica dell'acquatinta e vennero colorate a mano. Le tavole relative alla parte di percorso lungo la Val San Giacomo presentano vedute di Chiavenna, del santuario di Gallivaggio, della contrada delle Corti di Campodolcino, della cascata di Pianazzo, di una galleria paravalanghe ora non più esistente, della casa cantoniera di Teggiate e della dogana e dell'albergo a Montespluga. Intorno al 1824 Friedrich Lose elaborò per l'editore milanese Francesco Bernucca il volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga" dedicato alla strada carrozzabile dello Spluga, voluta dal governo austriaco e inaugurata pochi anni prima, nel 1822.Il "viaggio pittorico" o "viaggio pittoresco" era un tipo di pubblicazione molto diffuso nella prima metà dell'Ottocento, una via di mezzo tra la guida turistica e il libro d'arte. Nei volumi numerose tavole illustravano scorci e panorami dell'itinerario accompagnate da un commento descrittivo. Questo raffinato prodotto era rivolto a un pubblico d'élite, nobili e intellettuali, gli unici, all'epoca, che potevano permettersi di viaggiare per diletto. L'autore lavorava spesso a questi progetti con la moglie Caroline, anch'essa pittrice. Il connubio artistico fra i due vedeva solitamente Friedrich impegnato nel disegno dei paesaggi ad acquerello, mentre Caroline provvedeva all'incisione delle tavole in acquatinta e successivamente alla loro coloritura. row-e3yp-mnf7_dbgg Raccolta di sculture lignee rinascimentali Gandino Piazza Emancipazione La raccolta di scultura lignea rinascimentale del Museo di Gandino conta più di 30 esemplari, che provengono in gran parte dall'apparato decorativo dell'antica chiesa prepositurale di S. Maria a Gandino, ma anche da quello della chiesa sussidiaria di S. Croce e S. Alessandro. Tra gli esemplari più importanti vi sono la statua di "Dio Padre", di ambito friulano tra XV e XVI secolo e la "Madonna col Bambino" realizzata dal milanese Pietro Bussolo nel 1498. Ancora all'ambito del Bussolo, noto scultore a lungo attivo nel territorio bergamasco, si riferiscono la statua di "San Pietro" e le mezze figure di "San Vincenzo" e "Santo Stefano". All'area trentina si riconducono, invece, le statue di "Santa Caterina d'Alessandria" e "Santa Lucia", facenti parte probabilmente dell'ancona a portelle dell'altare maggiore dell'antica chiesa di Santa Maria, di cui si conservano anche le due ante scolpite ad altorilievo con "Storie della Vergine". Cinque raffinate statue di Santi furono realizzate da un artista attivo nel Veneto intorno al 1515. Di provenienza tedesca o tirolese sono il "Cristo risorto" e il gruppo delle Dolenti, che si accompagnava probabilmente al grande crocifisso attribuito allo scultore tirolese chiamato convenzionalmente Maestro di Heiligenblut. La raccolta di sculture lignee rinascimentali del Museo della Basilica di Gandino è considerata una delle più complete e interessanti del territorio lombardo. E' costituita in gran parte dalle opere provenienti dall'antica chiesa prepositurale di S. Maria. Un nucleo proviene anche dalla più importante delle chiese sussidiarie gandinesi, quella fondata dai Disciplini e intitolata a S. Croce e S. Alessandro. Le opere furono realizzate da artisti di cultura diversa, principalmente lombardi, tirolesi e tedeschi. Le sculture di area germanica sono il frutto degli intensi traffici commerciali che gli attivissimi mercanti gandinesi intrattenevano con il mondo d'oltralpe nell'intento di commercializzare i pannilani prodotti nella Val Gandino.I grandi capitali acquisiti dagli intraprendenti gandinesi produssero la continua commissione di importanti opere artistiche per il decoro delle numerose chiese presenti nel centro manufatturiero, incentivando anche il rinnovamento periodico di tali arredi. row-3vew-76gk.e6e8 Sant'Antonio Abate e San Bernardo Meda Piazza Vittorio Veneto La quarta cappella da sinistra di S. Vittore costituisce il passaggio tra la chiesa e la relativa sagrestia, nonché l'accesso alla chiesa claustrale: ad ornamento e decorazione della porta e delle finestre che si aprono nella parete è qui dipinto ad affresco un finto partimento architettonico, all'interno delle cui nicchie laterali sono inserite le figure di Sant'Antonio Abate e San Bernardo. La finestra rettangolare sopra la porta è inquadrata da un'edicola in finto marmo di colore chiaro, caratterizzata dalla presenza di motivi decorativi a festoni dorati e a conchiglia sui lati e sulla sommità, sormontata da un timpano dal profilo spezzato, le cui volute affiancano la raffigurazione di un ricco vaso d'argento, da cui fuoriescono ramoscelli. Ai due lati della finestra, all'interno di finte nicchie di colore scuro, chiuse nella parte alta da una conchiglia dorata, sono inseriti i ritratti dei due rappresentanti principali del monachesimo orientale e occidentale.Sant'Antonio abate, sulla sinistra, è raffigurato in abito talare, coperto da un mantello scuro, con la barba lunga e bianca; tiene la mano destra sollevata in segno benedicente e nella sinistra regge il caratteristico bastone con la campanella. Ai suoi piedi è raffigurato il tradizionale attributo del maiale (qui un cinghiale), simbolo del diavolo tentatore: a partire dal Medioevo infatti, il santo viene invocato contro l'herpes zoster (chiamato popolarmente, per l'appunto, "fuoco di Sant'Antonio"), una malattia virale a carico delle terminazioni nervose che per molti secoli venne curata dai monaci Antoniani preparando con il lardo suino un balsamo che, secondo le credenze, era in grado di guarire i malati. San Bernardo, sulla destra, è invece raffigurato con l'abito bianco dei Cistercensi e la barba bianca corta; nella mano destra regge il pastorale abbaziale e nella sinistra una cordicella a cui è legato il demonio raffigurato ai suoi piedi, simbolo della vittoria sulle tentazioni.I piedi dei due santi poggiano sul basamento della nicchia, arricchito dalla presenza di due targhe dorate con il profilo decorato a volute, sulle quali è riportato in lettere capitali il nome latino dei due personaggi ("S. Antonius" e "S. Bernard..."), che sormontano a loro volta le due finestrelle poligonali ai lati della porta, che danno verso la sagrestia. Nella lunetta sovrastante la parete del presbiterio, intorno alla finestra circolare che dà verso l'interno, sono raffigurati due angioletti con una cornucopia piena di fiori tra le mani; mentre nei tondi ancora più alto, ai lati del catino, sono visibili i ritratti dei profeti Amos e Gioele.Complessivamente i dipinti della parete si presentano in uno stato di conservazione piuttosto degradato: numerose ed evidenti sono le cadute di intonaco e le perdite di pellicola pittorica, unite a graffiature e danni volontari sull'intonaco visibili soprattutto nella parte bassa, in corrispondenza degli attributi ai piedi dei due santi. Si segnala anche la presenza di danni da infiltrazioni d'acqua con efflorescenze saline superficiali. L'opera è stata attribuita dalla critica a colui il quale raccolse l'eredità artistica e i cantieri di Bernardino Luini alla sua morte nel 1532, ovvero il cugino della moglie Giovanni Lomazzo (notizie 1516-1555 ca.). Residente in Meda già nel 1516, Lomazzo era soprattutto un pittore ad affresco, non particolarmente brillante ma molto responsabile nella gestione della bottega luinesca fino alla crescita dei figli di Bernardino (il più piccolo, Aurelio, alla morte del padre aveva 2 anni): a conferma di ciò, ancora nel 1595 viene ricordato con il soprannome "Giovanni Lovino" e descritto come un pittore dolce e accurato, allievo del più famoso Luini.L'affresco si presenta ad oggi molto danneggiato, tuttavia non vi sono dubbi nell'identificazione dei due santi rappresentati, sia per l'iscrizione presente ai piedi del basamento delle nicchie dove sono appoggiati, sia per la presenza dei loro caratteristici attributi iconografici. Il santo sulla sinistra è Antonio Abate, una delle più grandi figure dell'ascetismo cristiano antico, ritenuto "Padre dei monaci": vissuto in Egitto nel IV sec., all'età di vent'anni vendette tutti i suoi beni per condurre una vita da asceta, sopportando e superando qualsiasi tentazione, ma la sua fama si diffuse a tal punto che dovette abbandonare l'eremitismo per dedicarsi ai numerosi discepoli e alla lotta contro l'arianesimo, fino alla morte ultracentenario, avvenuta nel 356.Il santo sulla destra è invece Bernardo da Chiaravalle, fondatore dell'ordine cistercense: egli nacque in una ricca e nobile famiglia di Digione nel 1090, entrò nell'Ordine benedettino presso il monastero francese di Citeaux all'età di 22 anni e già nel 1115 divenne abate di una nuova fondazione a Clairvaux, da cui poi si originarono molte altre sedi. Inizialmente criticato per la sua eccessiva durezza, Bernardo rivide le condizioni di vita richieste ai monaci, riducendo loro il tempo dedicato alla preghiera e aumentando il lavoro, ma anche migliorando il cibo e consolidando la posizione del monastero come istituzione sul territorio. Per i suoi numerosi scritti viene considerato un Padre della Chiesa. row-uwpi~dhh8.p6p5 Il farmacista Pirola Lecco Piazza XX Settembre L'uomo, rappresentato a tre quarti di figura con un abito nero, si staglia su uno sfondo giallo con grande efficacia rappresentativa. Si volge verso lo spettatore con atteggiamento enigmatico. Il dipinto fu donato dallo stesso autore al Comune di Lecco, in seguito alla mostra "La famiglia dei ritratti", tenutasi a Villa Manzoni nel 1987 a cura di Giovanni Testori, al quale si deve la valorizzazione del pittore bellanese, Giancarlo Vitali, fino ad allora sconosciuto al grande pubblico. La tela raffigura il farmacista Pirola che aveva l'abitazione e il negozio nella stessa casa in cui Vitali (1929) risiedeva . Lo stesso personaggio fu rappresentato dal pittore anche in altre pose, per dipinti e incisioni e anche in un disegno. row-hd8e-de9k_2uqn Lucia Lecco Via Don Guanella, 1 Lucia è rappresentata a figura intera con il viso rivolto in basso, intenta ad osservare, compiaciuta, l'anello donatole da Renzo. Solleva vezzosamente il vestito, lasciando scoperti i piedi nudi, come se si apprestasse ad entrare nell'acqua. La statuetta si caratterizza per la notevole sensibilità del modellato, per il trattamento quasi pittorico della superficie e per l'efficacia interpretativa. Fa parte di un nucleo di opere realizzate tra il 1877 e il 1887 da Francesco Confalonieri (1850-1925) che, a quell'epoca, si dedicava alla scultura di piccole dimensioni, perseguendo scopi prevalentemente commerciali. L'artista, nato a Costa Masnaga, nei pressi di Lecco, studiò all'Accademia di Brera dove pure esercitò l'insegnamento fino al 1921, quando lasciò l'incarico per i raggiunti limiti di età.L'opera è stata donata al Comune dall'Inner Wheel Club di Lecco nel 1997. row-vnbs-q7ps_5cav Iscrizioni in alfabeto cuneiforme Mantova Viale Te, 13 Tavoletta d'argilla cotta con iscrizioni in alfabeto cuneiforme. Il reperto archeologico risale al periodo di Ur III, tra il 2094 ed il 2047 a.C.. L'oggetto appartiene alla collezione mesopotamica Ugo Sissa, un insieme tipologicamente vario di oggetti del vicino Oriente Antico che l'architetto, fotografo, pittore e colto viaggiatore mantovano costituì nel corso degli anni Cinquanta del XX secolo in qualità di Capo Architetto dell'Ufficio di Sviluppo dell'Iraq a Baghdad. Si tratta di una delle sette tavolette in argilla della collezione, concessa in deposito al museo dagli eredi di Sissa. Il testo, inciso a solchi, riguarda un ordine di distribuzione di diverse quantità di orzo ad alcune persone. Dalla tipologia di scrittura e dai nomi personali e geografici riportati è stata ipotizzata la datazione proposta, riferita al periodo in cui il re Shulgi aveva introdotto il Kur lugal, la misura standard di volume. Il nome del campo di orzo suggerisce come località di provenienza Drehem. row-fn8r_sxvz~5zeu Somma Lombardo Via per Tornavento, 15 Il Douglas DC-3 è un bimotore di linea ad ala bassa sviluppato dall'azienda statunitense Douglas Aircraft Company negli anni trenta. Progettato sotto la guida di Arthur E. Raymond, aveva struttura metallica, l'ala concepita da Jack Northrop e carrello retrattile. Venne costruito in 16.079 unità, comprese 4.937 nell'URSS (come Lisunov Li-2) e 487 in Giappone (Nakajima L2D). Benché risulti in servizio da una settant'anni, sono ancora 400 gli esemplari utilizzati in varie parti del mondo, tra cui alcune conversioni che hanno adottato motori turboelica. Il velivolo ha una lunghezza di 19.43 m, con un'apertura alare che raggiunge i 29.11 m, per un'altezza pari a 5.16 m e può raggiungere un peso massimo al decollo di 11.800 kg. Il motore è un due radiali Pratt & Whitney R1830-90 da 1.200 CV che gli permette prestazioni, quali toccare una velocità massima di 360 Km/h e un'autonomia di percorrenza di 2.570 km. Destinato originariamente al traffico commerciale su rotte a breve e medio raggio, ne venne prodotta una versione su licenza in Unione Sovietica, il Lisunov Li-2 e a seguito dell'inizio della Seconda Guerra Mondiale, ne venne derivata una versione da trasporto militare, il C-47 Dakota/Skytrain. Nel dopoguerra l'ampia disponibilità di DC-3 a buon mercato li rese protagonisti della ripresa dell'aviazione civile in tutto il mondo. Negli Stati Uniti la particolarità dei primi modelli di avere cuccette per dormire e una cucina a bordo, rese popolare il viaggio in aereo; con soltanto uno scalo tecnico per il rifornimento di carburante, i voli da costa a costa divennero molto sfruttati. Prima dell'arrivo del DC-3 un tale viaggio richiedeva tappe brevi in aereo di giorno e tappe lunghe notturne in treno. In Italia furono usati da numerose compagnie (comprese Alitalia e LAI) e dall'Aeronautica Militare. Il DC-3 è uno degli aerei più famosi della storia dell'aviazione e il più diffuso aereo commerciale di tutti i tempi. Fu sviluppato da un team di progettisti diretti da Arthur E. Raymond, come data del primo volo venne simbolicamente scelto il 17 dicemnbre 1935, in quanto trentaduesimo anniversario del volo dei fratelli Wright sulla spiaggia di Kitty Hawk. L'aereo fu il risultato di una lunga telefonata pervenuta da parte del Chief executive officer dell'America Airlines C. R. Smith che richiese vari miglioramenti nel progetto del D3-2. Le prime linee aeree degli Stati Uniti quali la United, l'American, la TWA e la Eastern oridinarono oltre 400 DC-3. Queste flotte aprirono la strada all'industria americana moderna del trasporto aereo, che sostituì rapidamente treni come i mezzi favoriti per i viaggi su lunghe distanze. La Pierdmont Airlines operò su DC-3 dal 1948 al 1963. Uno dei quali è oggi al Museo dell'Aeronautica della Carolina e continua tutt'oggi a volare durante l'air-show ed è stato usato in vari film prodotti a Hollywood. In Italia invece è esposto un modello di DC-3 presso il Museo Volandia. Fu costruito nel 1944 dalla Douglas a Oklahoma City. Subito ceduto alla Royal Air Force, diventò il Dakota IV, nel 1952 fu smilitarizzato e passò all'Air Charter, antesignana delle attuali compagnie low cost. Nel 1954 fu esportato in Africa, dove operò per quarant'anni. Finì il servizio con la International Trans Air Business e rientrò in Europa nel 1994. L'11 aprile 2012 è stato acquistato da Volandia e trasferito in volo a Malpensa. Nella sua carriera ha volato per oltre 23.400 ore. Nel museo dell'aviazione di Rimini invece, ne è presente un esemplare, recentemente restaurato, appartenuto a Clark Gable. Di questo esemplare è risultato, consultando i libretti di volo, che ha ospitato molte celebrità tra cui ad esempio Marilyn Monroe, John F. Kennedy e suo fratello Bob, Frank Sinatra e Ronald Reagan. row-afa9~npmj_k5x7 Ritratto di Lionello d'Este Bergamo Piazza G. Carrara, 82 L'opera di piccole dimensioni mostra in uno spazio ridotto il ritratto di profilo di Lionello d'Este secondo una tipologia che si richiama esplicitamente ai ritratti nelle monete imperiali romane, di cui Pisanello fu attento studioso. Il personaggio è abbigliato alla moda e pettinato alla francese o 'a scutella' con un taglio che richiede la rasatura dei capelli in tondo ben al di sopra dell'orecchio e che, per non scomporsi, deve essere lisciato con oli e unguenti. Indossa una sopravveste all'italiana in broccato e velluto rosso con il profilo della camicia bianca che spunta dal collo e con la tipica guarnizione di bottoni semisferici in oro o d'argento. L'ambientazione è in un giardino davanti a una folta siepe di rose rosse e a un intenso cielo blu scuro, messi entrambi in evidenza dal recente restauro. La rosa rossa, simbolo dell'amore che sopravvive alla morte, potrebbe alludere alla morte recente della moglie Margherita Gonzaga che gli aveva dato il figlio Nicolò. Il dipinto rappresenta il ritratto di Lionello d'Este, che fu signore di Ferrara dal 1441 al 1450, intelligente politico e mecenate dei principali artisti del tempo, tra cui Leon Battista Alberti, Andrea Mantegna e Piero della Francesca: oltre che per l'importanza del personaggio, il dipinto è considerato una delle opere capitali della pittura del Rinascimento italiano per la raffinatissima stesura pittorica e la resa naturalistica dell'effigiato. E' realizzato da Pisanello in competizione con un'altro dei massimi pittori veneti del momento, Jacopo Bellini, che vince la gara, ma l'opera di Pisanello rimane particolarmente cara a Lionello, che la fa riprodurre in successive sei medaglie bronzee realizzate dallo stesso artista. Dopo vari passaggi in collezioni private l'opera giunge a Londra nel XIX secolo ed è merito dello storico d'arte Giovanni Morelli se è riportata in Italia e, nel 1891, entra a far parte delle raccolte dell'Accademia Carrara. Il recente restauro, eseguito dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, recupera pienamente l'acuta indagine naturalistica resa con tonalità fuse e brillanti. Sul blu intenso del cielo del fondo, prima coperto da uno strato di colore nero, campeggia la testa di Lionello dall'incarnato trasparente e luminoso morbidamente ombreggiato. La profondità spaziale, sottolineata dal forte scorcio della spalla di Lionello, si dilata nell'intreccio del roseto su cui spiccano vari fiori e boccioli dai colori sfumati, che Pisanello era solito studiare dal vivo. row-wgp4_pkxa-g2nx S. Maria Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Una grande vetrina nella sala detta "stüa granda", al secondo piano del museo di Campodolcino, presenta la serie completa, in fogli sciolti montati per l'esposizione, della rara edizione delle stampe del volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga", edito a Milano intorno al 1824. Si tratta di 16 vedute dal vero eseguite dall'artista Friedrich Lose, sia per il disegno che per l'incisione, che raffigurano luoghi e panorami lungo il percorso che da Chiavenna porta a Coira attraverso il passo dello Spuga. Le stampe sono realizzate con la tecnica dell'acquatinta e vennero colorate a mano. Le tavole relative alla parte di percorso lungo la Val San Giacomo presentano vedute di Chiavenna, del santuario di Gallivaggio, della contrada delle Corti di Campodolcino, della cascata di Pianazzo, di una galleria paravalanghe ora non più esistente, della casa cantoniera di Teggiate e della dogana e dell'albergo a Montespluga. Intorno al 1824 Friedrich Lose elaborò per l'editore milanese Francesco Bernucca il volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga" dedicato alla strada carrozzabile dello Spluga, voluta dal governo austriaco e inaugurata pochi anni prima, nel 1822.Il "viaggio pittorico" o "viaggio pittoresco" era un tipo di pubblicazione molto diffuso nella prima metà dell'Ottocento, una via di mezzo tra la guida turistica e il libro d'arte. Nei volumi numerose tavole illustravano scorci e panorami dell'itinerario accompagnate da un commento descrittivo. Questo raffinato prodotto era rivolto a un pubblico d'élite, nobili e intellettuali, gli unici, all'epoca, che potevano permettersi di viaggiare per diletto. L'autore lavorava spesso a questi progetti con la moglie Caroline, anch'essa pittrice. Il connubio artistico fra i due vedeva solitamente Friedrich impegnato nel disegno dei paesaggi ad acquerello, mentre Caroline provvedeva all'incisione delle tavole in acquatinta e successivamente alla loro coloritura. row-eg4z~h5v2.ic5f Crocifissione di Cristo con la Madonna, san Giovanni Evangelista e santa Maria Maddalena, san Giorgio e sant'Ambrogio, Dio Padre in gloria e i quattro evaneglisti, Apostoli Annone di Brianza Via Cabella Lattuada Nell'abside quadrangolare della chiesa di S. Giorgio si trova un pregevole ciclo di affreschi attribuito al maestro della Pala Sforzesca, noto anche per aver eseguito una famosa pala commissionata da Ludovico il Moro e conservata nella Pinacoteca milanese di Brera. Il complesso di Annone è imperniato sull'affresco della parete di fondo raffigurante la Crocifissione di Cristo tra la Madonna e S. Giovanni. La rappresentazione è inquadrata da una finta serliana che suggerisce l'idea di un trittico aperto sul cielo e sul paesaggio e che include S. Giorgio (titolare della chiesa), a sinistra, e S. Ambrogio (titolare della diocesi milanese), a destra. La volta, decorata da eleganti grottesche a monocromo nei pennacchi, mostra, al centro, Dio Padre tra angioletti musicanti, circondato da una mandorla luminosa formata da teste di cherubini, e, nelle vele, i quattro Evangelisti. Questi personaggi sono colti in pose dinamiche davanti a imponenti leggii, sullo sfondo del cielo stellato. Nel sottarco i busti dei dodici apostoli si affacciano da finti archi a tutto sesto. Gli affreschi sono stati restaurati nel 1974 da Antonio Benigni sotto la direzione di Maria Teresa Binaghi Olivari che ne ha proposto l'attribuzione - peraltro indiscussa - al Maestro della Pala Sforzesca. Nonostante l'importanza di questo recupero non sono state rintracciate notizie storiche utili alla ricostruzione della biografia del "misterioso" autore. Non si conoscono, infatti, documenti relativi alla data di realizzazione del ciclo, né hanno fornito un contributo decisivo, in tal senso, le due scritte segnate dal pittore, l'una sulla lesena all'estrema destra destra della parete di fondo (VBI.SV) l'altra sul pennacchio in corrispondenza di S. Luca (S.P.Q.Al.O). Quest'ultima fu già interpretata come un'abbreviazione della frase "Senatus Populusque Annoniensis" e, in base a questa lettura, committente dell'opera sarebbe stata la comunità di Annone. D'altra parte non sembra di poter escludere che la scritta si riferisca, invece, alla famiglia Annoni che, tra l'altro, promosse la realizzazione, alcuni decenni decenni dopo, della cosiddetta "Ancona della Passione" (in Deposito al Museo Diocesano di Milano). Un complesso dibattito critico sugli affreschi di S. Giorgio fu avviato da Binaghi Olivari nel 1974 che, in occasione dei restauri degli affreschi, ne ha proposto l'attribuzione al Maestro della Pala Sforzesa. Tale assegnazione è stata concordemente accettata dagli studiosi, mentre è tuttora in corso il dibattito relativo alla questione cronologica. Infatti chi ha visto prevalere negli affreschi gli aspetti di transizione fra la vecchia scuola lombarda, rappresentata da Vincenzo Foppa, e quella leonardesca ha proposto una datazione agli anni compresi fra il 1496 e il 1498 (non a caso i pittori ai quali si è tentato di assegnare l'opera sono tutti della stretta cerchia del maestro da Vinci). E' stato, inoltre, osservato che l'autore del ciclo mostra la conoscenza di Mantegna, dei pittori ferraresi ed è aggiornato sulle novità decorative che Bergognone realizza nel cantiere della Certosa di Pavia; ha visto gli Uomini d'arme di casa Panigarola e gli affreschi di Butinone e Zenale nella cappella Grifi di San Pietro in Gessate (entrambi a Milano). Binagli Olivari, in particolare, sottolinea come l'anonimo maestro mostri di recepire numerose componenti culturali sviluppatesi nei primi anni novanta, così da rendere poco plausibile, a suo giudizio, la datazione al decennio successivo, che è invece ipotizzata da altri studiosi, fra i quali Giovanni Romano e Mauro Natale. Secondo il primo, il Maestro della Pala Sforzesca, dopo aver partecipato agli splendori della corte di Ludovico il Moro e dopo aver appreso la lezione leonardesca, con la caduta degli Sforza si sarebbe rivolto a nuove committenze, al di fuori dalla capitale lombarda ritrovando "una sua radice propriamente territoriale". In questo nuovo contesto, secondo Pietro Marani (1988), il pittore poté esprimere al meglio il "repertorio antiquario come dimostrano l'ampia inquadratura a tre fornici della Crocifissione e la sua decorazione a finti stucchi, con candelabre e motivi a grottesche che rivelano ormai la completa assimilazione di questo repertorio e la sua diffusione in centri anche lontani da Milano". Luisa Giordano (1984), allineata su questa ipotesi, non esclude - come in seguito Natale (1993) - la possibilità di una cronologia che oltrepassi il primo decennio. Diversamente Alessandro Ballarin (2010) suggerisce l'anticipazione del ciclo agli anni compresi tra il 1490 e il 1495, riconoscendovi "un forte attaccamento alla tradizione lombarda" e la presenza di un leonardismo ancora "in crescita, non del tutto assimilato". Lo studioso , inoltre, circoscrive ulteriormente tale datazione al biennio 1492-1493, ribadendo che "La finzione di un grande arco trionfale a serliana, ornato di finti rilievi e candelabre, aperto sul paesaggio e sul cielo a cui si associava, alzando lo sguardo alla volta, quella di un cielo stellato, pure unitario" meglio s'intende "negli anni in cui, tra Milano e Pavia, Bergognone realizzava l'inquadratura dei transetti della Certosa pavese (1492-1493) e Zenale e Butinone quella della Cappella Grifi nella chiesa di San Pietro in Gessate a Milano (1490-1491)". Se, data la disparità di vedute, la questione cronologica è tutt'altro che risolta, l'indiscussa attribuzione al maestro della Pala Sforzesca si arricchisce dell'ulteriore apporto critico di Maria Teresa Fiorio (2003) che rileva nel ciclo la presenza di due mani: una per gli affreschi della volta, che rivelano a suo avviso una condotta pittorica rispendente al linguaggio dell'anonimo e l'altra per gli affreschi rimanenti, che sembrano riconducibili a una seconda personalità, affine ma non coincidente con il Maestro della Pala Sforzesca. row-3viy.4yza.wfqx Madonna con Bambino, san Lorenzo e santo Stefano Lovere Via Tadini, 40 L'impostazione della scena è ancora quella tradizionale della Sacra conversazione di area lombardo-veneta con le figure rappresentate all'aperto su un fondale di paesaggio che si apre in lontananza. Al centro domina il gruppo della Madonna in trono, sovrastato da un padiglione scuro, ricordo delle pale di Lorenzo Lotto. A destra di Maria, che ha la testa inclinata e abbraccia maternamente il Bambino, vi è, visto di tre quarti, San Lorenzo, uno dei santi più venerati del mondo cristiano, che regge la graticola, simbolo del suo martirio, e indossa la dalmatica confezionata in velluto operato broccato in oro con il tipico disegno a "griccia", uno dei tessuti più preziosi del Quattrocento. A sinistra vi è Santo Stefano, primo martire cristiano, che è raffigurato come un giovane sbarbato dai tratti delicati, anch'egli abbigliato con la dalmatica dei diaconi. Attributi di Santo Stefano sono le pietre sul capo, usate per lapidarlo, e la palma del martirio, simbolo ricorrente nell'iconografia dei Santi martiri. La sigla VC presente al centro del gradino del trono consente di riferire l'opera a Vincenzo Civerchio, pittore attivo tra Brescia e Crema. La sua personalità, fondamentale nell'evoluzione del Rinascimento bresciano, si colloca in quella cosiddetta "generazione intermedia" che lavora tra la fine del Quattrocento e il primo trentennio del Cinquecento, ovvero tra l'ultima produzione di Vincenzo Foppa e la maturità artistica del Moretto. Il dipinto proviene dall'altare della Madonna della chiesa di Santa Marta a Crema, città nella quale Civerchio si trasferisce nel 1507. Commissionata nel 1531, l'opera appartiene alla fase tarda, quando ormai l'artista ha assimilato l'influenza veneta, soprattutto per l'arricchimento del colore, e si è aperto alle novità apportate in area lombarda da Lorenzo Lotto. row-v8sp~j545.fzm8 Padre Eterno fra gli angeli Castiglione Olona Via Cardinal Branda La copertura della zona dell'altare del Battistero, ideale proseguimento della parete di fondo su cui è raffigurato il "Battesimo di Gesù", è affrescata da Masolino da Panicale con l' "Apparizione di Dio Padre tra gli angeli".Dio Padre, originariamente vestito di argento e oro all'interno di un tondo argenteo (le lamine metalliche sono ad oggi andate perdute), si presenta in posizione frontale, con una lunga barba bianca divisa a metà, le spalle coperte da un candido manto e le braccia aperte protese verso il basso. Egli sembra infatti aver appena liberato la colomba, simbolo dello Spirito Santo, che appare volteggiante sulla testa del figlio mentre viene battezzato da Giovanni Battista nella parete sottostante. La mandorla in cui appare la figura del Padre è di forma perfettamente circolare, con un profilo costituito da più strisce di differenti colori (oggi difficilmente leggibili) da cui viene emanata la luce sotto forma di minuscoli raggi dorati. Sullo sfondo azzurro punteggiato di stelle, si dispongono due schiere di quattro angeli ciascuno, abbigliati con abiti dalle sgargianti cromie, rivolti verso il Signore con le mani giunte vicino al petto. Ognuno di essi appare inginocchiato su una nuvola rosata e orientato in maniera tale da creare un altro cerchio intorno alla mandorla divina. Sul lato sinistro della composizione, compare nella parte bassa un quinto angelo che si ritiene essere un'aggiunta effettuata dalla mano di un secondo artista, che la critica ha identificato come il Vecchietta. All'interno del Battistero, situato a nord-est della sommità su cui sorge il complesso della Collegiata di Castiglione Olona, si conserva un ciclo di affreschi che costituisce uno degli esiti più alti dell'arte italiana del Quattrocento. L'edificio, formato da due vani separati da un arco a sesto acuto, è ricavato da una delle torri dell'antico castello fortificato, già trasformata in una cappella gentilizia intitolata a san Pietro. La dedicazione di questo piccolo ambiente a San Giovanni Battista risale agli interventi di abbellimento e ammodernamento del borgo promossi dal cardinal Branda Castiglioni che hanno previsto dapprima, nel 1425, la ricostruzione sulle rovine del castello della chiesa parrocchiale o Collegiata, dedicata alla Beata Vergine Maria e ai martiri Stefano e Lorenzo, insieme alla fondazione di un collegio per l'istruzione dei giovani e all'edificazione ex novo della chiesa di Villa a partire dal 1437.Gli affreschi al suo interno sono stati ritrovati nel 1843, coperti da scialbature applicate alla fine del Settecento; l'iscrizione "MCCCCXXXV" (1435) riportata sull'intradosso dell'arco absidale è considerata non coeva ma cronologicamente attendibile circa la data della loro esecuzione. Si tratta di un capolavoro di grande complessità linguistica e insieme di intonazione cortese, anche se già pervaso di novità rinascimentali, portato a compimento da Masolino da Panicale, del quale il cardinal Branda si era precedentemente servito per la decorazione della cappella di santa Caterina in san Clemente a Roma. Il ciclo pittorico sfrutta ogni superficie a partire dalla facciata.Punto focale dell'intero programma è il dipinto al centro della parete di fondo, la rappresentazione del "Battesimo di Cristo", che condivide il cielo con gli affreschi soprastanti. Anche se nella volta a botte stellata predominano ancora stilizzazioni gotiche, Masolino ha realizzato qui un suggestivo gioco di rimandi nel rapporto tra pareti e copertura: dal Padre Eterno circondato dagli angeli parte infatti una colomba, il cui movimento convoglia lo sguardo dello spettatore sulla scena trionfante della parete adiacente in basso. La condizione degli affreschi appare in alcuni punti notevolmente deteriorata, al punto da renderne difficile la leggibilità specie nei fondali e in corrispondenza delle inserzioni di lamine metalliche preziose, oggi quasi completamente andate perdute. row-54t8.avrk.32yf Storie della Passione di Gesù Cremona Piazza del Comune La decorazione della controfacciata conclude il ciclo dedicato alla Vita di Maria e della Passione di Gesù che si svolge lungo le pareti della navata centrale del Duomo di Cremona. Si compone di tre scene: una monumentale Crocifissione e la Deposizione di Cristo dalla croce realizzate dal Pordenone entro il 1522. Dopo aver concluso la Pietà il Pordenone lascia il cantiere del Duomo, così l'ultima scena, la Resurrezione di Cristo, a sinistra del portale d'ingresso, viene realizzata da Bernardino Gatti che la conclude nel 1529, tornando ad un linguaggio classico con influssi correggeschi. La monumentale Crocifissione, realizzata dal Pordenone nel 1521, si contraddistingue per la singolare iconografia: allo spirare di Cristo un terremoto provoca una fenditura nel terreno che divide la scena in due parti, separando le figure che raccolgono il messaggio della redenzione (sul lato sinistro) da quelle che invece lo rifiutano e rappresentano il giudaismo, come i tre personaggi con copricapi orientali (i sacerdoti del Sinedrio), il fanciullo che fugge (simbolo degli ebrei in quanto "popolo infante") e l'asino. Nella Crocifissione viene quindi rappresentata la divisione tra cristianesimo e giudaismo. Tra il 1519 ed il 1521 a Cremona si verifica una forte polemica contro gli ebrei (erano diffusi in ogni quartiere) al fine di allontanarli. Sotto la Crocifissione a destra del portale d'ingresso troviamo un affresco del Pordenone risalente al 1522 e raffigurante Gesù, ormai deposto dalla croce, attorniato da otto personaggi, tra cui la Madonna, che esprimono in diversi modi il dolore per la sua morte. Il corpo di Cristo, disteso su un lenzuolo, è posto in diagonale con i piedi rivolti verso chi guarda. In basso si nota un rialzo marmoreo, in cui è stato inserito un riquadro con un Santo in preghiera. La scena è inserita all'interno di un'architettura costituita da un arco e da un piccolo spazio semicircolare, nella volta si riconoscono il Sacrificio di Isacco, alcuni cherubini ed un pavone, simbolo dell'immortalità e della resurrezione di Cristo. Dopo aver concluso la Pietà il Pordenone lascia il cantiere del Duomo.L'ultima scena, la Resurrezione di Cristo, a sinistra del portale d'ingresso, viene quindi affidata a Bernardino Gatti che la compie nel 1529, tornando ad un linguaggio classico con influssi correggeschi. row-rx3w~6zgz~rjmr Ritratto di Giulio Romano Mantova Viale Te, 13 Tiziano, in questo intenso ritratto di Giulio Romano, rappresenta l'artista in vesti di architetto mentre mostra il progetto di un edificio a pianta centrale. Il progetto raffigurato doveva essere sicuramente significativo per Giulio: esso spicca in forte contrasto con le tonalità scure dell'abito e dello sfondo. Sull'identificazione dell'edificio, sicuramente destinato a Mantova, sono state avanzate molte proposte: la chiesa di Santa Croce in Corte Vecchia, la cappella del Sacrameno del Duomo, la cappella del Castello di San Giorgio, la ristrutturazione della chiesa di San Lorenzo. Il dipinto fu realizzato probabilmente a Mantova durante il soggiorno di Tiziano tra il 1536 e il 1538. In quegli anni sia Tiziano che Giulio Romano lavorarono fianco a fianco in Palazzo Ducale per la decorazione del Camerino dei Cesari. Il dipinto è la testimonianza pittorica della stima professionale e del legame personale tra Tiziano e Giulio. Giulio di Piero Pippi de' Iannuzzi, detto Romano, viene chiamato a Mantova nel 1524 per la realizzazione della villa suburbana di Palazzo Te in quanto virtuoso collaboratore presso la bottega di Raffaello. Interpretando il desiderio di Federico II Gonzaga, Giulio stupisce con la sua originalità inventiva e attesta le sue capacità non solo di pittore ma anche di architetto. Il dipinto fu assegnata per la prima volta a Tiziano nel 1965 in occasione della mostra di Manchester. Nello stesso anno veniva pubblicato da Shearman con l'identificazone del personaggio ritratto con Giulio Romano. row-a54m_gd8i~5yrf La cara Betty Bergamo Via S. Tommaso, 53 La scena è un piccolo ritaglio di vita quotidiana: all'interno di un salotto borghese, reso accogliente da un tappeto e da mobili ricercati, su di uno sgabello sta accucciata la cagnolina Betty, che pare quasi disturbata dal pittore che richiama la sua attenzione. Mediante la personale reinterpretazione della tecnica divisionista, Balla usa una gamma cromatica squillante dai forti contrasti e dipinge velocemente a piccoli tratti a larghe e dense pennellate, imprimendo una straordinaria vivezza espressiva all'immagine. Improvvisi bagliori danno forza e mobilità, inconsueti per l'epoca, e preludono all'imminente fase futurista della sua opera. Giunto a Roma nel 1899 dalla natia Raggio Calabria, Boccioni conosce Gino Severini, a cui lo lega un simile spirito ribelle e antiborghese e con il quale approda al Divisionismo per il tramite di Balla. Dopo l'incontro fondamentale con il pittore simbolista Gaetano Previati nel 1908, Boccioni si unisce l'anno successivo a Marinetti, Russolo e Carrà, insieme ai quali darà vita al Futurismo. Nel dipinto, eseguito in quel momento esaltante della sua esperienza artistica, Boccioni coniuga l'impostazione divisionista a un'accensione più aggressiva del colore di matrice espressionista, unendo al tocco puntinista pennellate più larghe, veloci e fluide ma cariche di materia. La vibrante tessitura cromatica fa emergere le emozioni attraverso l'esplosione dei colori. Nel punto di vista dall'alto e nel tono intimo della raffigurazione vi sono affinità con l'opera "Interno con la madre che lavora", definita dal pittore "impressione d'interno" e datata allo stesso anno (1909). row-xpty.hhvk.b42c Paesaggio Gallarate Via De Magri, 1 L'opera dipinta da Guttuso rappresenta un paesaggio dall'impianto ben definito, costituito essenzialmente da alberi e arbusti. L'opera è stata eseguita dall'artista utilizzando pennellate che conferiscono volume al dipinto e aiutano a collocare i singoli elementi nello spazio. L'opera è costruita sull'intreccio dei tronchi scuri degli alberi che creano una trama in cui le brevi e veloci pennellate delle foglie verdi si dispongono creando un ritmo intenso e una scenografia suggestiva. Il colore è denso e genera, attraverso la luce, una sapiente modulazione cromatica che si riflette nella percezione visiva degli osservatori. Grazie a questi stratagemmi compositivi e a queste scelte tecnico-artistiche, la natura dipinta acquista una evocativa forza vitale apparendo forte e rigogliosa agli utenti che osservano il quadro non distrattamente. L'opera, realizzata negli anni Cinquanta, appartiene a quella fase artistica di Guttuso in cui, dopo l'esperienza di Corrente, il pittore affianca all'attenzione per le realtà politico-sociali quella per soggetti più tradizionali come i nudi, i ritratti, le nature morte e i paesaggi. Si trovano in quest'opera alcuni elementi già sperimentati dall'artista in altri periodi o desunti da differenti linguaggi artistici quali quello postcubista, e quello espressionista, dal quale Guttuso sembra rifarsi per l'utilizzo dei colori. Quest'opera, inoltre, è fortemente influenzata dalla pittura di Cézanne che l'artista ritiene fondamentale da indagare per sperimentare nuove prospettive di incidenza sulla realtà della luce. Per Guttuso la luce delle opere di Cézanne è quella che dà forma, individua gli oggetti senza 'amalgamarli' tra loro. La pennellata che Guttuso ricerca in questa opera, come in altri suoi dipinti, determinata dal desiderio di conferire volume ai soggetti raffigurati definendone i limiti spaziali all'interno della composizione. Una ricerca molto attenta che, tuttavia, pur pescando nelle esperienze della pittura di fine Ottocento, risente degli influssi esercitati su Guttuso dal naturalismo italiano. Risiede, dunque, in questa realtà interiore complessa la bellezza di quest'opera che, come ha giustamente affermato Giulia Formenti, offre alla visione un luogo noto all'artista che può dunque restituirlo agli osservatori carico della propria memoria e del proprio vissuto. row-e7ve~m2r9_pvw5 Crocifissione Milano Via Brera, 28 row-be9n_p4rs-b39v Santi, Madonna con Bambino, Battesimo di Cristo, Santa Caterina d'Alessandria, San Giovanni Battista e un donatore, Ultima Cena, Santa Erica Lodi Piazza della Vittoria Sulla volta sono affrescati i quattro Dottori della Chiesa e al centro Cristo benedicente, sulla parete sinistra una mutila Crocifissione e a destra una probabile Dormitio Virginis. Questi affreschi sono in parte coperti da due grandi dipinti, la Madonna della Neve e la Madonna con Bambino con San Giuseppe e San Gaetano. La cappella, che ha mutato dedicazione nel corso dei secoli, è stata probabilmente edificata entro la metà del XIV e decorata con affreschi entro gli anni Ottanta del Trecento. Rimangono visibili sono quelli della volta e la parte superiore delle due pareti laterali che stilisticamente possono essere riferiti a quelle maestranze lombarde attive nella chiesa di S. Francesco a Lodi. Nel 1603 la Scuola di San Giuseppe (patrona dei falegnami) ottiene il permesos di trasferirvi il proprio altare, in precedenza addossato a un pilone. Su una parete fu quindi installata l'Ancona di San Giuseppe, opera di Callisto Piazza e oggi conservata al Museo Civico di Lodi. Qualche anno dopo si intraprese una nuova campagna decorativa: si realizzarono gli eleganti stucchi sulla volta e sulle parti superiori delle pareti laterali che probabilmente incorniciavano pitture a muro. Infine con il rifacimento della cattedrale tra il 1760 e il 1763 la cappella venne di nuovo modificata per collocarvi, a media altezza, la grande Madonna della Neve che secondo Federico Cavalieri è da riferire a Giacinto Cavenaghi, seguace di Giulio Cesare Procaccini. E' possibile che nella stessa occasione fosse trasferito il dipinto con la Madonna con il bambino con San Giusepp e San Gaetano di Andrea Lanzani. Alla parete di fondo fu addossato il sontuoso altare marmoreo settecentesco che opsita la tela con il Miracolo dell'elemosina di Sant'Alberto. row-dcaq-963z_7uug Tirano Piazza Basilica, 30 La camera da letto all'ultimo piano del piccolo palazzo è interamente foderata in legno; la pannellatura delle pareti è costituita da tavole lisce accostate, suddivise in scomparti da assi verticali sporgenti, poste agli angoli e lungo i lati della stanza a circa un metro l'una dall'altra. Il soffitto presenta un alto zoccolo dal profilo sagomato che percorre tutto il perimetro. La scansione dei cassettoni è impostata sulle stesse tavole verticali sporgenti delle pareti. Gli sguinci delle aperture presentano anch'essi cornici modanate; le finestre al loro interno possono essere oscurate da imposte a doppio sportello provvisti di semplici chiavistelli in legno o ferro battuto. La porta di ingresso presenta elaborati cardini e un'artistica chiusura con chiavistello, maniglia e serratura a chiave in ferro battuto. La "stüa", ovvero la camera interamente foderato in legno per mantenerla isolata termicamente dai rigori invernali, era la l'ambiente più caldo della casa, vi si soggiornava durante il riposo notturno, durante i pasti e nella permanenza durante il giorno nelle stagioni più fredde. La stüa della casa del Penitenziere risale con tutta probabilità agli anni della costruzione dell'edificio, il periodo intorno al 1749. La pannellatura in legno isolava dal freddo esterno in modo molto più efficace rispetto alla semplice muratura; talvolta nello spazio tra le assi di legno e i muri era posta lana di pecora o muschio per aumentare il potere isolante dell'arredo. La stanza era scaldata con una "pigna", ovvero una stufa in muratura o maiolica. Questa, nel nostro caso non più presente, era caricata da un apposito sportello aperto sulla cucina attigua: in questo modo non era necessario portare del fuoco nella stanza che, essendo realizzata tutta in legno, poteva costituire un serio pericolo di incendio. row-ktcq.cef7~d4gy Collezione del Parco di sculture Fondazione Pietro Rossini Briosco Via Col del Frejus, 3 La collezione del Parco di Sculture Fondazione Pietro Rossini si configura come una raccolta di opere d'arte del secondo Novecento, allestita in un grande parco tra due colline della Brianza, nel territorio di Briosco. Questo terreno, di circa 25 acri, è collocato in una zona denominata del Simonte e ripartito al suo interno in diverse aree per separare le zone private appartenenti alla famiglia Rossini, da quelle pubbliche destinate alle opere d'arte. Le opere, per lo più sculture e installazioni monumentali, sono riconducibili sia ad artisti storici della scultura italiana del secondo dopoguerra (Cascella, Consagra, Pomodoro, Melotti, Turcato, Fontana, Capogrossi, Tancredi, Varisco), sia ad artisti di fama internazionale (Cèsar, Arman, Oppenheim, Nagasawa, Tinguely), cui si sono aggiunti negli ultimi anni artisti di una generazione più giovane, spesso coinvolti su diretta committenza della famiglia Rossini (come nel caso di Stähler, Dietman e Ievolella). All'interno del parco sono poi collocate due opere architettoniche in diretto rapporto con il territorio e la collezione circostante: il padiglione espositivo "Sculture farm pavillon", progettato dall'architetto e paesaggista americano James Wines, fondatore del gruppo "Site Project Inc.", e l'ancora in costruzione maquette della "Casa della Pace" su progetto di Massimiliano Fuksas. La prima opera della Collezione venne acquistata dall'industriale lombardo Alberto Rossini nel 1954, per il sepolcro del padre: si trattava di una scultura astratta di Gaetano Negri, allora assistente di Marino Marini. Nonostante i limitati mezzi economici a disposizione, l'imprenditore e la moglie Luisa Teruzzi cominciarono ad acquisire opere per la loro collezione, ma il nucleo più consistente venne creato tra la seconda metà degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, di pari passo con il crescente interesse per la scultura monumentale e il relativo progetto di costituire un Parco che ne delineasse la storia in Italia a partire dal secondo Dopoguerra.La creazione della Fondazione Pietro Rossini fu il punto d'arrivo di questo lungo cammino collezionistico, impostato fin dall'inizio su una scelta dettata non tanto dall'idea di collezionare una precisa tipologia di beni o gli artisti di una corrente, ma dal fatto che la maggior parte delle opere sono state realizzate da artisti che hanno intrattenuto con i Rossini un rapporto di stima reciproca e di fiducia, al punto da arrivare ad avviare vere e proprie collaborazioni. Dal 1998 l'azienda di famiglia, specializzata nella produzione di materiali plastici, venne messa a disposizione degli artisti stessi, diventando una vera e propria "fucina artistica", la cui specificità era proprio di essere un punto d'incontro tra l'arte e la cultura imprenditoriale lombarda.La passione per l'arte è stata poi trasmessa da Rossini ai figli Matteo e Marco, che hanno contribuito negli anni ad arricchire la collezione e a sostenere l'obiettivo di creare un museo aperto al pubblico. row-ih8n.qdiz.q3xd Collezioni civiche del Museo della Città di Mantova Mantova Largo XXIV Maggio, 12 La raccolta comprende marmi pregiati, dipinti, sculture ed epigrafi di epoca medioevale e rinascimentale. Si segnala la copia seicentesca della serie completa de I trionfi del Mantegna: le nove tele dipinte tra il 1486 e il 1492 rappresentano le vittorie di Cesare come celebrazione delle virtù guerresche di Francesco II. E' considerata una pietra miliare nel mecenatismo italiano ed era l'opera più preziosa della collezione Gonzaga, oggi conservata a Londra presso Hampton Court. Il patrimonio archeologico è costituito da un nucleo di opere d'epoca greco-romana, al quale si aggiunge una vastissima collezione di monete antiche. Il Fondo Risorgimentale riunisce insieme cimeli, armi bianche e da fuoco, stampe, dipinti e sculture, oltre a libri e documenti. La gipsoteca è composta da più di duecento gessi settecenteschi. La collezione Sammartini, senza precedenti per numero e qualità di opere, comprende esemplari rari di vedute e piante della città, carte geografiche riguardanti il Ducato di Mantova, ritratti, stampe di carattere storico risalenti al periodo francese e all'Ottocento mantovano, piante topografiche e rarissime cartoline di viaggio settecentesche. Il Museo della Città recupera e valorizza alcuni tratti della grande civiltà artistica mantovana e il gusto per il collezionismo appartenuto ai Gonzaga, salvaguardati dall'ottocentesco Museo patrio di Mantova. Fondato dopo l'unità d'Italia, il Museo patrio di Mantova, come venne allora chiamato, ha seguito il percorso di altri musei italiani di proprietà comunale. L'entusiasmo postrisorgimentale aveva portato molte città italiane a costituire istituti culturali civici, grazie alle donazioni e all'impegno delle classi dirigenti locali. Per decenni tali istituti furono non solo luoghi di conservazione di cimeli e collezioni urbane, ma anche attivi presidi culturali, a cui facevano riferimento benemerite associazioni locali. Il Museo della Città non è una riedizione aggiornata del Museo patrio, bensì un museo nuovo che al Museo patrio fa risalire le sue radici. row-pqky-3juu-mbti Portarolo seduto con cesta a tracolla uova e pollame Milano Via Brera, 28 row-bu8n.zvu3~vpn4 Galbiate Sede Parco: Via Bertarelli, 11 Fibula con il corpo a forma di capriolo. Si tratta di uno dei 450 reperti conservati nel Museo Archeologico del Monte Barro, che sono stati rinvenuti durante le impegnative campagne di scavo condotte nel sito archeologico del Monte Barro fra il 1986 e il 1997. row-grru-c59m.qy6i Ritratto di Barbara Luigia d'Adda, sposa di Antonio Barbiano di Belgiojoso Milano Piazza Castello row-dahu_iypi-ifim Moltiplicazione dei pani e dei pesci Mantova Piazza Sordello, 40 Il soggetto di questa grandiosa lunetta, realizzata da Domenico Fetti attorno al 1620 per il refettorio della Chiesa di S. Orsola, ripropone l'episodio evangelico della Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Tre gruppi di figure occupano l'ambientazione, posti in geometria triangolare: a lati due gruppi più avanzati e al centro uno più arretrato, nel quale spicca la figura di Cristo intento a saziare le folle. La pennellata rimarca la collocazione spaziale: più compatta e densa nei primi piani, più filamentosa, rapida ed evanescente nel secondo piano, mentre le forme sono quasi solo suggerite nella lontananza. La composizione è la più articolata tra quelle dipinte da Fetti, un pezzo raro all'interno di in un catalogo formato per lo più da opere di grandezza media o piccola. L'artista crea in questa straordinaria lunetta una summa della sua poetica, fissando su tela la vita in tutte le sue declinazioni ed emozioni; fa propri alcuni modelli "classici": sulla destra, tra la folla da sfamare, è una donna atteggiata come la Melanconia, la cui posa deriva da un modello romano attraverso varie interpretazioni rinascimentali. Circa l'influenza dell'opera in ambito padano vale la pena ricordare alcuni artisti che a essa si sono ispirati: Benedetto Marini, il Genovesino e Marc'Antonio Ghislina, nel telone in Sant'Agata a Cremona, ne citano probabilmente la composizione, mentre il vicentino Maffei ne coglie piuttosto il messaggio formale. row-xdt6_ybh5.fecz Regisole Pavia Piazza del Duomo L'8 dicembre 1937, in occasione delle celebrazioni per il bimillenario della fondazione dell'impero di Augusto, viene inaugurata solennemente in piazza Duomo a Pavia dal Ministro dell'Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, la 'nuova' statua equestre del Regisole, scultura bronzea, alta sei metri, raffigurante un cavaliere con il braccio destro levato, issato su un alto piedistallo in travertino. L'opera viene commissionata dal direttore dei Musei Civici pavesi Renato Soriga a Francesco Messina, allora rettore dell'Accademia di Brera, per ricordare il perduto monumento equestre in bronzo dorato, del tardo Impero Romano, detto appunto Regisole, abbattuto nel 1796 dai Giacobini. L'antico enigmatico Regisole, collocato in origine a Roma, quindi a Ravenna ed infine a Pavia, è da sempre avvolto da un alone di mistero in primis per l'etimologia, che potrebbe derivare da "Radiasole" per l'effetto dei raggi del sole che si irradiano sul bronzo dorato o da "Regisolio", sede del re, perché posizionato in origine nel palazzo reale e poi in piazza Duomo o ancora da "Re del sole" per il braccio proteso del cavaliere quasi a sorreggere il sole. Anche l'identità del cavaliere resta ad oggi un'incognita, la critica ha ipotizzato vari nomi: Giustiniano, Antonino Pio, Lucio Vero, Settimio Severo, Teodorico, ma pare più opportuno riconoscervi, come suggerisce Saletti, l'imperatore Marco Aurelio per analogie con la celebre statua dei Musei Capitolini (161-180 d.C.). Il pregevole manufatto originale, simbolo della città di Pavia, giudicato in una fonte del 1549 addirittura superiore alle sculture di Fidia, ha goduto nei secoli dell'ammirazione di grandi personalità quali Leonardo da Vinci in visita a Pavia nel 1490 e impegnato nello studio del monumento equestre a Francesco Sforza commissionatogli da Ludovico il Moro e Francesco Petrarca che ne parla come di "cosa ammirevole" in una lettera a Boccaccio. L'antico Regisole rispetto alla moderna statua equestre reinterpreta da Messina, risultava rivolto a nord, completamente dorato e accompagnato da una cagnetta ritta sulle zampe posteriori a sostegno dell'arto anteriore del cavallo munito di bardatura. E' interessante ricordare che lo scultore catanese, prima di iniziare a modellare la sua versione della statua, abbia trascorso molto tempo alla cavallerizza di S. Siro, imparando persino a cavalcare. row-idtc~pmyw-97wp Madonna con Gesù Bambino Pavia Piazza del Carmine La parete absidale conserva un'ampia vetrata tonda policroma, di recente fattura, al centro della quale è inserita una rara formella vitrea istoriata del tardo XV secolo, raffigurante una Madonna in trono col Bambino. La vetrata antica si caratterizza per i colori tenui sapientemente accostati, la luminosità preziosa e le dorature diffuse. La Vergine, avvolta in un ampio manto azzurro intenso sul quale risaltano fiori di melograno giallo oro, e Gesù con il globo dorato nella mano sinistra, sono disposti entro una sorta di edicola architettonica con una volta a lacunari e rosette, poggiante su lesene vivacizzate da grottesche.L'originaria vetrata istoriata rappresenta un'importante testimonianza dell'arte vetraria rinascimentale in Pavia, che risulta alquanto scarna: le vetrate superstiti in città si riducono, oltre a questa di fine Quattrocento, ai tre clipei nella chiesa di S. Lanfranco dei primi anni del Cinquecento, esempi isolati per i quali non è possibile effettuare confronti stilistici puntuali. Il cartone della vetrata è tradizionalmente ascritto a Vincenzo Foppa, con qualche riserva da una parte di critica che lo riconduce invece alla sua cerchia, rintracciandovi innegabili punti di contatto con la pavese pala Bottigella e con gli affreschi milanesi di S. Maria di Brera e di S. Maria del Giardino. La presenza del maestro bresciano è ben documentata sia all'interno della chiesa del Carmine, anche se non in relazione alla vetrata, sia nel vicino cantiere di Certosa di Pavia, sia in Duomo a Milano. Nel 1484 la cappella maggiore del Carmine viene dedicata all'Annunciata, quindi potrebbe esser stata questa l'occasione e la data ante quem per la commissione della vetrata.E' interessante ricordare che nel 1827 il pannello con la Madonna in trono col Bambino viene ricomposto e riinvetriato con l'inserimento, nella porzione sottostante, di un riquadro, allora considerato pertinente, con lo stemma della nobile famiglia pavese Eustachi, affiancato dalle sigle "FI/ EU/ CO/ MES", del conte Filippo Eustachi, comandante del naviglio e della darsena sforzesca a Pavia, castellano del Castello di Porta Giovia a Milano, nominato conte dopo aver ordito nel 1481 con Ludovico il Moro e Giovanni Francesco Pallavicino il rapimento del piccolo Galeazzo Maria; caduto in disgrazia presso il Moro viene arrestato nel 1489 e pare decapitato.L'esecuzione della vetrata con lo stemma degli Eustachi, dono di Filippo alla chiesa, risale ai medesimi anni di quella con la Madonna in trono, ma le dimensioni e la forma rettangolare fanno pensare che non fossero pertinenti ad una medesima vetrata.L'ultimo intervento di restauro ha interessato il pannello con lo stemma che è stato rimosso dalla zona absidale e collocato nella lunetta dell'ingresso laterale della chiesa, a nord, agevolando così la visione ravvicinata. row-eujr~zsma-j4vm Aerogeneratore Riva Calzoni Pavia Via Ferrata, 3 Nel Museo della Tecnica Elettrica di Pavia, unico in Europa in questo settore, è conservato un interessante generatore eolico monoala, quelli più diffusi sono a tre pale, alto 33 metri. La pala eolica, M30A, della potenza di 250 kW ad asse di rotazione orizzontale al suolo, viene costruita nei primi anni Novanta dalla Riva Calzoni S.p.A., tra le maggiori aziende italiane che ha operato a partire dal 1834 nella progettazione, produzione e installazione di grandi macchine per centrali idroelettriche e idrauliche. Queste pale, che traggono la propria energia dalla forza del vento, sono tra le fonti predilette di energia alternative, abbondante, rinnovabile e ad impatto ambientale zero.L'energia del vento catturata dall'unica pala viene trasmessa ad un moltiplicatore di giri e da questo al generatore. L'energia elettrica così prodotta in bassa tensione, viene quindi trasmessa, attraverso i cavi, alla cabina di servizio installata all'esterno della torre. Dalla cabina (che contiene un quadro all'interno del quale sono posizionati il computer di controllo e il gruppo di potenza statico e il trasformatore di media tensione/ bassa tensione) l'energia in media tensione, è convogliata, attraverso un condotto interrato, alla cabina primaria di impianto e da quest'ultima viene immessa nella rete di distribuzione nazionale.L'aerogeneratore funzionante alla sua nascita nella centrale Edison di Casone Romano in Puglia, in un parco eolico creato su un crinale di tipo collinare con rada vegetazione, nel 2006 viene rimosso dalla collocazione primitiva e donato alla struttura pavese, che è l'unico museo in Europa a possedere nel suo interno un originale, potenzialmente ancora funzionante. Nello spazio espositivo è conservato anche un piccolo modello esplicativo di impianto eolico. row-7s3b-dw9k~4biw Somma Lombardo Via per Tornavento, 15 Il Boeing CH-47 C è un aeromobile caratterizzato da una configurazione a due rotori controrotanti, uno situato sopra la cabina di pilotaggio e il secondo nella sezione di coda. Viene classificato nella categoria di elicottero pesante da trasporto, ovvero con una fascia di carico paragonabile ad un aereo, ed è utilizzato per il trasporto militare, di linea e protezione civile. L'elicottero ha una lunghezza totale di 30 m di cui 15 solo di fusoliera, ogni rotore ha un diametro di 18 m e in totale raggiunge un'altezza di 5.7 m. Il peso massimo che può raggiungere al decollo è di circa 21.000 kg. Il motore è un due turbine Lyncoming T55-L11 da 3.750 cv che gli permette notevoli prestazioni, quali una velocità massima a pieno carico di 286 Km/h e un'autonomia di percorrenza di ben 3 ore e tenta minuti. La fusoliera del CH-47 è nota oltre che per le sue imponenti dimensioni anche per un portellone cargo che cela le due turbine del motore montate nella sezione di coda in due gondole esterne sotto al rotore posteriore. L'elicottero è dotato di carrello d'atterraggio fisso composto da quattro ruote in configurazione 2-2. Del CH-45 sono stati prodotti 1.200 esemplari nelle varie versioni. Anche se anziano come progetto è molto apprezzato come elicottero ed il suo impiego è diffuso e si presume possa restare in servizio per molti decenni ancora, soprattutto nelle sue ultime versioni CH-47F e HH-47. I motivi dell'interessamento di molte forze armate a questo elicottero sono legate alle elevate capacità di carico interne ed esterne. Questo modello è capace di trasportare materiale su ben tre punti d'aggancio nella parte ventrale della fusoliera; impiegando il gancio baricentrico ed i ganci anteriore e posteriore, utilizzabili singolarmente, in tandem (anteriore e posteriore) o anche tutti insieme. La Boeing detentrice del progetto originale ha autorizzato Agusta-Westland alla produzione in Italia, ove il velivolo viene soprattutto impiegato per la lotta agli incendi. Il CH-47 fu concepito nel 1956 come Vertol Model 114 in base ad un requisito dell'US Army per un elicottero da mobilità sul campo di battaglia: aveva un grande vano di carico ben accessibile grazie allo schema tipico di Frank Piasecki (1919-2008) con due rotori controrotanti sopra la fusoliera. Poteva portare fino a 8 tonnellate di materiali o 44 soldati. Il prototipo volò il 21 settembre 1961, quando la Vertol era stata assorbita da Boeing. Le consegne dei CH-47A iniziarono nel 1962, con debutto operativo in Vietnam. Nel 1967 volò la versione CH-47C con pale in materiali compositi. Nel 1978 comparve la versione Model che poteva ospitare fino a 234 passeggeri, usata tra l'altro da British Airways verso le piattaforme petrolifere nel mare del Nord. Agusta ne acquistò la licenza nel 1968, attraverso la controllata Elicotteri Meridionali di Frosinone, costruendo 40 CH-47C per l'Aviazione Leggera dell'Esercito (poi AVES) e 135 per l'estero. Altri 16 CH-47F sono stati ordinati nel 2010. Capaci e versatili, a partire dal terremoto in Friuli (1976) i Chinook italiani sono stati utilizzati anche nelle emergenze naturali e contro gli incendi. Del CH-47 su richiesta del USSOCOM è stata sviluppata un'apposita versione per le operazioni speciali denominata MH-47E. Nell'ottobre del 2006, la Boeing ha vinto il concorso CSA-R-X per la sostituzione dei HH-64 con la versione HH-47, battendo il concorrente europeo US-101 e l'H-92. Del CH-47 sono stati prodotti circa 1.200 esemplari nelle varie versioni. Le versioni militari sono state adottate in ben 21 Paesi tra i quali Stati Uniti, Regno Unito, Paesi Bassi, Giappone, Iran, Australi e ovviamente Italia e hanno presenziato nelle più importanti operazioni belliche degli ultimi cinquant'anni. Il 30 marzo 1980 ad Abu Dabi cade il MM80825, un Boeing CH-47 dell'Esercito Italiano, dove perdono la vita dieci militari italiani. row-fbft~sdkb-ejfx Storie della fondazione di Roma Cesano Maderno Piazza Vittorio Veneto Collocata al centro dell'area del palazzo destinata alla grande rappresentanza, la "Sala dei Fasti romani", un tempo denominata "Grande Salone" o "Salone sopra la Porta verso il Teatro tutto dipinto", costituisce uno degli ambienti principali di Palazzo Arese Borromeo, originariamente destinato alla musica e allo svolgimento delle feste da ballo. Attorno ad esso ruota la scenografia comunicativa della Famiglia Arese in un gioco di rimandi alla cultura nobiliare europea e all'articolata simbologia del potere, che idealmente unisce Palazzo Arese Borromeo alle grandi corti spagnole e francesi e alla città papale di Roma. L'imponente sala si sviluppa a doppia altezza e si staglia al centro dell'ala del palazzo prospiciente l'ampia esedra che immette alla struttura architettonica, che, a sua volta, costituisce un'importante quinta scenografica a scala urbana. Planimetricamente la sala si sviluppa come un ambiente rettangolare decorato con una semplice pavimentazione in cotto e una copertura a finti cassettoni. Il suo valore, dunque, risiede nell'imponenza e nell'importanza dei cicli pittorici parietali, magnificamente armonizzati con gli elementi architettonici, quali finestre, porte e balconi. L'impianto pittorico delle quattro pareti si basa sulla divisione in due registri, con articolate finte architetture colonnate che sostengono una balconata animata da festanti figure policrome e da variopinti musicanti. Negli sfondati e nei riquadri che sovrastano le porte e le finestre scene allegoriche legate alla storia di Roma che conducono dalla sua fondazione all'imperatore Augusto. Il tema allegorico-celebrativo della storia di Roma si articola in otto scene poste in sequenza, da leggere in senso orario dall'angolo sinistro della parete ovest, che raffigurano: "Romolo e Remo allattati dalla Lupa" con, sul fianco destro, l'immagine del Tevere; il "Sacrificio di Numa Pompilio", con in primo piano la presentazione del vitello cinto di alloro e l'accensione del braciere sacrificale; l'"Attività edilizia di Anco Marzio", con l'edificazione delle mura serviane e la torre marzia; la "Riforma di Servo Tulio del Senato romano", evidente allegoria del senato milanese di cui Bartolomeo Arese era divenuto presidente nel 1660; l'"Esecuzione dei figli di Bruto", decapitati per ordine del padre perché cercavano di reintrodurre il dominio dei Tarquini contro la Repubblica; "Scipione contempla la distruzione di Cartagine", allusione anche alla mutevolezza della sorte; il "naufragio di Cesare", che porta in salvo la spada e il libro a simboleggiare il suo importante apporto alla guerra e alla cultura; e infine "Augusto che chiude le porte del tempio di Giano instaurando la pace".Al centro delle pareti minori due imponenti affreschi raffigurano "Mercurio appare a Iulio Ascanio per comandargli di abbandonare Lavinia e Silvio nella città di Lavinio e di fondare Alba Longa", raffigurata con un edificio in costruzione, simbolo del nuovo palazzo che gli Arese avevano edificato a Cesano Maderno, e una "Allegoria della Chiesa", vero tripudio di elementi simbolici ed iconografici. La Chiesa, raffigurata come una giovane donna pura vestita di bianco, è infatti sormontata dalla Gloria che allontana il Tempo, ad indicare la fama eterna, che la Chiesa può raggiungere solo con l'abbandono della seduzione del potere temporale e l'aiuto di "amici fidati", raffigurati dai due cappelli cardinalizzi posti ai piedi della Chiesa e che probabilmente alludono ai cardinali Borromeo e Omodei. La grande sala costituisce un unicum nell'ambito della pittura seicentesca lombarda per via del suo impianto allegorico che offre molteplici chiavi di lettura che un tempo miravano a illustrare il prestigio raggiunto dalla famiglia Arese e a legittimarne le scelte politico-amministrative. L'iconografia ha infatti come tema-guida la storia di Roma dalle origini ad Augusto, secondo uno svolgimento che si dipana in senso orario dalla parete a nord-ovest: la trama storica, interrotta da allegorie sacre e cartigli in distici elegiaci, racconta gli otto secoli dalla monarchia alla repubblica all'Impero, ponendo molti riferimenti a temi di grande attualità per gli Arese, quali il nesso tra la religione e la tutela dello Stato, il primato del bene pubblico sugli affetti familiari, il ruolo centrale del Senato (specie in anni in cui Arese presiedeva quello milanese), l'amore per la cultura, la caducità della gloria militare e l'importanza della pace.Malgrado la "Sala dei fasti romani" sia stata ampiamente studiata, rimane incerta la definizione cronologica dell'esecuzione del suo impianto figurativo e la sua attribuzione. La critica ha spesso avanzato ipotesi generiche, attribuendo alcuni riquadri a Ercole Procaccini il Giovane (1596-1676), a Giovanni Stefano Doneda detto il Montalto (1608-1690) e ad Antonio Busca (. È tuttavia evidente che l'intera sala non sia opera di un unico artista e che numerose siano le maestranze che si siano susseguite nel tempo. Evidenti sono anche gli influssi dell'operato di Giovanni Ghisolfi (1623-1683), che si riflette nell'organizzazione "alla romana" degli spazi architettonici e che spostano la datazione delle pitture a un periodo successivo al 1661, quando Ghisolfi ritorna in Lombardia dal suo soggiorno romano.Se numerosi dubbi esistono ancora circa la data d'inizio dei lavori, è probabile che gran parte dell'impianto decorativo sia stato concluso entro il 1674, anno della morte di Bartolomeo III Arese, al quale sono direttamente legati numerosi stemmi araldici e riferimenti iconografici. La presenza degli stemmi e dei motti che si riferiscono alla famiglia Borromeo, invece, suggeriscono che tali decorazioni siano successive non solo al 1652, anno in cui Renato II Arese sposò Giulia Borromeo, ma anche al 31 marzo 1665, data della morte di Giulio II Arese e della conseguente origine dell'asse ereditaria Arese-Borromeo. È dunque probabile che l'intero ciclo vide la luce tra il 1665 ed il 1674. Una datazione che si pone in continuità al periodo di sviluppo artistico del palazzo, nel quale furono dipinte alcune stanze attigue alla "Sala dei Fasti romani", datate 1659 e 1663. Questa sala, dunque, riflette l'ascesi della famiglia Arese che nella seconda metà del XVII avvertì l'urgenza di possedere un suntuoso palazzo extra-urbano che in qualche modo rivaleggiasse per splendore con i grandi edifici della nobiltà europea.Dopo una storia secolare, in cui la Sala fu utilizzata come luogo prediletto per i grandi ricevimenti sei-settecenteschi, l'intero palazzo conobbe un periodo di parziale decadenza in cui si intrecciano le strategie comunicative della famiglia Borromeo, che ormai concepiva l'Isola Madre come elemento principale d'orgoglio dinastico. Al processo di abbandono e di decadenza che interessò l'intero Palazzo nel corso del Novecento pose fine l'amministrazione comunale che nel 1989 lo acquistò dagli eredi Borromeo, dando inizio ad una nuova epoca di recupero e valorizzazione. L'acquisizione del complesso favorì, infatti, un lento ma costante processo di restauro dei principali ambienti dipinti e della stessa "Sala dei Fasti romani", che venne così recuperata a funzione pubblico-culturale. Dopo alcuni anni in cui la sala era divenuta l'Aula Magna della Facoltà di Filosofia dell'Università San Raffaele, questo ambiente oggi ospita manifestazioni esclusivamente culturali (es. convegni, seminari, ecc.). row-j9ut_7bnk~ndz2 Civiche Collezioni Liutarie Cremona Piazza Marconi, 5 Di grande respiro temporale e di notevole consistenza numerica sono i materiali delle Civiche Collezioni Liutarie, formate dalla collezione degli strumenti ad arco e dalla collezione dei reperti stradivariani.La raccolta degli strumenti ad arco della scuola classica cremonese è sicuramente quella che più affascina il visitatore, che trova esposte nove opere realizzate dai rappresentanti delle principali famiglie di liutai cremonesi, Amati, Guarneri e Stradivari. Si tratta di sette violini, di una viola e di un violoncello che coprono quasi 200 anni di storia della liuteria cremonese. Il più antico è un violino di Andrea Amati del 1556, il "Carlo IX", mentre il più recente è un violino di Giuseppe Guarneri del Gesù, lo "Stauffer" del 1734. All'interno di questo arco cronologico si situa uno degli esemplari più antichi di Antonio Stradivari, il violino "Clisbee" del 1669, ancora influenzato dallo stile di Andrea Amati, e uno degli ultimi costruiti dal maestro, il violino "Vesuvius" del 1727, che egli realizzò all'età di 83 anni. Tra gli strumenti di Antonio Stradivari si segnala ancora il violino "Cremonese" del 1715, per il quale ci si appresta a celebrare i trecento anni della costruzione.La collezione dei reperti stradivariani stupisce, invece, per la varietà e la ricchezza dei materiali, che costituiscono un insieme unico al mondo, imperdibile per chi voglia accostarsi ai segreti della liuteria, un'arte antica, ma ancora viva, recentemente dichiarata dall'UNESCO "bene immateriale dell'Umanità". Gli attrezzi, le forme, i disegni e i modelli provenienti dalla bottega di Stradivari e che il visitatore può ammirare esposti al Museo del Violino, sono gli stessi che il turista curioso potrà vedere all'interno delle numerose botteghe liutarie che si incontrano passeggiando per le strade di Cremona. I nuclei che formano le Civiche Collezioni Liutarie sono costituiti dalla collezione dei cimeli stradivariani e dalla collezione degli strumenti ad arco.La prima di queste collezioni è principalmente formata dalla donazione di Giuseppe Fiorini, un liutaio bolognese che nel 1930 dona alla città di Cremona la sua ricchissama collezione di reperti provenienti dalla bottega di Stradivari. Bisogna sapere che il figlio più giovane del grande maestro, Paolo, tempo dopo la morte del padre, aveva disperso, vendendoli, i materiali appartenuti al padre, una parte dei quali fa ritorno in città grazie a questa generosa donazione.Il vanto della collezione degli strumenti ad arco è, invece, la raccolta degli strumenti antichi, nota un tempo come "Raccolta degli Archi di Palazzo Comunale", dal nome della sede dove era collocata. La storia della sua formazione si sviluppa dal 1962, anno dell'arrivo in città del primo strumento, al 2005, anno dell'acquisizione dell'ultimo. E' Alfredo Puerari, direttore del Museo Civico e presidente dell'Ente Provinciale per il Turismo, che promuove l'acquisto del violino "Cremonese", opera del 1715 di Antonio Stradivari, spinto dalla constatazione che la città di Cremona non possedeva nessuno dei capolavori per i quali era famosa nel mondo. Da quell'anno il numero degli strumenti è cresciuto costantemente, non solo grazie agli acquisti del Comune di Cremona, sempre attento alle occasioni che si affacciano sul mercato degli strumenti ad arco, ma anche attraverso generose donazioni, come quella dei coniugi americani Evelyn e Herbert Axelrod o del violinista Remo Lauricella, oppure per mezzo di acquisizioni in comodato di esemplari appartenenti al Centro di Musicologia "Walter Stauffer". row-rws2-uf4k.wv88 Grotta di Isabella d'Este in Corte Vecchia Mantova Piazza Sordello, 40 L'ambiente si trova in un'ala dell'appartamento vedovile di Isabella d'Este, all'interno del cosiddetto Appartamento della Grotta. Tra lo Studiolo e la Grotta si apre un portale marmoreo di straordinaria qualità, attribuito a Gian Cristoforo Romano e datato ai primi del Cinquecento. Elegantissima è la lavorazione, sia nei motivi vegetali sia nelle parti figurate, e di rara raffinatezza la scelta dei preziosi marmi policromi. Sulle spalle vi sono tondi in rilievo raffiguranti: un airone che ingoia un serpente, Minerva, la stessa Isabella seduta davanti ad un trono, una civetta, un usignolo, una coppia di tortore, un leopardo, una scimmia, un pavone e due figure allegoriche che si pongono come monito per la sapienza terrena, che rischia di essere ingannata se non tende verso la sapienza divina. Sull'architrave è scolpita una sequenza di vasi e animali fantastici. La parte inferiore delle pareti è ornata da tarsie lignee con vedute urbane e nature morte di strumenti musicali. Il raffinato soffitto è caratterizzato da decorazioni dorate su fondo azzurro. Al centro della volta si riconosce lo stemma estense circondato dalle imprese di Isabella: le Pause, le polizze del Lotto, il motto NEC SPE NEC METU, il Candelabro, il numero XXVII, la sigla intrecciata IS. Isabella d'Este, dopo la morte del marito Francesco II Gonzaga (1466-1519), decise di risiedere al piano terra di Corte Vecchia e vi fece trasportare gli arredi del precedente Appartamento in Castello. La residenza vedovile è distinta in due blocchi: l'Appartamento della Grotta, con stanze e camerini privati, e l'Appartamento di Santa Croce, con sale di rappresentanza di più ampie dimensioni. Le stanze dei due appartamenti si susseguono formando, in pianta, una "L". Il camerino, chiamato la Grotta, custodiva preziosi oggetti d'arte e curiosità naturali all'interno di armadi incassati nelle pareti. La parte inferiore delle pareti è infatti ornata da tarsie lignee, gli stipi degli armadi originariamente realizzate nel 1506 dai fratelli Mola per la stanza della Grotta in Castello. Una tarsia porta inciso un canone musicale del compositore fiammingo Van Ockeghem. Al tempo di Isabella quindi, questo ambiente ospitava importanti pezzi antichi tra cui cammei, intagli, corniole. Oltre a pezzi moderni, tra cui numerosi bronzetti di Jacopo Alari Bonacolsi, detto l'Antico. Vi erano inoltre reperti di statuaria classica e due Cupidi dormienti, uno attribuito a Prassitele e l'altro scolpito da Michelangelo, che volle competere con l'antico. Purtroppo entrambi i pezzi sono perduti. Il prezioso soffitto, caratterizzato da decorazioni dorate su fondo azzurro, non proviene dall'appartamento di Castello ma è stato appositamente realizzato per questo ambiente. row-wvd8.nv79-e5kd Seggio portatile Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 La "sella plicatilis" è un raro seggio pieghevole da campo, destinato ad una personalità di alto rango, un militare o un magistrato. La sedia, molto pratica e funzionale, è formata da due elementi portanti a forma di X snodabili, innestati su un perno rotante sferico per un facile smontaggio e trasporto. La rarità del pezzo e la raffinata esecuzione rendono la sella un unicum di eccezionale valore, vicino all'arte di età carolingia o della successiva età ottoniana (IX-X sec.).Questo tipo di sedia deriva dalle "sellae castrenses" romane, molto diffuse nel Medio Evo, oggi documentate da pochi rari esemplari superstiti, come quelli, simili per tecnica di decorazione, ma di più modesta qualità, ritrovati nella necropoli longobarda di Nocera Umbra, ora a Roma al Museo Nazionale dell'Alto Medioevo, dal cui confronto emerge l'eccezionalità del manufatto pavese. Alcuni particolari, come lo snodo a forma emisferica e i piedi leonini, sono molto simili nel seggio pieghevole metallico ageminato del British Museum di Londra. La struttura della sella, perfetta nella sua estrema semplicità, conserva ancora integri gli elementi meccanici e gli innesti, ancora originali, che ne permettono agevolmente la chiusura. E' un manufatto straordinario per la storia dell'arte e della tecnologia del metallo, sia per il raffinato e fastoso partito decorativo, che per la complessa tecnica di rivestimento dell'anima di ferro (ageminato in argento, rame dorato e niello), molto curata e di grande finezza esecutiva, che crea notevoli effetti di colore. L'esuberante partito decorativo con una trentina di motivi stilizzati, prevalentemente geometrici o vegetali (racemi con foglie, elementi simbolici, nodi ad anello, motivi nastriformi, greche, meandri, intrecci, doppie fasce di perle), derivati dal repertorio classico, appare sapientemente distribuito su tutto il seggio, rivestendolo per intero, perché destinato ad essere visto da tutti i suoi lati. L'albero della vita, i draghi marini affrontati e gli arabeschi, sono invece motivi di ascendenza orientale, giunti in Italia attraverso stoffe arabe e persiane. Il prezioso repertorio iconografico manifesta tuttavia spunti singolari e originali.La sella viene rinvenuta casualmente nel 1949 nel letto del Ticino, assieme ad altri frammenti metallici, in occasione dei lavori di ricostruzione del Ponte Coperto; al momento del ritrovamento era chiusa con gli elementi strutturali saldati tra loro a causa dell'ossidazione. row-xtqw~2cvv~dhhs Coppa Ennion Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Si tratta di una rara coppa del I sec. d.C., firmata da Ennion, di qualità molto elevata, esposta al Metropolitan Museum di New York nel 2014.Il manufatto di forma cilindrica, carenato verso la base ad anelli concentrici in rilievo, è dotato di due piccole anse ad anello applicate verticalmente. E' realizzato in vetro verde-azzurro chiaro, semitrasparente, con la tecnica della soffiatura all'interno di uno stampo composto da più parti, con poche bolle e impurità affioranti. La decorazione in rilievo comprende un fregio principale con una tabula ansata al centro di ciascun lato, iscritta con caratteri greci. L'iscrizione, disposta su tre linee, su un lato recita "Ennion epoiesen" (Ennione fece) e sull'altro "Mnethe o agorazon" (ricordi il compratore). La coppa presenta, quindi, nella tabella a rilievo il marchio del "vitrarius" siriaco Ennion, attivo a Sidone. Il testo epigrafico sulla faccia secondaria "MNHOH" è, invece, un'esortazione rivolta all'acquirente, affinchè si ricordi dell'artigiano citato sulla faccia opposta.Le tabulae sono comprese tra un motivo a festoni di tralci di vite e di edera. Al di sotto del fregio fitte baccellature verticali e un motivo a losanghe in corrispondenza della carenatura.La coppa, che si ispira all'argenteria di età ellenistica e romana, rientra nella interessante produzione di vetri soffiati a stampo di età imperiale romana che si diffondono in Italia Settentrionale a partire dalla metà circa del I sec. d.C. Complessa, e ancora discussa tra gli studiosi, la questione se si tratti di vetri di origine orientale importati o realizzati da maestranze orientali in area norditalica, oppure se l'origine di questa produzione sia occidentale, in considerazione del gran numero di attestazioni in Italia del nord e nella costa dalmata. La coppa pavese, di cui si ignorano le circostanze del rinvenimento, faceva parte della ricca collezione archeologica del nobile studioso e collezionista pavese, dal 1875 "Ispettore degli scavi e dei monumenti per la provincia di Pavia", Camillo Brambilla (1809-1892) che comprendeva materiali di provenienza prevalentemente lomellina (Zerbolò, Cozzo, Dorno, Garlasco). Nel 1891 viene ceduta al Civico Museo di Storia Patria. row-73bq.hknp~a87s Ome Via Maglio, 51 Si tratta di un modello molto interessante di torchio per stampa litografica, dotato di uno scheletro in fusione di ghisa, un carello mobile in legno e un ripiano sottostante per appoggiare gli strumenti di lavoro. La pressione del rullo, sotto cui scorre il foglio per essere impresso, è regolato da un volantino che, girando in senso orario o antiorario, ne aumenta o diminuisce l'altezza sul ripiano scorrevole. La regolazione avviene abbassando una leva posta in alto a cui sono collegati sia il volantino sia il rullo. Il movimento del carrello scorrevole è dato da un manubrio che muove una serie di ingranaggi collegato al ripiano. Sopra il volantino di regolazione si legge l'iscrizione "N°13392./·Karl Krause·/Leipzig", ad indicare che la macchina fu assemblata a Lipsia presso gli stabilimenti Anger-Cottendorf fondati dall'industriale tedesco Karl Krause. Questo modello si deve alla creatività dell'inventore austriaco Aloys Senefelder, che nel 1796 sperimenta un metodo che permetteva di stampare con una matrice piana, senza cioè parti ad incavo o a rilievo, mentre fino ad allora i metodi di stampa si fondavano sulla tipografia, che utilizza matrici a rilievo oppure ad incavo, come nella calcografia. Il sistema, prima identificato come "stampa chimica su pietra" e poi litografia, sfrutta uno speciale tipo di pietra ricavata dalle cave di Solenhofen, nei pressi di Monaco di Baviera. La pietra litografica, opportunamente levigata e disegnata con una matita grassa, ha la proprietà di trattenere nelle parti non disegnate un sottile velo d'acqua, che il segno grasso invece respinge. Passando successivamente l'inchiostro, esso viene respinto dalle parti inumidite e trattenuto nelle parti disegnate. Il torchio è stato donato alla Casa Museo nel 2009 dall'incisore Francesco Gino Medici, suo originale proprietario. row-jt34~rnki.x8bz Dio Padre tra gli Evangelisti, Santi, Annunciazione Cairate Via Molina La decorazione dell'abside della navata sinistra si presenta oggi fortemente lacunosa nella parte centrale, a causa dell'apertura di un camino al tempo della dismissione del complesso monastico, avvenuta nell'Ottocento. La superficie pittorica rimasta mostra una complessa decorazione: nell'emiciclo che copre il catino absidale è raffigurato Dio padre all'interno di una mandorla, attorno alla quale si dispongono i personaggi del Tetramorfo, ovvero i simboli dei quattro Evangelisti, poggiati su dei cuscini e avvolti da lunghi cartigli. Sulla sinistra sono dipinti l'aquila di San Giovanni e il leone di San Marco, mentre sulla destra sono visibili l'Angelo di San Matteo e il toro di San Luca. Sul fronte dell'arco sono invece raffigurati, sulla sinistra, l'Angelo annunciante, inginocchiato con in mano un ramo di gigli, simbolo della purezza verginale di Maria, e sulla destra, la Vergine annunciata, anch'essa inginocchiata con il capo abbassato e le mani giunte sul petto. Dietro di lei è visibile un leggio e al di sopra la colomba dello Spirito Santo che fa scendere la luce divina verso la giovane.Sotto una fila di quattro conci di mattoni è visibile la parte inferiore della decorazione. Alle due estremità sono infatti raffigurati all'interno di nicchie: Santa Caterina d'Alessandria, sulla sinistra, e San Pancrazio, sulla destra. La donna è avvolta in lungo mantello rosso e in testa porta una corona. Con la mano destra regge la palma del martirio, appena visibile, mentre con la sinistra sostiene la ruota, suo caratteristico attributo iconografico. Il santo invece indossa un ricco abito dorato damascato e ha il capo ornato da una corona di fiori bianchi; nella mano destra regge l'elsa della spada, mentre con la sinistra sostiene anch'egli la palma del martirio.Sulla parete concava di fondo sono raffigurate tra paraste dipinte Santa Maddalena e Sant'Agata. La prima, sulla sinistra, si presenta fortemente lacunosa ed è riconoscibile a causa dei lunghi capelli che avvolgono completamente il suo corpo e per la presenza, nella sua mano sinistra, dell'ampolla di unguento, suo caratteristico attributo. Sant'Agata è invece raffigurata sulla destra vestita con un abito dorato coperto da un mantello rosso. Nella mano sinistra stringe la palma del martirio, mentre con la destra regge un vassoio sul quale sono appoggiati i suoi seni, suo caratteristico attributo iconografico legato al martirio. L'abside della navata sinistra della chiesa del Monastero di Santa Maria Assunta si presenta oggi molto danneggiato, ma ancora permane traccia della decorazione pittorica originale. Essa fu eseguita tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, da una bottega di anonimi artisti lombardi: la datazione è stata identificata dalla critica, oltre che su base stilistica, anche per la presenza nella raffigurazione di San Pancrazio, titolare del convento di Villadosia che venne unificato a quello di Cairate nel 1482. Tale data fornirebbe dunque un termine post quem la realizzazione degli affreschi che mostrano ancora stilemi legati alla lunga stagione cortese del gotico internazionale, che in territorio lombardo permase fino alla fine del XV secolo, uniti a nuove e più moderne istanze rinascimentali, testimoniate qui dalla presenza di paraste decorate con motivi all'antica e dalla ricerca di profondità nelle nicchie all'interno delle quali sono inseriti i santi.I dipinti dovrebbero dunque essere coevi ad un altro lacerto di affresco presente all'interno del monastero, un "Christus Passus" collocato nelle stanze al secondo piano, fatto dipingere da suor Prudenza Castiglioni in una sorta di "rivalità" tra le principali famiglie attive nella vita del monastero: questo spiegherebbe, ad esempio, la presenza nei capitelli del monastero degli stemmi dei Visconti e dei da Cairate. La decorazione appare nel complesso piuttosto ambiziosa per essere collocata in una semplice navata secondaria, al punto che alcuni studiosi hanno ipotizzato che questo altare fosse in realtà quello principalmente utilizzato per le celebrazioni "pubbliche", nonostante la completa perdita della navata destra non permetta di confermare tali supposizioni e di effettuare ulteriori confronti in merito. Quello che si sa con certezza è che verso la fine del XVI secolo, in conformità alle nuove norme dettate dal Concilio di Trento circa la conformazione delle chiese claustrali, la chiesa, prima a tre navate con sette campate, venne ridotta ad un unica aula tamponando l'accesso alle navate laterali. Dopo la soppressione del monastero da parte dei francesi, i privati che subentrarono alle monache benedettine operarono nuovamente al suo interno, riducendo gli ambienti, controsoffittando la ex chiesa claustrale e inserendo all'interno delle pareti due camini, uno nella navata centrale e uno nella parete di fondo della navata sinistra, all'epoca coperta da pesanti scialbature di intonaco. Gli affreschi sottostanti furono riscoperti solo nel 1981, dopo che il monastero era passato sotto la tutela e proprietà del Comune di Cairate e della Provincia di Varese. row-pvgt.wb3v.ut97 Garlate Via Statale, 490 La struttura originale mobile della macchina insieme con la bacinella, poggiano o sono inserite sopra la struttura della stufa ricostruita in legno verniciato. La macchina è funzionante. Macchina lombarda originale di fine Settecento per la filatura manuale dei bozzoli: produce matasse di seta greggia. Deriva da una struttura quasi identica ideata in Piemonte a fine Cinquecento che però aveva solo due capi, quindi era meno produttiva ma dava una seta molto migliore. Infatti questa variante lombarda possiede tre capi per accrescere la produzione, ciò rende in parte irregolare la tensione sui tre capi di filo che derivano dai bozzoli in filatura e altro ancora. La stufa ricostruita in legno con bacinella originale (copia di una identica stufa in muratura pure presente nel Museo) serve a scaldare l'acqua della bacinella dove sono posti i bozzoli da filare. Oggi è dotata di riscaldamento elettrico,L'ingegnoso "castello" in legno mentre avvolge le matasse di seta sull'aspo, grazie alle tecniche usate (incrocio e scompigliatura) elimina automaticamente molti difetti del filo di seta e lo asciuga in gran parte. Nelle famiglie, macchine simili erano tramandate per secoli come eredità femminile. Era una dote da utilizzare per uso familiare o presso artigiani che nei paesi raccoglievano gruppi di donne per la filatura con le loro macchine. Le grandi macchine automatiche odierne di trattura utilizzano ancora oggi alcune invenzioni piemontesi qui presenti. row-8v6v.bsmn-bbrv Collezione "Cultura contadina" San Benedetto Po Piazza Teofilo Folengo, 22 La collezione è composta da una ricca testimonianza del lavoro e della vita contadina nella bassa padana comprendente circa 10.000 oggetti. Si possono visitare tre distinti nuclei quella degli ambienti del mondo contadino, delle immagini devozionali e quella dei carri agricoli. La raccolta relativa agli ambienti del mondo contadino è composta da oggetti appartenenti alla casa rurale e soprattutto al lavoro e alla vita che ruotavano attorno ad essa. Il nucleo delle immagini devozionali conserva produzioni artistiche popolari che rimandano ai santi più venerati come il gruppo di 37 targhe in ceramica e terracotta a rilievo. La collezione dei carri agricoli, costituita da 23 carri completi, 4 frecce e 171 tra rinforzi, decorazioni e parti di carro, rappresenta un nucleo eccezionale senza precedenti su tutto il territorio nazionale. La maggior parte dei carri dono stati donati al museo dal dr. Carlo Contini di Carpi, un grande collezionista che ha selezionato, a partire dalla fine degli anni '60, oggetti d'uso comune quali preziose testimonianze dell'inventiva del periodo tra la fine dell'Ottocento e il secondo dopoguerra, quando l'avvento precipitoso della meccanizzazione determinò il crollo del mondo agricolo tradizionale. Contini iniziò a raccogliere oggetti di cui le famiglie cominciavano a disfarsi e in particolare lo interessavano i frammenti, le figurazioni intagliate, le parti in ferro dei carri agricoli. I carri appartengono alla donazione del dr. Contini costituita da circa 2000 pezzi. row-5vp6_vyg3-tkek Vaso piriforme Gambolò Castello Litta-Beccaria, Piazza Castello Uno dei reperti più significativi esposti presso il Museo Archeologico Lomellino di Gambolò è certamente un esemplare di vaso piriforme, proveniente da un corredo funebre della necropoli di epoca lateniana di Gambolò, frazione Belcreda.Utilizzato come vaso cinerario, rappresenta, in una tipologia già di pregio e non numerosa, un raro caso di decorazione dipinta a fasce e ondine nere con abile mano, aspetto che lo fa collocare nel La Téne C, fra seconda metà del III e prima metà del II secolo a.C., unitamente alle associazioni del corredo funebre. La tipologia del vaso piriforme compare in Lombardia nel La Téne B. A completamento della qualità intrinseca, l'oggetto si presenta in argilla fine e modellato al tornio. Concorre a denotare l'interesse della piccola tribù lateniana di Gambolò - Belcreda, stanziata in prossimità di piste già preistoriche e sul margine terrazzato del piano fondamentale della Lomellina, dove si poteva beneficiare della vicinanza al fiume Ticino e alla relativa valle, immediatamente sottostante. Il manufatto di pregio, già per il materiale utilizzato, argilla fine dipinta, nel 1991 è stato esposto a Venezia, Palazzo Grassi, alla mostra evento "I Celti".Il Museo Archeologico Lomellino è ospitato all'interno di Castello Litta-Beccaria, suggestivo edificio monumentale testimoniato nel 1099 e oggi in fase viscontea-sforzesca, in particolare nella Manica Lunga, un porticato a colonne binate, realizzato fra la fine del Cinquecento e l'inizio del Settecento, che consente l'accesso alle sale al primo piano adibite a Museo. row-ne3k_n8x6_izrz Madonna con Bambino in trono, san Rocco, sant'Antonio di Padova, san Giovanni Battista e san Martino Borno sul lato sud del sagrato della chiesa parrocchiale di S. Martino e S. G. Battista L'affresco, a forma di lunetta, raffigura la Madonna con in braccio Gesù Bambino, seduta su un basamento marmoreo rettangolare e sullo sfondo di un drappo fissato ai rami di un albero. Inginocchiato, sul lato sinistro, è dipinto S. Rocco, con la sua tipica veste da pellegrino e la piaga della peste, legata al suo ruolo di protettore contro il contagio del morbo. Sempre a sinistra del gruppo mariano, compare in piedi S. Antonio di Padova, riconoscibile per la veste fracescana e per il giglio, suo attributo. A destra, sono raffigurati S. Giovanni Battista coperto di un mantello di pelliccia e accompagnato dall'agnello mistico, e S. Martino, in abiti vescovili, con ricco piviale bordato di pietre preziose. La sacra conversazione si svolge in un paesaggio lacustre con paese lontano, chiuso all'orizzonte dal profilo delle montagne. L'affresco, probabilmente realizzato in un momento non lontano dal 1530, è un valido esempio della produzione bresciana di Callisto Piazza, artista appartenente a una famiglia di pittori originari di Lodi, attivo nella prima metà del XVI secolo tra Brescia, Crema, Novara, Milano e il paese natale. La lunga esperienza bresciana, durata all'incirca quindici anni a partire dalla prima metà degli anni venti del Cinquecento, il primo, fondamentale capitolo del percorso del pittore; a Brescia Callisto ha modo di entrare in contatto con Moretto, Romanino e con le novità offerte dal vivace panorama figurativo cittadino che nel 1522 accoglie la pala Averoldi dipinta da Tiziano per la chiesa dei Santi Nazaro e Celso. Nell'affresco di Borno emerge soprattutto il messaggio di Romanino, all'interno di una scena di tipica intonazione devozionale e di gusto quasi neoquattrocentesco per l'impostazione rigida e severa della composizione, dove però l'artista si concede una licenza poetica nel magnifico paesaggio sullo sfondo. row-ysfp.eiwr_nhgm Collezione storico-scientifica del Museo Astronomico - Orto Botanico di Brera Milano Via Brera, 28 Al Museo Astronomico - Orto Botanico di Brera appartengono collezioni strumentali storico-scientifiche e collezioni naturalistiche. Nella sezione relativa al Museo sono esposti alcuni degli strumenti scientifici utilizzati dagli astronomi braidensi a partire dal 1764. Vi sono inoltre confluiti strumenti scientifici provenienti dall'Università degli Studi di Milano. Una selezione di questi ultimi - strumenti astronomici e topografici, pretelescopici e telescopi riflettori - è ora inserita nel percorso museale e permette una migliore comprensione dell'evoluzione della strumentazione astronomica nel corso dei secoli, colmandone alcune lacune. Di particolare interesse storico sono gli strumenti pretelescopici e, tra quelli telescopici, il circolo moltiplicatore di Reichenbach (1808). Tra gli strumenti non astronomici si segnala il Magnetometro di Gauss costruito da Meyerstein (1835). Parte integrante del percorso museale è la Cupola Schiaparelli, all'ultimo piano dell'edificio, nella quale è inserito il rifrattore Merz (1863-1865), ordinato da Giovanni Virginio Schiaparelli, non appena viene nominato direttore della Specola braidense. Nel 1997-1998 il telescopio Merz è stato restaurato dall'Università degli Studi di Milano per ripristinare l'estetica e soprattutto la funzionalità, con l'intento di riportarlo alle condizioni di utilizzo dei tempi di Schiaparelli. La cupola originaria, anch'essa restaurata, evoca, insieme al telescopio, importanti imprese astronomiche e costituisce un suggestivo ambiente per lo svolgimento svolgimento di attività di diffusione della cultura scientifica. L'itinerario museale si completa all'Orto Botanico di Brera, sezione integrante della struttura, le cui tracce possono essere individuate fin dal XVI secolo. La creazione di un vero e proprio "Orto Botanico" avvenne nel 1774 per volere di Maria Teresa d'Austria. Il Museo Astronomico-Orto Botanico di Brera è una struttura dell'Università degli Studi di Milano, e custodisce strumenti utilizzati dagli scienziati dell'Osservatorio Astronomico nel corso dei secoli e alcuni strumenti facenti parte del ricco patrimonio storico scientifico dell'Università degli Studi di Milano.La struttura museale attuale, istituita nel 2005, nasce dalla necessità di dare una solida base all'opera di salvaguardia e valorizzazione dei beni scientifici conservati nel Palazzo di Brera intrapresa dall'Ateneo milanese fin dagli anni ottanta del Novecento. Il progetto, realizzato in cinque anni, ha comportato oltre al recupero e al restauro di documenti d'archivio, di libri e strumenti, la catalogazione degli strumenti e l'inventariazione dei documenti, l'edizione dei relativi cataloghi e inventari, la realizzazione di un'esposizione permanente degli strumenti scientifici, della biblioteca e dell'archivio storico.Nel 2001 si conclude anche il restauro dell'Orto Botanico di Brera a cura dell'Università degli Studi di Milano. row-8gzb.xi6p-fv3j Sacra Famiglia con san Giovanni Battista, sant'Elena e santa Caterina d'Alessandria Lovere Via Tadini, 40 Il tema della Sacra Conversazione, che prevede la Madonna col Bambino affiancata su ambo i lati da figure di santi, occupa un posto particolare nell'opera di Palma il Giovane. Nella tela Maria è affiancata a sinistra da San Giovanni Battista, riconoscibile dalla croce di verghe, e da san Giuseppe; a destra da santa Caterina d'Alessandria, splendida nel suo abito damascato che ricorda la discendenza da una stirpe regale, ritratta con la mano appoggiata ad una ruota dentata, suo attributo caratteristico, e da sant'Elena, raffigurata in abiti regali mentre regge una croce. I personaggi danno vita ad un gioco di gesti e sguardi, come la vivace freschezza che anima il colloquio fra il Bambino e sant'Elena. Di provenienza ignota, l'opera fu acquistata dal conte Luigi Tadini a Venezia nel 1813 con attribuzione a Paolo Veronese. Oggi è riconosciuta come indubbia opera di Palma il Giovane, artista che seppe, tra la fine del Cinquecento e il primo trentennio del Seicento, monopolizzare l'attività culturale della Serenissima. La tela mette in evidenzia la grande capacità del Palma di animare la convenzionalità dello schema della Sacra Conversazione variandone con naturalezza espressione e atteggiamenti. La raffigurazione della Madonna, infagottata nell'ampia e grossa veste mentre inclina morbidamente il capo, il corpo gonfio e molle del Bambino, la forza e la plasticità delle figure, consentono di collocare il dipinto intorno al 1580-1581. Al Musée des Beaux Arts in Francia è conservata un'opera di analogo soggetto. row-gimp-z39r~4fc6 Ecce Homo Chiari Via Bernardino Varisco, 9 Il dipinto si caratterizza per la forza espressiva con la quale l'artista, concentrandosi sulla sola figura del Cristo sofferente posta su un fondo scuro, enuclea i concetti di pietà, dolore e rassegnazione propri della fede cattolica. Il Cristo è raffigurato a mezza figura in primo piano con la testa coronata di spine inclinata verso destra, lo sguardo abbassato e abbigliato con un mantello di porpora, mentre con la mano sinistra, legata a quella destra, trattiene una canna a mo' di scettro. L'iconografia rimanda alla frase che Ponzio Pilato, allora governatore romano della Giudea, rivolge a Giudei nel momento in cui mostra loro Cristo flagellato (Giovanni 19, 4-6). Il prototipo tizianesco, oggi al Museo del Prado, mantiene nei secoli notevole fortuna. Più volte replicata durante il Cinquecento, questa versione dell'Ecce Homo del Vecellio è nota in un gran numero di copie sei e settecentesche, tra le quali è difficile districarsi. Più difficile ancora è determinare se un dipinto con questo soggetto possa essere ritenuto una versione in parte autografa. Nel caso del dipinto di Chiari, giunto nelle collezioni della Pinacoteca Repossi grazie alla donazione dei fratelli Maria Luisa, Anna e Mario Bonomelli, la qualità depone, senza alcun dubbio, a favore di un'attribuzione vicina a Tiziano, condivisa anche da un giudizio che Rodolfo Pallucchini avrebbe espresso davanti alla tela. È verosimile ipotizzate che l'opera in esame sia da collocare tra quelle uscite dalla bottega di Tiziano ed eseguite sotto il suo diretto controllo, come lasciano supporre la qualità elevata, la pennellata decisa e compatta e la forza espressiva del potente chiaroscuro che rende solenne e monumentale la figura del Cristo. Qualche debolezza si nota nella definizione del volto che, seppur ben condotto, mostra alcune durezze tipiche della copia. row-nksk_y635_3jdq Raccolte d'arte della Pinacoteca Civica di Palazzo Volpi Como Via Diaz, 84 La collezione suddivisa in quattro sezioni, conserva opere d'arte databili tra l'Alto Medioevo e il Novecento. La prima sezione, dedicata al Medioevo, presenta sculture e affreschi databili tra la fine del VI e il XIV secolo, tra i quali spiccano il nucleo di scultura altomedioevale e romanica, con reperti dalla basilica di S. Abbondio, e il ciclo di affreschi gotici con le storie delle sante Faustina e Liberata. La sezione rinascimentale comprende una selezione dei ritratti di uomini illustri raccolti da Paolo Giovio nel Cinquecento e significative testimonianze connesse al cantiere della cattedrale cittadina (vetrate, sculture, arazzi, modelli lignei), cui si aggiunge una rara tavola quattrocentesca con la Madonna, opera del pittore valenzano Jacomart Baco, anche attribuita ad Antonello da Messina. La Quadreria, riunisce grandi pali provenienti da chiese non più esistenti e dipinti pervenuti da collezioni private, offrendo un'ampia panoramica dei principali artisti attivi a Como dal XVI al XIX secolo, tra cui figurano opere di importanti pittori lombardi del Seicento come Morazzone e Nuvolone, oltre che di artisti comaschi come i Recchi. La quarta sezione documenta con dipinti, disegni, fotografie e sculture gli episodi salienti dell'arte del XX secolo a Como, tra i quali emergono i disegni futursiti di Antonio Sant'Elia, presentati anche con apparati multimediali, le opere dell'architetto razionalista Giuseppe Terragni, la pittura degli astrattisti comaschi degli anni Trenta, capeggiati da Mario Radice e Manlio Rho. Fino al 1989, anno in cui fu inaugurata la Pinacoteca Civica di Palazzo Volpi, la collezione di dipinti e di sculture medievali del Comune di Como era conservata nell'unica sede del Museo Civico di Palazzo Giovio. La collezione nacque in primo luogo attraverso l'acquisizione di opere provenienti da chiese e conventi cittadini soppressi nell'Ottocento. Importanti furono anche le donazioni e i lasciti di privati cittadini, che consentirono l'ingresso in museo di opere di eccezionale valore, come il ritratto di nobildonna di Magnasco, il Dio Vulcano del pittore romano Pompeo Batoni e la fastosa scena di cronaca romana settecentesca di Giovan Paolo Panini raffigurante la Consacrazione del cardinale Pozzobonelli nella basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso. row-88pg_gtwc-z6du Madonna col Bambino ("Madonna del libro") Milano Piazza Castello row-i5da_iz5t~jbya Giuditta mostra al popolo la testa di Oloferne Brescia Via S. Francesco Il dipinto murale immortala l'atto conclusivo dell'uccisione del Oloferne: Giuditta stringe nella mano sinistra la testa decapitata del generale assiro e la alza trionfante per mostrarla al popolo d'Israele. Con la destra impugna ancora la spada ed ai suoi piedi è inginocchiata una donna che spiega un lenzuolo bianco destinato ad accogliere il macabro trofeo. Le due figure femminili occupano il primo piano, mentre lo sfondo è dominato dalle sagome delle tende dell'accampamento militare, disposte a costruire una cannocchiale prospettico che conduce verso il paesaggio di sfondo caratterizzato dalle fortificazioni della città di Betulia. Dietro la fanciulla vittoriosa c'è quella viola dalla quale emerge il copro di Oloferne accasciato; poco oltre una tenda rossa fa da fondale ai corpi di tre soldati distesi a terra e raffigurati con scorci arditi. L'ultima tenda a padiglione ha un colore cinereo che si confonde con quello del cielo azzurro attraversato dalle nuvole. La composizione è caratterizzata da una certa eleganza leziosa che non riesce a caricarsi di drammaticità nemmeno nel gesto di Giuditta o nei corpi abbandonati dei soldati morti raffigurati in pose virtuosistiche. Solo la mole di Oloferne, con le braccia abbandonate e il colorito verdastro, sembrano trasmettere, almeno in parte, l'intensità emotiva dell'episodio. Ed è proprio nell'elegante cromatismo e nella morbida luminosità, che accarezza le figure dando loro rilievo plastico, che i dipinti trovano il tocco di maggior pregio. L'affresco, posto sulla parete di sinistra della cappella dell'Immacolata, fa parte della decorazione pittorica settecentesca che interessa le pareti laterali e la volta del vano e prevede tre ampie scene figurate inserite in quadrature architettoniche arricchite da motivi decorativi in stucco rilevati e dorati. Fondata sul finire del XV secolo, la cappella viene completamente rinnovata nella prima metà del XVIII secolo su commissione della Scuola dell'Immacolata che ne aveva il patronato. Il programma iconografico dei dipinti esalta e celebra il culto dell'Immacolata Concezione di Maria che ebbe nelle chiese francescane uno dei centri di maggiore diffusione a partire dal XV secolo, quando il papa Sisto IV, anch'egli francescano, istituì la festa dell'Immacolata. In questo caso l'episodio di Giuditta e Oloferne, tratto dall'Antico Testamento, va letto come una prefigurazione della vittoria di Maria sul male. Come Giuditta libera il popolo d'Israele dall'assedio mortale del generale assiro, così la Vergine sconfigge il male. Stando alle fonti contemporanee, i lavori per la realizzazione dei dipinti iniziarono nel 1737 sotto la direzione del pittore milanese Giovanni Battista Sassi che si occupò delle figure. La storiografia antica ricorda anche l'intervento di Giovanni Antonio Cucchi di cui però i critici contemporanei non riescono ad individuare la mano. row-qa6u~tp8c-u2b5 Garlate Via Statale, 490 L'oggetto è costituito da una struttura portante in legno (castello) su cui sono posti, distanziati, i telai dove sono legate parallelamente canne palustri per formare un piano di appoggio aerato. Con il recupero presso allevatori e contadini di cannicciati tardo-ottocenteschi, è stato possibile restaurare e ricostituire un "castello", una bigattiera, per allevare bachi. Benchè questa struttura sia talvolta denominata "castello lombardo", era presente in antico in altre regioni. Nel Cinquecento era usata in Toscana, ma proviene da più lontano ancora. row-dqse-iqn5.rfzp Giudizio Universale Brescia Via S. Francesco La parete perimetrale di destra della chiesa di San Francesco d'Assisi conserva numerosi brani di pittura murale pertinenti alla fase decorativa più antica dell'edificio la cui costruzione risale al 1265. Fra essi se ne possono isolare sei, che costituiscono i frammenti di quella che doveva essere una grandiosa raffigurazione del Giudizio Universale, la cui completezza venne danneggiata dall'inserimento sulla parete dei tre altari costruiti fra il 1497 e il 1520. Partendo da destra, si possono riconoscere i frammenti dell'Inferno: un diavolo nero e peloso armato di tridente fa precipitare uomini dall'espressione sofferente verso scheletrici alberi verdi; poco più in là una figura mostruosa si prepara a torturare i dannati con tenaglie, pungoli e forbici. Segue una scena quasi completamente nascosta dal corpo del quattrocentesco altare di San Michele arcangelo: di essa si scorge, a destra del coronamento superiore dell'ancona dell'altare, una figura barbuta con l'aureola che accoglie in grembo piccole figure umane. Si tratta di Abramo che accoglie le anime dei beati nel suo grembo. La parte inferiore di questo riquadro probabilmente raffigurava la resurrezione dei morti con Cristo Giudice al centro. A sinistra si sviluppava l'illustrazione del paradiso del quale restano una ricca teoria di angeli e santi disposti su registri sovrapposti ed una scena dal vivace gusto narrativo in cui si confrontano un gruppo di frati di vari ordini religiosi ed uno di laici. Fanno da sfondo alle figure eleganti alberi fioriti e palme cariche di datteri che evocano il paradiso terrestre. Riportati alla luce durante i restauri che hanno interessato l'edificio negli anni trenta del Novecento, i dipinti murali hanno attirato immediatamente l'attenzione della critica sia per la qualità esecutiva sia perché sono fra le poche testimonianze organiche e di una certa estensione della cultura pittorica bresciana del XIV secolo. Salvo qualche rara eccezione, la letteratura critica ha sempre considerato i diversi frammenti come opere slegate l'una dall'altra ed ha concentrato l'attenzione solo sulla Teoria con angeli e santi, della quale è stato messo in evidenza il legame ancora persistente con la ieraticità e il carattere prettamente disegnativo della pittura bizantina, e sulla scena dei frati e dei laici della quale, invece, si è sottolineata l'apertura verso le novità giottesche ed una eleganza già gotica. Questo lacerto, in particolare, è noto a livello critico come la Scuola dei frati e degli studenti perché secondo alcuni troverebbe un riferimento iconografico non tanto nella letteratura sacra, quanto nella storia del monastero francescano bresciano, nel quale, secondo uno storico rinascimentale, sarebbe esistito un vero e proprio istituto di studi superiori di cui questo affresco sarebbe una rappresentazione. I pareri discordanti circa la lettura iconografica e i caratteri stilistici che hanno caratterizzato la storiografia precedente trovano una sintesi organica accentando la lettura unitaria dei lacerti e la loro identificazione come parti di una vasta scena raffigurante il Giudizio Universale, organizzata non tanto in registri sovrapposti, come era d'uso nella pittura contemporanea, ma in grandi riquadri che si sviluppavano orizzontalmente a coprire quasi interamente la parete occidentale della chiesa. Stilisticamente, gli affreschi si collocano in quel filone della pittura lombarda che unisce elementi arcaici di derivazione bizantina come i lineamenti fortemente marcati dal disegno, i nasi a forcella, gli intensi chiaroscuri dei volti, ad aperture verso le novità spaziali e il gusto per la narrazione di carattere giottesco, ed un interesse tutto cortese per la raffigurazione di dettagli della vita contemporanea ed in particolare per la raffigurazione mimetica delle vesti e delle acconciature. Ed è proprio la precisione con la quale viene ritratto l'abito di uno dei laici in primo piano che permette di collocare l'esecuzione dei dipinti entro il 1320, in un periodo nel quale viene meno l'uso della sopraveste con le maniche più corte della tunica e degli abiti accollati e caratterizzati da fitte abbottonature ai polsi. Particolari che sono invece ben evidenti nel'abito rosso e bianco dell'uomo in primo piano. row-yax6.uxnw~jgaa Sarcofago della sacerdotessa Isiuret Como Piazza Medaglie d'Oro, 1 Sarcofago egizio di forma antropomorfa realizzato in cartonnage, un involucro di vari strati sovrapposti di tela e stucco, e poi dipinto. La decorazione comprende il ritratto schematico della defunta, le immagini di diverse divinità e numerose iscrizioni in geroglifico. Le iscrizioni, presenti sui fianchi e sulle gambe, comprendono anche i nomi, gli incarichi e la genealogia della defunta. Il reperto pervenne al museo nel 1905 con il lascito dell'archeologo comasco Santo Garovaglio. Il sarcofago fu aperto nel 1887 dallo stesso Garovaglio, che vi riscontrò la presenza della mummia, intatta e completamente avvolta in bende. Le iscrizioni in geroglifico presenti sul manufatto consentono di identificare la defunta con la giovane sacerdotessa Isiuret, nome che significa "Iside la Grande", vissuta a Tebe al servizio del dio Amon. Il sarcofago venne realizzato in area tebana alla fine della XXII dinastia, nel IX secolo a.C. row-aj4u~ykd5-kex4 Lodi Via della Costa, 4 Questo rarissimo torchio tipografico, unico in Italia, fu inventato da George Clymer a Filadelfia (USA) e prodotto a Londra dal 1817. Questo modello risale al 1859, costruito dalla fonderia V&J Figgins fino al 1893.Caratterizzato dalle ricche decorazioni e dal contrappeso a forma d'aquila (americana), ha un formato stampa di 52x65 cm e rappresenta il primo cambiamento nella costruzione dei torchi tipografici in quanto senza viti sulla platina. La sua esistenza viene segnalata dallo stampatore-editore Enrico Tallone, che lo vede in pessimo stato nel giardino di una famiglia inglese in provincia di Lecce, dove fungeva da portavasi. I volontari del laboratorio di restauro del museo hanno lavorato tre mesi per eliminare inchiostrazioni, ruggine e vernice, procedendo poi al completo smontaggio, ripristino delle varie parti e rimontaggio, fino a renderlo nuovamente funzionante.Questo torchio fu operativo in India nel periodo coloniale inglese e da là trasferito in Puglia dove si era ritirato il baronetto inglese che lo aveva portato con sé. row-ef66_sc8z_v2ud Arca di S. Agostino Pavia Piazza San Pietro in Ciel d'Oro La basilica romanica di S. Pietro in Ciel d'Oro, celebrata da Dante, Boccaccio e Petrarca, ha richiamato nei secoli numerosi fedeli e letterati, tra i motivi di vanto le illustri sepolture ospitate al suo interno: Severino Boezio, Liutprando e S. Agostino le cui spoglie vengono traslate nel 722-725 dalla Sardegna a Pavia per volontà del re longobardo Liutprando. Bonifacio Bottigella, colto priore degli Eremitani di S. Agostino, insediatisi nella chiesa pavese nel 1327 (in contrasto con i Canonici Lateranensi che già la officiano) commissiona l'arca marmorea, capolavoro d'arte gotica, per contenere degnamente le spoglie del fondatore del loro ordine. Al priore si deve anche l'ideazione del complesso programma iconografico del monumento che si sviluppa organicamente su tre registri narrativi, alternando bassorilievi a sculture a tutto tondo: nel basamento Santi e Apostoli e pilastrini con addossate le quattro Virtù Cardinali, le tre Teologali e la Religione. Nel secondo ordine, una cella, aperta da otto archi, con S. Agostino a figura intera disteso e circondato da sei diaconi che sollevano il lenzuolo funebre e nella volta, entro una mandorla, il Cristo benedicente con otto Serafini, la Madonna e altri santi. Negli angoli i Quattro Santi Coronati seduti e inferiormente figure di Santi stanti. Nel terzo ordine nove formelle a bassorilievo con episodi della vita del Santo, intervallate dodici statue di Agostiniani. Nei dieci coronamenti triangolari sono rappresentati i miracoli del Santo e la traslazione delle spoglie, tra otto statuine (cori della gerarchia angelica).L'arca nasce in origine come cenotafio (tomba vuota in ricordo di un personaggio illustre), perché si era persa memoria dell'esatta ubicazione dei resti mortali del Santo, sicuramente sepolto nella basilica, ma nascosto in un luogo segreto per impedirne il trafugamento. Solo nel 1695, in occasione di lavori alla cripta, le reliquie di S. Agostino vengono rinvenute nello scurolo dietro l'altare e riconosciute autentiche nel 1728 con bolla di papa Benedetto XIII. Iniziata verosimilmente nel 1362 come recita l'iscrizione alla base o forse già prima del 1350, l'arca viene realizzata da una equipe di scultori lombardi, maestri campionesi con caratteristiche differenti, avvicinati a Matteo da Campione, influenzati dal pisano Giovanni di Balduccio, autore dell'arca di S. Pietro Martire in S. Eustorgio a Milano. Collocata in origine nella perduta sacrestia meridionale della basilica, smontata e rimontata più volte per motivi di sicurezza, trasferita nel 1823 in Duomo in un'apposita cappella, il 7 ottobre 1900 l'arca torna solennemente in S. Pietro in Ciel d'Oro dove viene collocata sull'altare maggiore. row-2seb.g6c8_q2xm San Tommaso d'Aquino fra i Santi Pietro e Paolo Montichiari Via Martiri della Libertà, 33 Il dipinto raffigura S. Tommaso d'Aquino tra i SS. Pietro e Paolo assiepati l'uno accanto all'altro, con S. Paolo affannato a sbirciare il santo domenicano nell'atto di scrivere. Le vesti sgargianti delle tre figure si stagliano su un fondo nero che esalta le zone ricoperte dalla foglia d'oro. La visione da sottinsù, evidenziata dal libro rosso squadernato nelle mani di S. Tommaso, suggerisce l'ipotesi che la tavola costituisse l'elemento apicale di un più vasto polittico, parzialmente ricostruibile tramite le quattro tavole conservate nella chiesa di S. Alessandro alla Croce a Bergamo, che raffigurano singolarmente i santi Pietro martire, Gerolamo, Domenico e Vincenzo Ferrer (?). La prima testimonianza dell'opera risale al 1947, quando Roberto Longhi attribuisce il dipinto a Gaudenzio Ferrari. Dopo essere transitata sul mercato antiquario la tavola è acquistata da Luigi Lechi nel 1980, anno in cui è documentato un intervento di restauro. In occasione della sua prima esposizione pubblica nel 2006, l'opera è stata orientata verso il nome di Fermo Stella, pittore nato a Caravaggio documentato dal 1510 al 1564 ca., in un momento di stretta vicinanza stilistica al suo maestro Gaudenzio Ferrari. Nella tavola risulta chiaramente avvertibile l'impressione che ha esercitato sul giovane Stella la coloratissima ancona gaudenziana di Arona dipinta tra il 1510 e il 1511.La pertinenza a un unico complesso è avvallata, oltre che dalla medesima identità stilistica, da condivise soluzioni tecniche tra i diversi elementi. Sulla base di ricerche indiziarie è stata avanzata l'ipotesi che il polittico fosse in origine collocato presso l'altare intitolato ai SS. Apostoli e Tommaso d'Aquino nella distrutta chiesa domenicana dei SS. Stefano e Domenico a Bergamo. row-twrv~wz6u~scb6 Ritratto di donna che dorme Ome Via Maglio, 51 La tela è occupata per tre quarti dal ritratto di una giovane donna a seno scoperto, addormentata con la testa reclinata all'indietro. La nudità è interrotta solo da un piccolo lembo di stoffa bianca calato sotto il seno e da una sottile catenella d'oro che segue la morbidezza del corpo femminile. La pelle diafana funge da "anticamera" al volto con le gote accese e le labbra vive, mentre la linea sinuosa che dalle spalle risale lungo il collo fino alla morbida massa di capelli, traccia il confine tra la figura e il fondo azzurro, steso con larghe pennellate screziate. Il dipinto è firmato in alto a sinistra "G. Cresseri". La critica recente colloca le prove da cavalletto di Cresseri dalla prima giovinezza al 1897-1898, cioè fino al ciclo affrescato nella parrocchiale di Verolanuova (Brescia), considerato fino ad ora il suo primo ampio impegno sui muri. Dal 1898 alla morte il pittore riprese i lavori da cavalletto quasi sempre come una ricreazione dalle vaste campagne murali: nascevano così i bouquets di fiori (quasi sempre di rose), i paesaggi, le nature morte e i nudi femminili stanti come questo, a olio, il "Nudo femminile con le braccia alzate" realizzato a sanguigna o, per restare sempre in tema di modelle, la "Giovane donna a seno nudo", entrambi conservati in collezione privata a Brescia. Nell'insieme il dipinto rimanda all'ambiguo connubio di sentimenti e sensualità caratteristici dell'idea della donna di inizio secolo, e denota l'adesione da parte del pittore al repertorio liberty e alla cultura simbolista del tempo. La stessa tipologia femminile, partecipe del medesimo gusto fin de siècle, si ritrova nel "Ritratto di donna" realizzato a pastello su carta dal pittore gardesano Angelo Landi (1879-1944) tra il 1904 e il 1905, studio preparatorio per una delle due figure femminili dipinte da quest'ultimo nel 1905 sul soffitto dell'Hotel Laurin a Salò. La presenza nella collezione di Pietro Malossi di un altro ritratto femminile concordemente attribuito a Cresseri, insieme con altri dipinti da cavalletto di Achille Glisenti, Angelo Landi, Pietro Leidi e Arturo Verni, testimonia l'interesse del collezionista antiquario per la pittura da cavalletto bresciana tra Otto e Novecento. row-upx5~unif_hqt8 Ritratto di Claude-Louis Pétiet con i figli Milano Via Palestro, 16 row-vpre~mraf_5bq3 Bergamo Piazza Duomo Una splendida struttura architettonica, costituita da lesene decorate a candelabra e ghirlande, incornicia il sepolcro dove giace Medea Colleoni, figlia prediletta del grande condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni. Distesa sul sepolcro, decorato da stemmi gentilizi, simboli di potere, e dall'altorilievo con Cristo in Pietà, immagine sacra ricorrente nell'arte funeraria, giace la statua della giovane, abbigliata con una veste presumibilmente in velluto operato. Sopra l'epigrafe in lettere capitali, che attesta la conclusione dei lavori dopo la morte del Colleoni, è presente ad altorilievo la raffigurazione della Madonna col Bambino, affiancata a sinistra da Santa Caterina d'Alessandria, protettrice delle donne nubili e forse per questo presente sul monumento, e a destra da Santa Caterina da Siena, caratterizzata dal crocifisso (ora spezzato e mancante) e dal cuore raggiato. Dopo il trasferimento della tomba da Urgnano alla Cappella Colleoni nel 1842 fu aggiunto il coronamento in stucco con la corona di lauro e due colombe. Intorno al 1471, il grande condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni, addolorato per la morte della figlia prediletta, cominciò a prendere accordi con Giovanni Antonio Amadeo per la realizzazione di un monumento funebre a lei dedicato. Il sepolcro, eseguito in marmo bianco di Carrara, doveva essere collocato nella chiesa del convento della Basella a Urgnano, non lontano dal castello di Malpaga dove risiedeva il Colleoni. Seppur con delle varianti, il monumento a Medea può essere considerato l'unica tomba "umanistica" in Lombardia. Firmato in basso "JOVANES ANTONIUS DE AMADEIS FECIT HOC OPUS", la grande iscrizione in marmo sopra la figura distesa della giovane attesta che i lavori furono conclusi dopo la morte del Capitano, quindi dopo il novembre 1475. Come informano le due iscrizioni su marmo nero in basso, la tomba di Medea fu acquistata dal Luogo Pio nel 1842 per riunire i sepolcri Colleoni e successivamente trasportata in Cappella. In quell'occasione fu aggiunto il coronamento in stucco disegnato dall'architetto Giacomo Bianconi. row-3p78~cja8-4af2 Samarate Via Giovanni Agusta, 510 L'elicottero AB 139 inizialmente sviluppato in collaborazione tra l'azienda italiana Agusta e l'azienda statunitense Bell. Da qui la sigla AB all'inizio del nome. Successivamente con il ritiro della Bell dal progetto e la fusione tra l'Agusta e la Westland il nome dell'elicottero divenne AW 139.Viene considerato un elicottero di medie dimensioni, con un motore biturbo un design che punta molto sulla aerodinamicità della sua configurazione che permette di arrivare ad una velocità massima di 170 nodi. La cabina di pilotaggio può ospitare due piloti, mentre il resto della fusoliera conta 15 postazioni. Le sue dimensioni sono di lunghezza 16,65 metri, di larghezza 4,2 metri e altezza 4,95 metri. Il diametro rotore delle grandi pale è di 13,80 metri. Ha un peso complessivo di 4200 Kg quando è vuoto e un peso di 6800 Kg in decollo.Il prototipo conservato nella collezione del museo è l'AB 138 AC/2. Il secondo esemplare della produzione AB 139 che compì il suo primo volo in data 4 Giugno 2001 e l'ultimo in data 20 Dicembre 2013, con un totale di ore di volo complessive accumulate 1257.Questo elicottero passò pure attraverso l'aeronautica militare italiana, essa ne trasformo alcuni dettagli per e lo ribattezzò HH 139 A. Il termine HH sta indicare il termine Hospital Helicopter, di fatti l'acquisto di questo mezzo da parte dell'aeronautica fece parte del programma di ammodernamento degli assetti ad ala rotante impiegati per la ricerca e il soccorso nazionale. L'esemplare modello di AB 139 AC/2, si può ammirare oggi all'interno del museo Agusta. Esso prese forma come prototipo per il programma sperimentale AB 139, partendo negli anni 2000, iniziò in origine in collaborazione tra l'Agusta e la Bell. Successivamente, quando la Bell uscì dal progetto e l'Agusta si fondò con la Westland il programma passo al nome AW 139.Il totale di ore complessive di volo sono 1257, esso venne testato in diversi teatri operativi per comprendere le proprie capacità di funzionamento in climi e temperature ben differenti. Pe la campagna prove al freddo l'elicottero fece rotta per Kiruna in Svezia nel periodo più rigido del territorio tra il 15 Gennaio 2004 e il 18 Febbraio 2004. Dal 27 Luglio 2004 al 23 Settembre 2004 ha volto sulle coste della California per le prove di Cat. A, HV e in quota. Successivamente ha effettuato altre missioni a Ulrichen in Svizzera nel 2006, 2007, 2008 e nel 2010 per prove di Cat. A, prova verricello e gancio baricentrico. Dal 2008 al 2010 ha sostenuto ulteriori prove come missioni di sicurezza e prove di appontaggio sulle navi. Concluse poi il suo periodo operativo con l'ultimo volo il 20 Dicembre 2013. row-2n59_k7vn.2ses La confutazione dell'eresia Sondrio Via Maurizio Quadrio, 27 La parola come arma potente con la quale difendere il proprio credo, questo è il tema di fondo del quadro dipinto da Pietro Ligari nel secondo quarto del Settecento. Protagonista è Fedele da Sigmaringa, frate cappuccino vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, noto per la sua azione di predicatore della fede cattolica nelle terre teatro della Riforma luterana. La figurazione è impostata per piani diagonali e il contrasto tra luci e ombre intensifica la drammaticità della scena. Il frate schiaccia verso il basso la personificazione dell'eresia, figura che tenta di divincolarsi, aggrappata invano ad un libro tra le cui pagine si insinua una serpe. Il quadro non è terminato, manca infatti il calamo, presente nel bozzetto preparatorio, con il quale il martire sta per scrivere su un volume aperto sorretto da un angelo; diversamente non si spiegherebbe la mano destra alzata, bloccata in una posa innaturale.Fedele da Sigmaringa venne inviato nella terra dei Grigioni a predicare la fede cattolica contro l'eresia luterana e fu martirizzato a Coira (Svizzera) nel 1622. A Coira lavorò tra il terzo e il quarto decennio del Settecento anche il Ligari, che condivideva la venerazione dei valtellinesi per il frate martire. Il Ligari è artista sondriese dai molteplici interessi: architetto, costruttore di congegni meccanici e appassionato di agricoltura e intimamente legato alla propria terra sebbene si sia formato artisticamente tra Roma Venezia e Milano. Insieme ai figli Cesare e Vittoria, entrambi pittori, Pietro ha segnato in senso barocco lo sviluppo artistico dell'intera Valtellina. Il suo atelier e il suo archivio si sono conservati quasi intatti e sono confluiti nelle collezioni del Museo valtellinese di storia e arte di Sondrio, dando origine al Fondo Ligari.Del dipinto esiste un bozzetto preparatorio proveniente dall'eredità Ligari, passato nella collezione Meli Bassi a Milano e donato recentemente al Museo di Sondrio. La simultanea presenza tra i beni di famiglia di entrambe le opere lascia supporre una commissione non andata in porto, ipotesi avvalorata dal fatto che il dipinto sembra non terminato. Infatti in un manoscritto del pronipote di Pietro, Angelo Ligari, il quadro è citato come "non finito": manca infatti la penna presente invece nel bozzetto e brandita dal protagonista. row-jsbb-3wwm~picm Suite Milanaise Briosco Via Col del Frejus, 3 Scultura a foma di parallelepipedo, costituita dalla compressione di una scocca di automobile verniciata con colori metallizzati. Il blocco di metallo compresso è alto 200 cm e largo e profondo 80 cm. L'intera serie comprende 15 compressioni verniciate nei seguenti colori industriali: Giallo Naxos 594, Verde Wembley 396, Agatha 316, Silver, Arancio 592, Balck Storm 805, Rosso Mica 361, Verde Manaos 358, Shock Red 165, Violet 105, Blu Francia 490, Blu Regent 484, Blu Energy 452. L'opera è costituita da una serie di 15 compressioni realizzate nel 1998 dall'artista César (1921-1998), uno dei più celebri esponenti del Noveau Réalisme, e appartiene alla Collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini. Fu il critico Pierre Restany in persona a rivolgersi all'imprenditore e collezionista brianzolo Alberto Rossini proponendogli di collaborare alla realizzazione di un omaggio che l'artista voleva dedicare alla città di Milano, per la disponibilità concessagli nell'ospitare una sua grande retrospettiva a Palazzo Reale. Lo scultore avrebbe voluto creare una nuova serie delle sue celebri "Compressioni" partendo da automobili nuove, che sarebbero poi state presentate presso la Fondazione Mudima. Rossini accettò la proposta molto volentieri, procurò all'artista le scocche di FIAT Marea e lo ospitò presso l'industria di famiglia, la Ranger Italiana S.p.A, dove gli mise a disposizione mezzi e personale per realizzare la presente "Suite Milanaise". In circa una settimana le auto vennero compresse, modellate, saldate e verniciate di vari colori per un totale di tredici compressioni monocrome e due compressioni piatte, spesse soltanto 8 cm, frutto di un doppio lavoro di pressione sulla materia. Questa particolarissima collaborazione fruttò alla Ranger quello stesso anno il Premio Guggenheim "Impresa & Cultura", riconoscimento annuale dedicato all'azienda sostenitrice del progetto più innovativo nel campo delle creazioni artistiche.Questo tipo di compressioni di carrozzerie di automobili, hanno in realtà un origine molto più "antica": César vi ha lavorato quasi ininterrottamente durante tutta la sua carriera a partire dal 1959, presentandole per la prima volta a Parigi nel 1960 e riproponendole poi più volte nel corso degli anni, con varianti infinitesimali. Egli era interessato al momento negativo del processo industriale, quando cioè i rottami vengono compressi in blocchi prima di essere mandati alla fusione in discarica, ovvero il momento in cui l'industria chiude il proprio ciclo di produzione, distruggendo i suoi stessi prodotti e riportandoli allo stadio iniziale, la materia grezza. L'opera di César diventa in questo senso una sorta di provocazione: il rifiuto industriale, trasformato in opera d'arte, si riappropria di una certa dignità e di una nuova forma, quella artistica, riportandosi allo stesso livello (se non maggiore) del prodotto finito, l'automobile perfetta e da corsa.La creazione della "Suite Milanaise" può considerarsi una delle sue più originali versioni e interpretazioni di questo tipo di operazione artistica e si differenzia dalle compressioni storiche per molteplici caratteristiche. Pur presentandosi infatti nella tradizionale forma prismatica verticale, la pressione esercitata sulle carrozzerie di queste auto è stata leggermente ridotta rispetto alla norma, così da poter lasciare degli spazi vuoti nella massa di lamiera, delineando in questo modo nella materia delle vere e proprie pieghe, come si trattasse di un panneggio classico, che rendono le sculture più "areate", quasi respirassero. Inoltre in questa serie, dopo l'operazione di riquadratura, un nuovo strato di lacca metallizzata, rinforzata talvolta da una pioggia di lustrini incorporati, è stato vaporizzato sulla materia contorta rendendola non, come nelle Compressioni storiche, materiale da rigattiere, bensì un vero e proprio campionario di tinte industriali, le stesse che rendono allettante l'acquisto di un automobile agli occhi dei consumatori. row-dn8f_zb6a~mqkb Battesimo di Cristo nelle acque del Giordano, San Giovanni riceve il donario per il Duomo dalla regina Teodolinda Monza Piazza Duomo La facciata del Duomo di Monza, attribuita all'architetto Matteo da Campione che diresse i lavori nella basilica dalla seconda metà del Trecento, è corredata da un portale maggiore caratterizzato da una profonda strombatura, in cui si alternano colonnine e pilastri modanati con capitelli corinzi, e coronato da una grande lunetta scolpita montata su un piedistallo formato da frammenti lapidei antichi riutilizzati. La lunetta è composta da sette lastre marmoree di dimensioni variabili disposte su due ordini sovrapposti e separati da una semplice modanatura, che divide in tre riquadri anche il registro inferiore. Qui campeggia su un piano roccioso l'immagine del battesimo di Cristo nelle acque del Giordano. Gesù appare benedicente, in posizione frontale, nudo con il ventre ricoperto in maniera schematica dalle acque del fiume: egli è sormontato dalla colomba dello Spirito Santo, con le ali spiegate mentre reca nel becco un'ampolla d'olio per l'unzione. A destra di Cristo è raffigurato San Giovanni Battista, vestito con una tunica e con un'ampollina nella mano destra, vicino ad un angelo che regge il lino cerimoniale. Ai lati, separati da due alberelli, due personaggi la cui identificazione è stata piuttosto controversa, anche per via della mancanza di attributi iconografici: inizialmente identificati come Maria e San Giovanni Evangelista, o comunque un apostolo, più di recente sono stati identificati come Elisabetta, per via dei tratti somatici senili, e Zaccaria, che tiene nella mano sinistra un rotolo. Alle estremità, oltre la modanatura verticale, sono collocati, a sinistra, San Pietro con in mano le chiavi accanto ad un arbusto di quercia con sette foglie e, a destra, San Paolo che regge tra le mani la spada, vicino ad un tralcio di vite con dodici foglie. Nel registro superiore San Giovanni riceve il donario per il Tesoro del Duomo di Monza dalla Regina Teodolinda, che regge tra le mani la Corona ferrea e una croce; alle sue spalle sono collocati i due figli Gundeberga e Adaloaldo - quest'ultimo con un uccellino nel palmo della mano - e il marito Agilulfo, inginocchiato con il capo coronato e speroni ai calzari. Dietro al re sono rappresentate tre corone votive con croci gemmate, mentre sulla destra alcuni pezzi del Tesoro, tra cui si identificano la "chioccia con sette pulcini", la "croce di Berengario", la "coppa di zaffiro" e un grande calice ansato. E' incerto se nell'elemento allungato alle spalle del Battista debba essere riconosciuta una sottile colonna con capitello o un "flabellum" (ventaglio liturgico).Il restauro effettuato all'inizio degli anni Ottanta ha permesso di recuperare in più zone della lunetta tracce di colore, soprattutto gli occhi e le sopracciglia dei personaggi, nonchè tracce diffuse di doratura: nella fascia superiore, esse sono collocate in corrispondenza del vello e dell'aureola di San Giovanni, mentre nel registro inferiore sempre San Giovani indossa un drappeggio decorato a fiori dorati e dorate sono anche le ali e l'aureola dell'angelo. Sul fondo sono state trovate tracce di colore blu, probabilmente steso a tempera.La lunetta è appoggiata su un piedistallo formato da cinque frammenti lapidei antichi riutilizzati. Il primo frammento sulla sinistra presenta la scena dell'uccisione di un leone da parte di un amorino nudo, che sembra volerne salvarne un altro che era stato aggredito; il leone è sollevato su due zampe ed è trafitto nel ventre dall'asta dell'amorino. Il secondo frammento proviene dall'alzata di un coperchio di sarcofago e raffigura una scena di caccia alla pantera e al cinghiale, di cui si è conservata solo la parte anteriore del muso. Il terzo frammento, probabilmente realizzato per uso architettonico, rappresenta un motivo marino con un delfino e un pistrice. Il quarto frammento, sulla destra, raffigura una vite che si diparte da un vaso, mentre il quinto rappresenta una pianta di acanto innestata in un vaso posto su un tripode, all'interno di una doppia cornice ondulata. La lunetta è stata dalla critica datata intorno alla realizzazione della prima campagna dei lavori eseguita in facciata, collocabile tra il 1319 e il 1345, sia a confronto con le sculture lombarde del primo quarto del XIV secolo, sia in considerazione degli oggetti del Tesoro in essa rappresentati. L'opera è caratterizzata da modalità espressive ancora arcaicizzanti e solidamente legate alle esperienze scultoree del secolo precedente, quali la durezza del modellato e un accentuato e nervoso linearismo, prima associato dalla critica ad una maestranza tedesca e poi alla possibilità che il rilievo derivi da pitture originariamente presenti all'interno del più antico edificio basilicale, perdute con la demolizione di quest'ultimo. Il motivo dell'acqua del Giordano che discende a cascatella dal bacino di Gesù, raffigurato nel registro inferiore nella scena del "Battesimo di Cristo" è infatti frequentissimo nella pittura tra il XIII e il XIV secolo e se ne trovano esempi in architetture quali il Battistero di Parma e S. Francesco a Lodi. Quanto agli orli delle vesti di Teodolinda e in generale dei personaggi raffigurati nel registro superiore, essi presentano invece eleganze pienamente trecentesche, non ascrivibili ad una datazione più arretrata, il che verrebbe confermato anche dall'assoluta omogeneità della lunetta al complesso del portale e della facciata, nonchè ad una serie di sculture del primo Trecento rilevabili in alcuni capitelli figurati all'interno della chiesa.Una datazione alla prima metà del secolo parrebbe confermata inoltre dalla minuziosa puntualità nella raffigurazione degli oggetti del Tesoro, che sembra volerne rivendicare il legittimo possesso da parte della basilica di S. Giovanni. Al di sotto delle vicende costruttive edilizie del Duomo è infatti possibile ricostruire la fitta trama di avvenimenti politici che, tra la fine del Duecento e i primi del Trecento, resero Monza teatro dello scontro tra i Visconti e i Della Torre. Durante la guerra contro Federico II il podestà di Milano si fece consegnare parte del Tesoro, che venne depositato nel 1242 presso l'abate di Chiaravalle e restituito solo sei mesi dopo, per poi essere nuovamente impegnato da Manfredo della Torre nel 1277. Lo storico Costantino Baroni aveva nel 1944 proposto, sulla base di tali eventi, di fissare la datazione della lunetta tra il 1275 e il 1277 e di attribuirne la committenza all'Arciprete Raimondo della Torre. Alla critica successiva apparve però incongruo affidare l'esecuzione dell'opera ad un esponente della famiglia che si era assunta la responsabilità dell'alienazione del Tesoro e dunque venne proposta una datazione della lunetta al 1319, anno della restituzione del Tesoro a Monza per merito di Matteo Visconti o, al più tardi, al 1345, quando il Tesoro venne nuovamente requisito dal legato pontificio Bertrando del Poggetto ed inviato alla corte di Avignone, per poi rientrare grazie all'intervento di Giovanni Visconti.La lunetta costituisce inoltre un importante episodio di reimpiego: lo stretto basamento su cui poggia è infatti costituito da un singolare assemblaggio di pezzi di età imperiale romana, tutti di provenienza indecifrabile o riconducibile a frammenti di un'alzata di sarcofago. E' difficile identificare il motivo di tale collocazione: per alcuni si tratta di materiali riuniti con funzione puramente decorativa e non narrativa, per altri di un preciso riferimento alla vittoria della Chiesa di Cristo sul paganesimo, con la collocazione della scena del Battesimo sopra tali elementi classici. In ogni caso va osservato che al fregio corrispondono lateralmente inserti di uguale altezza che rialzano tutto l'archivolto di circa 25 cm: si potrebbe dunque pensare che esso costituisca un'aggiunta all'intero portale effettuata prima della sua posa in opera, con il probabile scopo di rialzare la lunetta per evitare che il forte aggetto dell'architrave la nascondesse. row-dqh2-ug9n~qinm Lecco Corso Matteotti, 32 La stele funeraria, con profilo a centina e in marmo di Musso, si restringe a punta nella parte inferiore. In origine doveva essere conficcata nel terreno e costituire un segnacolo tombale. Un'iscrizione latina occupa lo spazio sottostante l'arco. La stele, databile tra il II e il III sec. d.C., fu rinvenuta nel 2001 in occasione dei lavori di scavo per la costruzione di vani interrati di una casa di Airuno. row-j5j6~bfip_ybd4 Gatto simbolo della Dea Bastet Milano Corso Magenta, 15 row-ck6p-cgx4_sdyh Collezione Museo del Novecento Milano Piazza Duomo La collezione comprende circa quattromila opere di arte italiana del XX secolo. La collezione ha origine dall'istituzione della Galleria d'Arte Moderna, nel 1903, quale luogo destinato ad accogliere le ricche raccolte d'arte contemporanea donate dai cittadini milanesi benemeriti ai Musei Civici. Con il progetto del futuro CIMAC (Civico Museo d'Arte Contemporanea), a partire dai primi anni settanta, viene avviata una cospicua campagna acquisti, in collaborazione con Zeno Birolli, Vittorio Gregotti e Germano Celant. Dal 1969 le raccolte si arricchiscono di alcuni fondi di Carlo Carrà, Marino Marini, Fausto Melotti, Atanasio Soldati, Lucio Fontana, in aggiunta a una serie di opere di artisti contemporanei e dell'importante donazione di oltre duemila opere dei coniugi Antonio Boschi e Marieda Di Stefano.L'esposizione comprende una selezione tra le circa quattromila opere di arte italiana del XX secolo di proprietà delle Civiche Raccolte d'Arte di Milano. All'interno del Museo del Novecento i capolavori sono allestiti secondo un modello di sequenza cronologica: Futurismo, Novecento, Spazialismo, Arte Povera, e personalità artistiche di spicco come Boccioni, Carrà, Soffici, de Chirico, Sironi, Martini, Morandi, Fontana, Manzoni, Kounellis e molti altri. Il nuovo Museo del Novecento restituisce ai cittadini le proprie collezioni e conferisce il giusto riconoscimento a quei collezionisti, galleristi e istituzioni che nel corso di più di un secolo hanno collaborato a formare una delle più importanti raccolte di arte italiana del XX secolo, testimone del periodo forse più creativo e fertile della città di Milano. row-p2r3_vetb~d5ez Deposizione di Cristo nell'Avello Carate Brianza Via Cavour Sulla parete del portale d'accesso al Battistero di Agliate, a destra dell'ingresso, è presente un riquadro ad affresco, di forma rettangolare con orientamento orizzontale, delimitato da due semplici fasce parallele di colore rosso e bianco. All'interno, su un fondale di un uniforme colore azzurro intenso, è raffigurata la scena sacra della "Deposizione di Cristo nell'Avello". Al centro dell'opera è dipinto Gesù, disteso nudo su una cassa a forma di parallelepipedo, dipinta con leggere sfumature diagonali ad imitazione del marmo: il suo corpo è coperto solo da un piccolo perizoma trasparente ed è punteggiato interamente da gocce di sangue; ha le mani e i piedi piagati dai fori dei chiodi. Sopra Gesù si stende il corpo della Vergine, con il volto rigato di lacrime, la mano destra sotto il capo del figlio e quella sinistra appoggiata al suo braccio, quasi volesse sorreggerlo. Sulla destra della composizione, vicino ai piedi di Cristo, è invece raffigurata la Maddalena, avvolta in un ampio manto rosso, incurvata nell'atto di sorreggere il corpo di Gesù prendendolo per le mani: il volto della donna, sebbene assorto e caratterizzato da una espressione accigliata, è infuso da una sensuale bellezza ed incorniciato da una lunga capigliatura bionda mossa, che scende fino a toccare le ginocchia di Gesù. Alle spalle della Madonna sono visibili, entrambe curve, Maria, madre di Giacomo Minore, avvolta in un ampio manto rosso scuro con le mani giunte in preghiera accostate alla guancia, e Salomè, vestita con un mantello verde, con le mani intrecciate davanti alla bocca per la disperazione.Tutta la parte bassa della composizione, corrispondente al sepolcro, appare bocciardata, ovvero presa a martellate per preparare la struttura muraria a ricevere un nuovo strato di intonaco da affrescare. Questo secondo dipinto murale è in parte ancora visibile, ma appare oggi interrotto proprio nella parte centrale ed in generale molto danneggiato, il che rende quasi impossibile definirne con chiarezza il soggetto. Sulla sinistra è possibile identificare un lacerto della figura di Santa Lucia, riconoscibile per il piatto con i globi oculari che tiene con entrambe le mani. Della santa rimane anche un frammento dell'aureola e una porzione di veste bianca con ricami rossi, coperta da un manto verde con il bordo rosso. Ai suoi piedi, sulla destra, doveva esserci l'immagine di un offerente inginocchiato, con tutta probabilità di sesso maschile, con indosso una veste dorata a racemi rossi. E' verosimile anche la presenza di un'altra santa alle spalle dell'uomo, di cui rimane un frammento di veste verde ornata di fiorellini rossi, davanti alla quale si inginocchia una figura femminile dipinta nell'angolo in alto a destra. Questa donna, probabilmente la consorte del committente, è vestita con una tunica bianca a ricami violacei, con maniche di colore giallo, e porta i capelli biondi raccolti in una ricca acconciatura impreziosita da più giri di perle. La scena della "Deposizione di Cristo nell'Avello" fa parte di una serie di sette specchiature murarie dipinte all'interno del Battistero della Basilica di Agliate tra il XIV e il XV secolo, in concomitanza con lo sviluppo sul territorio di una nuova realtà sociale, laica ma dalle grandi ambizioni, che finanziò nuove pitture all'interno del complesso, che andarono a sovrapporsi e a sostituire la primitiva decorazione parietale del tempietto, realizzata presumibilmente intorno al X secolo. Tali dipinti non sembrerebbero far parte di un programma iconografico organizzato, per via della mancanza di coordinamento tra di loro, ma è probabile che qualche rapporto originariamente esistesse e che oggi non sia più evidente a causa della scomparsa di alcuni affreschi, causata sia dal degrado che dalle sovrapposizioni successive.L'opera raffigura un soggetto ampiamente diffuso nella storia dell'arte, caratterizzato dalla presenza dei personaggi tradizionalmente indicati nel racconto evangelico. Oltre a Gesù, vengono raffigurate la Madonna e la Maddalena, qui affiancate da altre due donne indentificate come Maria, madre di Giacomo minore, e Salomè, la cui presenza potrebbe rifarsi al Vangelo di Marco (Mc, XV, 40-41) che le elenca tra i personaggi presenti al momento della morte di Gesù. Il dipinto, datato dalla critica intorno alla seconda metà del XIV secolo, appare, nonostante la presenza di cinque personaggi in uno spazio piuttosto contenuto, caratterizzato da una composizione equilibrata, con figure realizzate secondo i canoni stilistici del tempo ed eseguite con notevoli capacità tecniche, senza forzature negli effetti drammatici.Quanto alla raffigurazione di un tema legato alla morte di Gesù all'interno di uno spazio dedicato all'introduzione del neofita alla vita religiosa comunitaria attraverso il sacramento del battesimo, essa è spiegabile essenzialmente per due motivi. Il primo coincide con l'uso dell'edificio come una vera e propria chiesa, da cui la presenza in esso di pitture murali con soggetti tra i più disparati. Il secondo corrisponde allo sviluppo, tra i secoli XIV e XV, di un tipo di devozione particolare per immagini quali Maria e le Pie donne al sepolcro, o il "Christus Passus", ovvero Gesù morto recante sul corpo, come nel presente dipinto, i segni sanguinanti della sua Passione. Queste singolari rappresentazioni si diffusero particolarmente nei periodi caratterizzati dalla sempre maggiore diffusione di contagi epidemici e dalla mancanza di appropriati sistemi di cura e prevenzione delle malattie. Il corpo morto di Cristo coperto da macchie di sangue veniva assimilato nella fede collettiva con la rappresentazione dell'individuo colpito da piaghe o ulcere, soprattutto quelle provocate dalla peste bubbonica.Quanto alla pittura murale quattrocentesca andatasi a sovrapporre alla "Deposizione", essa manca ad oggi di tutta la parte centrale, coincidente con il sarcofago sottostante Gesù: anche questo riquadro era contornato da due bande rettilinee parallele di colore bruno chiaro e bianco, su cui scorreva un'epigrafe in nero della quale rimangono solo poche lettere alle estremità. Un'altra iscrizione in bianco sullo sfondo rosso, leggibile ormai solo nell'angolo in alto a sinistra, riportava invece l'epoca dell'esecuzione (il primo giorno di febbraio) e, forse, i nomi dei committenti, raffigurati nell'affresco sottostante inginocchiati di fronte a Santa Lucia e ad un altra figura sacra non riconoscibile. row-fk6m_8qsm.f83m L'Ombra Bergamo Via S. Tommaso, 53 La scultura descrive una pecora, realizzata in bronzo e gesso, accovacciata. La pecora di color nero allude all'ombra, cioè al senso di protezione rispetto a qualcosa di delicato e prezioso che è collocato all'interno. Enzo Cucchi, nativo di un paese dell'entroterra di Ancona, è un esponente della Transavanguardia, movimento nato nel 1979 come lavoro collettivo di vari soggetti, quali il critico Achille Bonito Oliva per l'apporto teorico, gli artisti Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino per il lavoro creativo, i direttori di musei, galleristi e collezionisti per quello organizzativo. Sotto questa etichetta si raccolgono artisti che sono accomunati dal ritorno alla manualità, alla gioia e ai colori della pittura opponendosi alla dominazione dell'arte concettuale degli anni sessanta e settanta e costituendo uno specifico versante della cultura post-moderna. Alla Transavanguardia corrisponde un eclettismo stilistico e il rientro in gioco del disegno, della pittura e della scultura, insieme alle tecniche dell'affresco e del mosaico. Conosciuto più per la pittura, Cucchi si cimenta assiduamente anche nella scultura che gli permette di fondere tridimensionalità e una visionarietà popolata dalle icone del suo passato contadino. Al "L'ombra", secondo Cucchi, l'uomo mette ciò che vuole proteggere, ma l'ombra è anche la testimonianza della nostra esistenza materiale e della nostra forma e quindi è metafora della scultura che protegge e custodisce la forma. row-68jw~6inp~ppta Resurrezione di Cristo, Pentecoste, Dodici apostoli, Figure allegoriche, Profeti, Scena di sacrificio, Il campo degli Ebrei nel deserto, Giona rigettato dal ventre della balena, Elia sul carro di fuoco, Ascensione di Cristo, Fetonte Cremona Piazza del Comune La navata centrale è caratterizzata da un ciclo decorativo realizzato da diversi pittori. Lo spazio si articola in tre campate che al centro della volta accolgono ampi riquadri rettangolari attorniati da vele triangolari racchiudenti immagini di profeti e grottesche. I lavori vengono avviati a partire dalla terza campata, la più vicina alla zona presbiteriale. Le pareti presentano nelle lesene dei pilastri motivi decorativi con angeli, animali, strumenti musicali, ghirlande. Sopra gli archi delle cappelle spiccano ventiquattro figure a stucco che rappresentano profeti e sibille. Nella parte superiore delle pareti corre un fregio orizzontale con piccoli riquadri verticali racchiudenti figurette allegoriche a monocromo, alternati a lunghe strisce popolate da figure di angeli intenti in attività ludiche, che ospitano testoni aggettanti di apostoli entro nicchie circolari. Seguono lunette con figure maschili e femminili. La navata centrale della Chiesa di San Sigismondo si caratterizza per la struttura architettonica di ascendenza albertiana (si veda Sant'Andrea a Mantova), come rivelano la volta a botte unghiata e le pareti con partito alla romana con alti basamenti. Tra il 1540 e il 1559 viene decorata ad opera dei maggiori pittori attivi a Cremona in quel periodo: Bernardino Gatti, Bernardino Campi e Giulio Campi . Nonostante l'intervento di più artefici il ciclo pittorico si presenta unitario senza forti contrapposizioni stilistiche ed improntato ad effetti di grande luminosità ed eleganza. Nelle tre campate costituenti la volta la partizione degli spazi presenta richiami alla cappella Sistina ed accoglie al centro ampi riquadri rettangolari attorniati da vele triangolari racchiudenti immagini di profeti e grottesche. I lavori vengono avviati a partire dalla terza campata, la più vicina alla zona presbiteriale. Le pareti presentano nelle lesene dei pilastri motivi decorativi (angeli, animali, strumenti muicali, ghirlande) che Giulio Campi riprende delle lesene del presbiterio dipinte da Camillo Boccaccino. La decorazione prosegue sopra gli archi delle cappelle dove Giulio realizza ventiquattro figure a stucco che rappresentano profeti e sibille echeggianti nell'anatomia e nelle posture le figure di Michelangelo. Nella parte superiore delle pareti corre un fregio orizzontale con piccoli riquadri verticali racchiudenti figurette allegoriche a monocromo, alternati a lunghe strisce popolate da figure di angeli intenti in attività ludiche, che ospitano testoni aggettanti di apostoli entro nicchie circolari. Seguono lunette con figure maschili e femminili.Per quanto riguarda le scene nella volta, la terza campata, dipinta tra il 1540 e il 1543 dal poco noto pittore bolognese Domenico de Siccis, presenta al centro la Resurrezione di Cristo e Giona rigettato dalla balena sulla riva del mare, soggetti derivati da disegni di Giulio Romano.Nel 1549 nella seconda campata Bernardino Gatti, detto il Soiaro firma l'Ascensione, mentre Bernardino Campi i Profeti ed i monocromi con le figure allegoriche. Il sottarco tra la seconda e la prima campata presenta una scena con Fetonte ad opera di Giulio Campi che dipinge anche la Pentecoste nella prima campata (1557-59). Nelle vele ci sono inserti a monocromo con Giuditta con la testa di Oloferne, Lot e le figlie, Susanna e i Vecchioni, Davide e Betsabea, che si contraddistinguono per le figure robuste e i netti stacchi di colore.Il ciclo termina in controfacciata nel 1563 con l'Annunciazione di Giulio Campi. row-nkzd_6gmq~kfxj Uomini in combattimento tra cavalli e cervi Milano Corso Magenta, 15 row-q7d5.nvui~qfna Caduta degli angeli ribelli Como Via Diaz, 84 Il dipinto raffigura la sconfitta degli angeli ribelli a Dio e la loro caduta all'inferno. L'arcangelo Michele, armato di spada e scudo, domina con impeto il centro della scena, assistito nella lotta da una schiera di angeli. I demoni sconfitti sono rappresentati in pose contorte, che esprimono tutta la drammaticità dell'evento. Il dipinto proviene dalla distrutta chiesa di San Giovanni Pedemonte a Como. Fu eseguito per una delle pareti laterali della cappella di patronato della nobile famiglia Gallio, che in seguito fece realizzare da Carlo Francesco Nuvolone una tela gemella, raffigurante San Michele Arcangelo trionfante, anch'essa esposta in Pinacoteca. Autore del dipinto è uno dei maggiori protagonisti della pittura lombarda del Seicento, il Morazzone, che qui lascia una prova altissima del suo stile, giocato su teatrali contrasti di luce e ombra e su una tensione drammatica esasperata, in linea con i caratteri dell'arte lombarda nei decenni che precedono la grande peste del 1630. row-68ks_7xgh~cyvr Santa Cecilia e santa Caterina, Sant'Antonio da Padova, Maddalena ai piedi del Crocifisso, Sant'Antonio abate e san Savino, Elementi decorativi, Storie di san Pietro, San Girolamo penitente e sant'Agostino Ospedaletto Lodigiano Piazza Roma La decorazione cinquecentesca della chiesa presenta il medesimo impianto: cappelle laterali sormontate dalla pala d'altare, ricca decorazione a stucco bianco e oro che inquadra quattro affreschi posti nella pareti laterali, mentre entro nicchie compaiono statue di Santi. A partire da sinistra si trovano le cappelle dedicata alle Sante Cecilia e Caterina d'Alessandria, dei Santi Gerolamo e Agostino; da sinistra la cappella dedicata a Sant'Antonio da Padova, quella del Crocifisso e infine ai Santi Antonio abate e Savino. Gli interventi cinquecenteschi si concludono nel presbiterio con le Storie di San Pietro. Il secondo intervento decorativo si colloca nel Settecento quando verrà affrescata la prima cappella dedicata alla Madonna del Rosario, la volta della navata, della sacrestia e del coro. La prima decorazione della chiesa si compie in un arco cronologico che va dal 1584 al 1600 e vede protagonisti tre pittori cremonesi: Andrea Mainardi detto il Chiaveghino, suo nipote Marcantonio e Luca Cattapane, per poi concludersi nel presbiterio dove un artista anonimo ma di matrice cremonese affresca le Storie di san Pietro. Il programma decorativo, da cui è esclusa la prima cappella a sinistra, segue la medesima impostazione comprendendo anche gli stucchi dorati su fondo bianco in cui elementi profani (candelabre e sfingi) si mescolano a simboli che alludono all'Eucarestia. Il richiamo è sicuramente alla chiesa abbaziale di San Sigismondo a Cremona, altra sede dell'ordine dei gerolamini ivi voluti dalla duchessa Bianca Maria Visconti che qui celebra le sue nozze con Francesco Sforza. La cappella dedicata alle Sante Cecilia e Caterina, la seconda a sinistra, mostra al centro la pala d'altare realizzata da Andrea Mainardi, copia fedele di quella dipinta da Bernardino Campi fra il 1564 e il 1566 nella chiesa cremonese. Nella seconda cappella dedicata a San Gerolamo e Sant'Agostino, gli affreschi che raccontano le storie dei due santi si devono alla sola mano di Luca Cattapane, il cui stile rivela volti fortemente espressivi, quasi deformi, accompagnati da gesti teatrali e nervosi a cui si unisce una grande capacità inventiva. Anche la pala d'altare è una copia di quella di Bernardino Campi eseguita nel 1567 per San Sigismondo a Cremona, pur con qualche variazione. La prima cappella a destra era originariamente dedicata ai santi Alessio e Fermo, e proprio nel dipinto murale con Sant'Alessio in viaggio verso Edessa rimane la firma di Luca Cattapane e la data 1599. La cappella successiva, dedicata al Crocifisso, vede l'intervento di tutti e tre i pittori.La seconda fase decorativa della chiesa prende avvio nel Settecento, quando Giuseppe Natali interviene nella sacrestia, datata 1705, per porseguire nel 1756 con l'intervento del milanese Felice Biella nella volta della navata e nella cappella della Madonna del Rosario.Infine nel coro, probabilmente entro il 1714, il veneto Mattia Bortoloni, l'allievo di Tiepolo, affresca una Assunta in Gloria. row-u735.bnr3-vtjw Gandino Piazza Emancipazione Questo imponente ostensorio architettonico in argento presenta la struttura tipica degli ostensorio tedeschi tardogotici: su un alto piedistallo con piede lobato e fusto a sezione poligonale suddiviso da tre nodi schiacciati, poggia un'ampia base mistilinea che serve da appoggio a tre alte guglie con pinnacoli lavorate a traforo. Entro la più ampia e alta guglia centrale sono collocate la teca in cristallo per l'eucarestia con lunetta sorretta da due piccoli angeli e due sculture in argento dorato, una della "Madonna assunta" e l'altra più piccola dell' "Ecce homo" (Schmerzensmann). Ai lati, entro due guglie minori, sono collocate le statuette in argento dorato di "San Pietro" e "San Paolo" nella parte bassa e quelle di "San Sebastiano" e "San Rocco" in alto. Coronano le guglie tre alti pinnacoli traforati e decorati a piccoli motivi. Il grande ostensorio, del peso eccezionale di 11 chilogrammi, è un importante esempio di oreficeria tedesca tardogotica. In particolare la tipologia con piede lobato oblungo con leggere decorazioni floreali incise, l'alto fusto a tre nodi e le testine di angioletti sugli archetti pensili della guglia centrale richiamano la produzione bavarese, suggerita dal confronto con l'ostensorio di Ambras, detto di Massimiliano I, o con quello della parrocchiale di Neumarkt nel Sudtirolo, anteriore al 1531. La data "1527", ripetuta due volte sulla superficie dell'ostensorio gandinese, indica quasi certamente la data dell'ostensorio, che fu registrato nell'inventario parrocchiale del 1535 come proprietà dei mercanti gandinesi che frequentavano la Germania. Come per tanti altri arredi sacri della chiesa di Gandino, anche l'acquisizione di questo eccezionale manufatto si lega ai fiorenti traffici dei mercanti gandinesi nell'Europa d'oltralpe. Destinato alla processione del Corpus Domini, l'ostensorio fu in passato sospeso dall'uso processionale per il suo peso eccessivo, mentre attualmente è di nuovo utilizzato in questa liturgia con l'ausilio di una robusta fascia legata al collo del celebrante e fissata sotto il piedistallo. row-tyvj_detn-pa8z Cristo crocifisso Gandino Piazza Emancipazione Il grande crocifisso è scolpito in un unico tronco di legno di cirmolo a cui sono state aggiunte le braccia in massello. Il Cristo, grondante di sangue, è colto nel momento della morte e sul suo corpo sono presenti i segni delle atroci sofferenze patite. Tutto il corpo è percorso da copiosi rivoli di sangue che dalla testa, trafitta dalla corona di spine, dalle mani e dai piedi, trapassati dai chiodi, e dal costato, infilzato dalla lancia, percorrono gran parte dell'epidermide del Salvatore. I capelli, come nella foggia tedesca, sono separati in boccoli e la corona di spine ha la caratteristica forma di un fascio di verghe spinose. Le braccia sono snodabili e permettono di trasformare la statua in un Cristo morto, necessario nelle liturgie della settimana santa. Il realistico gonfiore in corrispondenza delle vene e delle piaghe è reso con l'applicazione di uno spago leggero sopra la preparazione e prima di ulteriori strati di gesso. Questo crocifisso, che unisce la cruda descrizione di patimenti di Cristo a una monumentale impostazione anatomica di stampo classico, è attribuibile all'area tedesca con cui i mercanti gandinesi, sempre alla ricerca di nuovi mercati per i loro pannilani, erano in stretto contatto. In particolare l'opera è stata recentemente riferita al Maestro di Heiligenblut, anonimo intagliatore attivo in Tirolo e Carinzia e così chiamato dal monastero di Heiligenblut che contiene alcune sue opere. Analizzando altri crocifissi di questo artista troviamo nell'opera di Gandino lo stesso modo insistito di sottolineare la sofferenza fisica di Cristo con abbondante sanguinamento, un'analoga costruzione simmetrica del panneggio dello svolazzante perizoma e anche la resa dei tratti del volto. Questa attribuzione, confermata anche dall'impiego del legno di cirmolo, conifera rara nelle valli bergamasche e lombarde, ma frequente nel Sud Tirolo e in Carinzia, trova giustificazione anche nel fatto che la via preferenziale dei mercanti gandinesi verso le regioni transalpine era proprio il Sud-Tirolo e il Tirolo con la loro documentata, assidua frequentazione della fiera di Bolzano. row-m5bs-p3yh~rbas Visione di S. Tommaso d'Aquino Mantova Piazza Sordello, 40 In questa tela viene raffigurato un soggetto piuttosto raro: S. Tommaso d'Aquino circondato da angeli, che scrive davanti al crocifisso. Per la precisione, il santo è a colloquio col crocifisso della Chiesa di S. Domenico, a Napoli. La composizione è fitta e la tavolozza è brillante e carica, soprattutto nei rossi e nell'azzurro della veste dell'angelo centrale. Giuseppe Bazzani, maestro del Settecento europeo, è il maggiore degli artisti nati a Mantova dove ha trascorso l'intera vita (1690-1769) affrescando palazzi nobiliari e dipingendo tele di soggetto sia sacro sia profano. Questo dipinto proviene dalla Chiesa di S. Domenico, dove ornava l'altare dedicato a S. Tommaso d'Aquino. La relativa cappella venne costruita nel 1731 sulla destra dell'altar maggiore. Alla fine del XVIII secolo, con la soppressione della chiesa, il dipinto entra in Palazzo Ducale. Il putto seduto di spalle, in primo piano, torna in altre composizioni dell'artista: Annunciazione già Palma di Cesnola, Assunta in Santa Maria delle Grazie, Santa Maria Maddalena de' Pazzi a Revere, Scena allegorica affrescata nel palazzo già Bianchi e ora Vescovile. row-j8kq.2ycv_8cbj Flagellazione di Cristo Busto Arsizio Piazza Vittorio Emanuele II, 2 Lungo l'asse mediano del dipinto è disposta la figura del Cristo davanti alla colonna, in piedi, col corpo leggermente ruotato verso destra e la testa volta sul fronte opposto. La mano sinistra è legata dietro alla schiena mentre la destra è trattenuta con una corda da uno sgherro. Gli sgherri sono disposti due per lato e reggono gli strumenti della passione coi quali colpiscono il corpo del Cristo. La scena è chiusa ai lati dalle pareti del vano, che fungono da quinte architettoniche circondando lo scuro fondale e il pavimento a monocromo. A terra, in primo piano, è posta una frusta di fasci di vischio. Il chiaroscuro mette in evidenza i volumi dei corpi, i fasci muscolari delle figure e il panneggio svolazzante del mantello dello sgherro a sinistra. Movimento, organizzazione spaziale razionale, chiaroscuro e luce fredda, che anima i colori vivaci, sono dunque gli elementi preponderanti del dipinto. L'opera fa parte di una terna di dipinti ("Orazione nell'orto" e "Incoronazione di spine") che appartengono alla medesima mano. Secondo lo storico dell'arte Andrea Spiriti si può ipotizzare l'intervento di un collaboratore di Gerolamo Figino, ormai anziano, che riutilizza i prototipi del maestro e ne cita la cifra stilistica. row-cqcc~f9iu-4hcn Pavia Corso Strada Nuova, 65 Gli eudiometri venivano comunemente usati da Alessandro Volta (1745-1827) per saggiare la respirabilità dell'aria, cioè la quantità di ossigeno in essa contenuta.I due preziosi strumenti conservati a Pavia sono costituiti da un'ampolla di vetro (camera di combustione) sulla quale sono poste tre strisce di ottone che confluiscono in alto in un cappelletto, pure di ottone, nel quale penetra un elettrodo a uncino isolato dal resto del cappelletto tramite ceralacca. Sotto la camera di combustione l'eudiometro più completo ha un rubinetto e sotto di esso un imbuto, entrambi di ottone, che permettono di introdurre nella camera di combustione i gas da studiare. Tra l'elettrodo ad uncino e la parte esterna del cappelletto scocca la scintilla, che provoca la combinazione dei gas (in genere aria comune ed "aria infiammabile metallica", oggi idrogeno o "aria infiammabile nativa delle paludi", oggi metano) introdotti all'interno dell'ampolla tramite l'imbuto immerso in acqua. Ad un aumento del volume dei gas conseguente all'infiammazione, segue una diminuzione testimoniata dall'innalzamento del livello dell'acqua all'interno dell'eudiometro. La differenza di volume veniva misurata tramite tubi graduati ed era proporzionale alla quantità di ossigeno contenuto nell'aria comune presente nello strumento prima della combustione. La diminuzione di volume veniva assunta come indice della respirabilità dell'aria atmosferica sottoposta alla prova. Volta, celebre soprattutto per i suoi fondamentali contributi agli studi sull'elettricità che portano all'invenzione della pila, si dedica anche allo studio della chimica dei gas. In questo ambito raggiunge significativi risultati, scoprendo nel 1776, nei canneti del Lago Maggiore e poi in moltissimi altri luoghi, un'aria che a contatto con l'aria comune si infiamma facilmente e arde lentamente con una fiamma azzurrina che chiama "aria infiammabile nativa delle paludi", cioè il metano.Realizzando questi strumenti in vetro, che saranno in seguito utilizzati per studi sulle miscele infiammabili, ad esempio idrogeno e ossigeno, pone le basi per la rivoluzione chimica.Durante gli esperimenti con l'eudiometro, lo scienziato realizza la sintesi dell'acqua, ma non lo percepisce perché il suo strumento contiene acqua. Sarà il francese Antoine-Laurent de Lavoisier nel 1782, ripetendo gli esperimenti di Volta con un eudiometro contenente mercurio, a scoprire la composizione chimica dell'acqua.È interessante ricordare che già nel Settecento era molto sentito il problema dell'insalubrità dell'aria di Milano, al punto di ispirare a uno dei maggiori poeti dell'epoca, Giuseppe Parini, un'ode intitolata "La salubrità dell'aria". row-jusp_wxht_ve98 Cristo compianto dagli angeli Busto Arsizio Piazza Vittorio Emanuele II, 2 La figura del Cristo morto, illuminata da un fascio di luce fredda, si distende lungo l'asse mediano della tela descrivendo una "S" ed è sorretta da angeli e da una cassapanca posta lungo il lato destro. Il Cristo ha il capo reclinato sulla spalla destra, mani e piedi sono sorretti e baciati da angioletti che si muovono lungo il margine della tela, imprimendo alla rappresentazione un senso di movimento rotatorio, che sottolinea l'evento drammatico. Due grandi angeli sostengono il corpo di Cristo. Un angelo giunge alle spalle di Cristo e spalanca le mani in segno di cordoglio. I colori della tela sono freddi e dominati dal bianco che si staglia sul fondale scuro. L'effetto di contrasto è aumentato dall'inserimento del panneggio rosso dell'angelo a sinistra del Cristo che ricorda la Passione di Gesù. L'opera entrò nelle collezioni del Museo come tela attribuita a Sebastiano del Piombo. Successivamente l'opera fu attribuita al Pontormo, a Giulio Cesare Procaccini, alla cultura procaccinesca, alla Maniera toscana e ad Ercole Procaccini il Giovane. Durante una giornata di studi svoltasi nel 1997 alla presenza dei professori Frangi, Morandotti e Tanzi l'attribuzione fu circoscritta al manierismo lombardo tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo. Mettendo in rilievo le assonanze tra quest'opera e la cultura romana, Andrea Spiriti ha recentemente avanzato l'ipotesi che a Giovan Battista Pozzi sia attribuibile l'impostazione del dipinto e la figura del Cristo, e che la realizzazione delle figure angeliche sia invece toccata a Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone, che succedette al primo dopo la sua morte. row-vxaq.c4rx.h87n Pavone Brescia Via dei Musei, 81/b La lastra triangolare è caratterizzata lungo il lato inferiore da una fascia alta cm 9 che verso sinistra forma un rettangolo (cm 18 x 12), caratterizzata da motivi decorativi a intreccio (serie di anelli percorsi da due nastri intrecciati in diagonale e accordati ai cappi, disposti in modo da formare cerchi entro un quadrato). Il motivo non presenta elementi conclusivi alle estremità pur essendo la lastra integra. Sopra la fascia è scolpito a bassorilievo un pavone rivolto a sinistra con lunga coda e la zampa destra alzata. L'animale è circondato da un tralcio di vite e girali con grappoli d'uva e foglie che occupano lo spazio rimanente: i girali sono di varia ampiezza e disposti in modo degradante per ampiezza, in base alla superficie disponibile. La superficie retrostante della lastra è liscia. Questa lastra di ambone costituisce uno degli esempi più importanti e raffinati della scultura altomedievale in Italia e proviene con certezza dalla basilica di S. Salvatore nella quale è esposta tuttora. I dettagli del volatile, soprattutto il ricco piumaggio, sono resi con notevole capacità calligrafica che conferisce al rilievo movimento e naturalismo, memori della tradizione bizantina e tardoantica.La lastra, insieme con una analoga e simmetrica di cui restano solamente tre frammenti, doveva costituire il parapetto di due scale affrontate che portavano ad un ambone, dal quale venivano letti i testi sacri e pronunciate le omelie nella chiesa innalzata dal re longobardo Desiderio. I due pavoni quindi dovevano risultare affrontati sul lato principale, simbolo evidente di Resurrezione e Immortalità dell'anima. Il bassorilievo è a ragione ritenuto una delle sculture altomedievali di maggiore interesse, sia per le innegabili qualità stilistiche, sia per la sua notevole integrità. Conservato continuativamente nel monastero di S. Salvatore e S. Giulia, nel XVI secolo è preso a modello per una decorazione ad affresco dipinta sulle pareti di uno dei chiostri. A partire dall'Ottocento è stato costante oggetto di studio e caposaldo di ogni valutazione sul contesto della fabbrica di S. Salvatore.La cronologia all'VIII secolo appare oggi pressoché concordemente condivisa. In particolare, si deve pensare a una sua collocazione entro la basilica di età desideriana. Il riesame globale della seconda fase edilizia di questo edificio di culto, sia dal punto di vista delle strutture che dell'apparato decorativo, e il confronto incrociato fra pitture, stucchi, terrecotte e elementi marmorei, indicano infatti con evidenza che la committenza del re longobardo era particolarmente sensibile alla ripresa programmatica di motivi e forme legate alla tradizione bizantino-ravennate. La sua erezione rappresenta il degno e prestigioso suggello di precise scelte politiche e tutto ciò che vi era contenuto doveva conformarsi ad esse, esibendo attraverso formule estetiche adeguate, riferimenti di più ampia portata, cosa che puntualmente avviene anche a proposito della lastra in esame e delle altre sculture appartenenti al medesimo ciclo decorativo. row-gnbj-pka3~dc2a Transito della Madonna Gandino Piazza Emancipazione I due dipinti narrano episodi non presenti nei Vangeli canonici ma tramandati negli scritti apocrifi, accettati dalla tradizione cristiana. Le due storie si collegano direttamente al tema dell'"Assunzione della Madonna", descritto nella pala centrale dell'abside e oggetto dell'intitolazione della basilica. La Nascita descrive Sant'Anna, madre della Madonna, subito dopo il parto, accudita dalle levatrici che stanno lavando la neonata e sciugando al fuoco i panni bagnati. Con l'inserimento di questo episodio si vuole sottolineare la nascita immacolata di Maria, unica dell'umanità ad essere venuta al mondo senza la macchia del Peccato originale. Il Transito, detto anche Dormitio, è invece il momento terminale della parabola terrena di Maria, quando, radunati intorno a sé gli Apostoli, sta per addormentarsi e rimanere per tre giorni come morta: il terzo giorno ascenderà al cielo, sollevata in corpo e anima dagli angeli. le due donne piangenti rappresentano le vedove amiche di Maria alle quali ella lasciò i suoi abiti. Soprattutto nella scena con la "Nascita di Maria" è evidente la ripresa, seppur parziale, del modello dell'arazzo che il dipinto andava a sostituire. Le due grandi tele raffiguranti la "Nascita della Vergine" e il "Transito" furono realizzate per essere poste sull'abside in sostituzione degli arazzi fiamminghi cinquecenteschi aventi gli stessi soggetti e oggi conservati nel Museo della Basilica. Giacomo Ceruti, celebre ritrattista e pittore dei 'pitocchi', fu molto richiesto anche come autore di pittura sacra, di cui le opere di Gandino, comprendenti le due grandi tele mariane del 1734, il ciclo di 28 tele con "Profeti" per i pennacchi eseguiti dal 1734 al 1739 e altri dipinti minori, compongono l'insieme più cospicuo. Come emerge dal contratto del primo marzo del 1734 e da altra documentazione, Ceruti si trasferì a Gandino dal marzo al luglio di quell'anno portando a compimento le due tele absidali , che evidenziano un'impostazione più arcaizzante rispetto ai successivi "Profeti", influenzati questi ultimi dall'acceso cromatismo dell'arte veneziana che Ceruti avrebbe studiato nel suo imminente viaggio a Venezia e a Padova, intrapreso a partire dal 1736. Nelle tele mariane si nota un persistente influsso della pittura della realtà bresciana, dal Romanino al Moretto, con figure un po' rustiche saldamente appoggiate al terreno. row-ahkv-8awc~kc23 Collezione di Villa Della Porta Bozzolo Casalzuigno Viale Camillo Bozzolo, 5 L'attuale struttura della villa, basata sul tipico impianto a "U" intorno a una corte d'onore, è articolata su due piani e decorata al suo interno con uno dei cicli decorativi più sofisticati del Settecento Lombardo. Negli affreschi si alternano temi di natura religiosa, soprattutto negli ambienti a carattere privato, e scene profane ispirate ai temi più aulici dell'antichità classica nei saloni di rappresentanza. Le raffinate decorazioni, ad affresco e a tempera, sono per lo più ispirate a soggetti floreali. Sia gli esterni della Corte d'onore sia le pareti, le porte e le volte delle sale sono inoltre riccamente affrescate con "trompe l'oeil" di stampo architettonico rococò, secondo l'estetica del tempo, ispirata ad un ideale di finzione in grado di ingannare la realtà. Il percorso espositivo attuale si articola su due piani. Al piano terra si collocano il salone da ballo; la stanza del biliardo, originariamente concepita come Sala da musica; la Sala da pranzo, originariamente utilizzata come cappella; le due cucine - quella seicentesca (la cosiddetta "Caminata") e quella settecentesca; infine lo Studio, il locale meglio conservato nel tempo con il suo austero arredo ligneo. A queste sale si aggiunge una serie di ambienti minori, ma ugualmente raffinati, di collegamento tra le differenti stanze (salottino, alcova, camerino) e gli ambienti museali. Uno scalone conduce al piano nobile, dove una ricca galleria ornata da affreschi consente l'accesso al Salone e ad una serie di stanze da letto, identificate dal caratteristico colore del talamo (rosso, verde e giallo). Gli interni conservano ben poco del ricco arredo originario, trafugato nel corso degli anni. I numerosi arredi e opere d'arte dal XVII al XIX secolo ora inseriti, frutto di donazioni al Fondo per l'Ambiente Italiano (FAI) che gestisce attualmente la villa, sono stati allestiti nelle stanze con l'intento di offrire una corretta interpretazione dell'originaria atmosfera domestica. Non mancano pezzi originari provenienti dalla villa, rintracciati sul mercato antiquario. La villa venne costruita nella seconda metà del Cinquecento quando il nobile notaio Giroldino Della Porta acquistò a Casalzuigno un terreno per realizzare una dimora signorile. All'originale impianto della dimora vennero apportate importanti modifiche all'inizio del XVIII secolo, ad opera di Gian Angelo III Della Porta che, in occasione delle proprie nozze con Isabella Giulini, modificò la struttura della villa e fece realizzare le preziose decorazioni ad affresco interne. Al medesimo secolo risalgono gli interventi relativi all'aggiunta dell'imponente giardino esterno, con scale, fontane, giochi d'acqua e un'edicola affrescata. Con il declino della famiglia Porta, la residenza fu venduta prima ai Carpani, nel 1861 ai Richini e quindi nel 1877 al senatore Camillo Bozzolo, insigne medico e patriota, che progettò numerosi interventi di ristrutturazione della casa edificando anche una scuderia e il villino del custode. Dopo un periodo di abbandono e di spoliazioni, nel 1989 il complesso venne donato al FAI - Fondo per l'Ambiente Italiano, che ha operato con una serie di interventi atti a restaurare e a rendere agibile la struttura al pubblico. La villa è stata aperta il 15 settembre 1991, ma l'articolato programma di restauro è proseguito fino all'inizio del 2001, con l'obiettivo di restituire agli ambienti della casa il carattere domestico originario. A tale scopo sono stati raccolti dai depositi arredi e oggetti d'arte, ma anche oggetti d'uso comune e attrezzi della civiltà contadina, che potessero nuovamente ornare le sale e ricostruirne il senso di ricchezza perduto. row-533r~fjf4.c3xn Collezione dei Musei Civici di Monza Monza Via Teodolinda, 4 La Collezione dei Musei Civici di Monza comprende un nucleo di reperti archeologici costituito da oggetti dell'età del bronzo, della civiltà lateniana e risalenti al periodo della romanizzazione dell'area geografica del Po, durante il quale le popolazioni di origine celtica presenti nella zona andarono via via adeguandosi alle consuetudini e alla religione romane. A questi si aggiungono alcuni oggetti di epoca medievale provenienti da ritrovamenti sul territorio o recuperati in seguito a demolizioni. Di grande rilievo è poi la raccolta di oltre 1500 dipinti e sculture di celebri maestri che operarono dal XVI al XX secolo, con una particolare attenzione per la produzione lombarda di epoca ottocentesca (Mosè Bianchi, Pompeo Mariani, Eugenio Spreafico, Emilio Borsa, Ernesto Bazzaro, Giuseppe Grandi, ecc.) e dei primi decenni del Novecento (Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Eugenio Bajoni, Arturo Martini, Marino Marini, Mario Radice, ecc..). Della collezione fanno parte, inoltre, un cospicuo nucleo di disegni e grafica del Novecento e le stampe antiche e moderne della Civica Raccolta di Stampe e Incisioni, attualmente collocate nel Gabinetto delle Stampe presso i depositi del museo: allo stato attuale degli studi tale fondo conta circa 13mila esemplari la cui datazione va dalla fine del XV all'inizio del XX secolo, con soggetti che spaziano dalla storia sacra alla mitologia classica, dalla ritrattistica ufficiale alle stampe d'après tratte dai grandi artisti del passato (Raffaello, Tiziano, Correggio, Poussin, Parmigianino, Giulio Romano, ecc...).La collezione include infine alcuni nuclei di materiali eterogenei, ancora in fase di studio, che comprendono mobilio, maioliche, porcellane, beni etnografici, armi risorgimentali ed etniche (donazione del capitano Casati) e una raccolta ornitologica di oltre duecento soggetti. ll nucleo più antico della collezione è costituito da reperti archeologici e medievali provenienti da ritrovamenti avvenuti nella città di Monza e nei territori limitrofi, uniti alle opere donate nel 1923 da Eva Galbesi vedova Segrè: la donna lasciò alla città di Monza una collezione di quasi 20mila stampe d'arte e molti dipinti cinque-seicenteschi, prevalentemente di scuola lombarda, veneta ed emiliana. Ad essi si aggiunge un cospicuo numero di tele dei più celebri artisti monzesi di fine Ottocento, frutto di donazioni private successive, in particolare di famiglie eredi di pittori locali gravitanti intorno alla famiglia di Mosè Bianchi. Per quanto invece riguarda le opere del Novecento, sia pittoriche che scultoree, esse sono frutto principalmente di donazioni fatte dagli artisti stessi o da acquisti realizzati durante le grandi esposizioni monzesi, a partire dalle Biennali di arti decorative (1923, 1925 e 1927), passando nel secondo dopoguerra al Premio Nazionale di Pittura "Città di Monza", istituito nel 1951 in occasione della riapertura dopo il conflitto mondiale della Pinacoteca Civica, per arrivare infine nel 2005 all'avvio delle Biennali Giovani Monza. A questi eventi si accompagna anche l'esperienza artistica dell'ISIA - Istituto Superiore di Industrie Artistiche, fondato nel 1922: l'ISIA fu una scuola inedita per l'Italia, che sviluppò un percorso artistico e didattico simile a quello attuato in Germania dal Bauhaus e contribuì alla formazione in vari campi del fare artistico di personalità di notevole interesse, che lasciarono poi alla scuola una parte del proprio operato artistico.La Collezione comprende infine un Gabinetto delle Stampe, costituito da opere antiche e moderne provenienti da donazioni fatte da eminenti cittadini monzesi a partire dalla fine del XIX secolo fino agli anni Quaranta del Novecento. row-hem6_5ktf_npun Cremona Via S. Lorenzo, 4 Questo imponente capitello di forma quadrangolare presenta, al di sotto del bordo superiore, quattro coppie di leoni con la criniera scomposta e le fauci aperte. Se le teste di ogni coppia si toccano in prossimità degli spigoli, le code si sovrappongono al centro di ogni faccia, creando un effetto di simmetria e concatenazione. I leoni, pur così possenti, sono sostenuti da un doppio ordine di foglie d'acanto, che con la loro leggerezza sembrano amplificare l'impressione di forza data dagli animali. Il capitello è rinvenuto nel 1680 in una via del centro storico, durante i lavori di riedificazione di un edificio. Viene, quindi, tagliato verticalmente e murato a scopo conservativo in una parete della casa, da cui viene rimosso per essere ricomposto nel Museo Provinciale, aperto al pubblico nel 1877. Da qui passa al Civico Museo, costituito nel 1888 in palazzo Ala Ponzone e trasferito nel 1928 in palazzo Affaitati. Nel 2009, la sezione archeologica del Museo Civico "Ala Ponzone" passa nella nuova sede della basilica di San Lorenzo, dove viene dato il giusto rilievo espositivo a questa notevole testimonianza di Cremona romana, attribuibile a un grandioso edificio civile, che alcuni studiosi identificano con il teatro citato dalle fonti. row-dvmr~i9bh-k2p7 Pescarolo ed Uniti Via Mazzini, 73 Telaio manuale, di tipo orizzontale a due licci mossi da pedali, con una struttura portante composta da longheroni, traverse e montanti uniti ad incastro. Sui montanti del retro e del fronte sono allocati i subbi circolari per svolgere l'ordito e avvolgere il tessuto. Al sommo dei montanti centrali sono incastrate due traverse: su una è imperniata la cassa battente che porta il pettine, all'altra sono appese le carrucole collegate ai due licci e ai pedali. L'oggetto, di produzione cremonese risalentealla fine del XIX secolo, serviva per produrre la tela per uso locale. Enrico Orlandelli di Rivarolo del Re (CR) informa che questo telaio fu usato da Nazzari Clementina, nata nel 1928 e anch'essa vissuta a Rivarolo del Re. Iniziò a tessere a quattordici anni e continuò fin dopo il matrimonio, a ventisei anni d'età. Realizzava tela, lenzuola e coperte. Il telaio, usato anche dalla madre, apparteneva alla famiglia da generazioni. Fu acquistato insieme all'orditoio (invn 01.14.329) nel 1971 a Rivarolo del Re ( Cr ), per la somma di £ 60.000, dai Sigg. Becchi Casimiro, Del Ninno Aldo, Ferrari Francesco e Marchini Giacomo. Fu successivamente donato al Museo. L'etnografo Paul Scheuermeier (1980) riferisce che l'incastellatura, a forma di prisma o di cubo, circondava tutte le varie componenti del telaio per la tessitura della tela. Due alti sostegni laterali verticali portavano in cima le due stanghe trasversali per i licci e il battente. Nei telai più moderni i due sostegni si trovavano al centro oppure nell'angolo posteriore dell'incastellatura e in alto recavano un braccio rivolto anteriormente o posteriormente. I subbi dell'ordito e del tessuto si trovavano quasi sempre sullo stesso piano. Una volta che il rotolo di tela era finito, affinché non desse fastidio alla tessitrice, di tanto in tanto si toglieva il tessuto dal subbio e lo si arrotolava su una stanga trasversale appoggiata o appesa in fondo all'intelaiatura. La tela già tessuta passava sopra una trave trasversale collocata davanti al petto della tessitrice, prima di essere avvolta sul subbio del tessuto posto più in basso. Lo scrittore riferisce altresì che in Italia settentrionale, specialmente nelle zone maggiormente industrializzate, nella prima metà del Novecento la tessitura a telaio era ormai scomparsa. Erano le donne solitamente a praticare questo mestiere, anche se vi erano tessitori di professione. In Lombardia, il prodotto industriale andò progressivamente a soppiantare la tessitura domestica. row-78m6~f2rx-i2wn Brescia Via S. Francesco L'aspetto attuale dei bancali rientra nel progetto di rinnovamento settecentesco che ha interessato l'intera cappella quando i ventisei stalli cinquecenteschi con decorazioni figurate ad intarsio sono stati inseriti in una nuova carpenteria di noce. Il risultato di questa operazione ha portato alla creazione di due bancali con undici sedili ciascuno ed altrettante tarsie e di due piccole console con alzate a dittico entro le quali sono inseriti quatto pannelli decorati. Disposti sui lati della cappella, le due panche con schienale sono corredate da inginocchiatoi che presentano una elegante decorazione alla certosina, mentre le tavole centinate che ornano gli schienali delle panche illustrano le storie della Passione di Gesù. La cappella dell'immacolata Concezione è costruita sul finire del XV secolo nella navata di sinistra della chiesa e, in uno stretto giro d'anni, si arricchisce di opere d'arte di rilievo, alcune delle quali vengono mantenute dopo il rinnovamento settecentesco che le conferisce l'aspetto che ancora oggi conserva. Sopravvivenze molto pregevoli delle cappella quattrocentesca sono i due bancali con stalli intarsiati realizzati dagli ebanisti bresciani Benedetto e Battista Virchi fra il 1548 e il 1553. Sia l'autografia sia la cronologia dei manufatti sono documentate: nella scena che raffigura Gesù coronato di spine si legge "BENEDI/ CTVS DE/ VIRCHIS/ ME FECIT/ 1548", mentre in quella con Pilato che si lava le mani leggiamo "BATISTA VIRCH/ BRISSIANO/ 1553. La pubblicazione del contratto stipulato fra la benedetto Virchi e la Scuola dell'Immacolata Concezione di S. Francesco ha inoltre confermato che gli stalli intarsiati sono stati realizzati appositamente per l'omonima cappella e non per un altro ambiente dell'edificio religioso, come avevano invece ipotizzato alcuni critici. Essi, infatti, ritenevano che i soggetti raffiguranti episodi della vita e della Passione di Cristo non fossero pertinenti al programma iconografico di esaltazione del dogma dell'Immacolata Concezione sotteso alle altre opere presenti. E' più ardua l'individuazione dei caratteri stilistici di ciascuno dei due autori, anche in considerazione del fatto che gli stalli di S. Francesco sono l'unica opera documentata dei Virchi e che il disegno preparatorio delle scene figurate è ascritto ad un unico autore dell'ambito di Paolo da Caylina il Giovane. Sembrerebbe, comunque, che le tarsie realizzate da Benedetto abbiano una componente pittorica più spiccata nella definizione della forma e una resa più confusa delle architetture. Battista invece crea composizioni più scandite dai piani prospettici, accentua il chiaroscuro e preferisce un disegno netto delle figure. row-sdu3.hzf2.y4ma Pentecoste Milano Piazza Castello row-fz46-vu4m.v95p Madonna del Libro Milano Via Manzoni, 12 row-fumu-zbsj.qbih Composizione Gallarate Via De Magri, 1 Opera pittorica caratterizzata da poligoni irregolari e linee compatte verso il centro, il dipinto mostra linee di contorno grosse e modulate. Nell'opera l'artista accosta e sovrappone poligoni privi di contorni definiti, modulandoli in maniera fluida e armoniosa, come se la linea nera che li percorre e li unisce fosse una forza generatrice di forme. Il colore è caldo e nella sua stesura prevale l'uso del rosso alternato al nero e mescolato al bianco, ottenendo cromatismi assimilabili al rosa. Afferente al periodo dell'Astrattismo e del Concretismo italiano, il dipinto costituisce un'opera emblematica per comprendere come Prampolini impiegasse colore e forma all'interno di composizioni segniche. In questo periodo della sua attività, infatti, l'artista è legato alle formulazioni astrattiste dei gruppi Cercle et Carré, Abstraction-Création, che in parte accantona a partire dal 1948, quando Prampolini aderisce al Movimento d'Arte Concreta (MAC), dopo esser entrato in contatto col concretismo milanese. Questo dipinto contribuisce, dunque, a definire i differenti momenti dell'evoluzione del linguaggio artistico di Prampolini del quale il MAGA possiede in deposito anche un'altra opera intitolate "Ballerina in movimento". row-cxpa_2n2i.3g3u Amenemhat III Milano Corso Magenta, 15 row-uapa_d6tv-h736 Presepe Milano Piazza Pio XI, 2 row-a7rs-6vft.mhbt Ritratto femminile Milano Piazza Castello row-hxdm.qbv4.yhsa Tamar di Giuda Varese Via Cola di Rienzo, 42 Il dipinto ritrae sullo sfondo di un cielo azzurro, appena velato da bianche nuvole, una donna identificabile con il personaggio biblico di Tamar. La giovane è rappresentata in posizione frontale, con la gamba sinistra leggermente in avanti e il corpo inclinato lateralmente: la donna indossa una bianca veste aperta sul davanti così da mostrare il seno nudo, e coperta sulle spalle e sul capo da un ampio mantello color ocra gialla che lei stessa sostiene con il braccio destro sollevato e portato in avanti nell'atto di coprirsi. Nella mano sinistra regge un bastone ricurvo sulla sommità e un anello d'oro; al collo porta un ricco collare dorato. Il volto, raffigurato quasi di tre quarti, è rivolto verso la sinistra della composizione ed è caratterizzato da un'espressione intensa e malinconica, accentuata dalla penombra offerta dalla pieghe del mantello e del rosso turbante che le copre la testa. Proveniente dalla raccolta di Massimo Vita, il dipinto fu donato ai Musei Civici nel 1971 con un'attribuzione ad Hayez ancora incerta, che venne poi confermata in occasione della mostra milanese dedicata al pittore nel 1983. L'opera non fu infatti, come per gli altri dipinti dell'artista, esposta a Brera ma documentata nella produzione del pittore solo attraverso una serie di "d'après", ovvero disegni ad acquarello riproducenti il medesimo soggetto, che confermano la vicinanza di Hayez al tema della figura femminile nuda. Tale tematica fu da lui trattata prevalentemente raffigurando eroine dell'Antico Testamento o personaggi del mondo orientale: questa Tamar fa infatti parte di una serie iniziata con la "Betsabea al bagno" e proseguita con "Rebecca", "Susanna", "Loth e le figlie", nonché numerose versioni di odalische e bagnanti, fino ad arrivare alla "Rebecca al pozzo" del 1848, realizzata un anno dopo il presente dipinto. Il quadro fu commissionato da Gaetano Taccioli, per cui Hayez aveva seguito cinque anni prima il dipinto "Un pensiero malinconico" (1842) e che possedeva anche la prima versione della "Rebecca" del 1831.La vicenda cui si riferisce il dipinto è tratta dal libro 38 della Genesi, che racconta la storia di Tamar, moglie del primo figlio di Giuda, Er. Dopo la precoce morte del marito, secondo l'obbligo della legge ebraica del levirato, la donna ne sposò il fratello, Onan, il quale però si rifiutò di avere figli da lei che, sempre secondo tale legge, sarebbero stati considerati del fratello Er e non suoi. Onan ricorse al metodo anticoncezionale del "coitus interruptus" ma, essendo questa una pratica considerata peccaminosa, venne punito da Dio con la morte. Giuda avrebbe dunque dovuto dare in marito a Tamar il suo terzo figlio, Sela, che però all'epoca era troppo giovane: la donna venne quindi rimandata dai genitori con la promessa che quando il ragazzo fosse cresciuto l'avrebbe sposata. Ma Giuda, temendo che la causa della morte di Er e Onan fosse Tamar e non volendo che anche Sela perisse, finse di dimenticarsi della nuora. Tamar escogitò allora uno stratagemma: si travestì da prostituta e senza essere riconosciuta (si era velata il volto) sedusse Giuda che, per unirsi a lei, le promise un capretto del suo gregge e le lasciò in pegno il suo sigillo, il cordone e il bastone. Quando Giuda venne informato che sua nuora si era prostituita ed era rimasta incinta, la condannò al rogo: la donna inviò allora al suocero gli oggetti che le aveva lasciato e gli mandò a dire che l'uomo con cui si era prostituita era il proprietario di quelle cose. Giuda riconobbe il sigillo e gli altri oggetti e riconobbe il suo peccato, cioè di non aver dato in marito a Tamar il suo terzo figlio.Hayez preferì qui non raccontare per intero la vicenda, affidata solo al richiamo offerto dal bastone e dall'anello che Tamar regge con la mano sinistra, ma concentrarsi sul fascino della figura isolata, la cui malinconica bellezza sembra volersi nascondere sotto l'ampio mantello. L'artista punta tutto sulla qualità della stesura cromatica, ottenuta impastando il colore a corpo sulla tela, e sulla scelta di toni chiari e caldi. L'ottimo stato di conservazione del dipinto permette di apprezzare ancora pienamente dello straordinario rapporto tra il busto nudo e levigato dalla luce e i panneggi circostanti, che lo inquadrano con una serie infinita di pieghe così ben modulate da assorbire tutte le gradazioni di ombre. Quanto all'espressione di struggente malinconia che pervade il volto di Tamar, essa rimanda tanto ad altri quadri biblici di Hayez (es. "Incontro tra Giacobbe ed Esaù", 1844, Musei Civici di Arte e Storia di Brescia), quanto al malessere esistenziale tipico dell'animo romantico, così ben rappresentato dall'artista in molti suoi ritratti e personaggi. row-eqph.tiy5-kv99 Gelseto storico del Civico Museo della Seta Abegg Garlate Via Statale, 490 Il Gelseto che contorna oggi la filanda Abegg di Garlate, sede del Museo della Seta omonimo, costituisce oggi un reperto decisamente non comune. Vi sono messi a dimora gelsi di due specie (Morus alba e Morus nigra) con una trentina di varietà differenti testimoniate da circa settanta esemplari complessivi. Si tratta di selezioni antiche e più recenti utilizzate sia a scopo alimentare, sia ornamentale. L'antico giardino adiacente alla filanda Abegg di Garlate sede del Museo, in un passato non lontano aveva visto la presenza di gelsi, poi eliminati, come accaduto in molte altre aree. Negli anni tra il 1994 e il 2000 si decise di mettere a dimora nel medesimo spazio lo stesso genere di piante sia per mostrarle ai visitatori sia per alimentare i bachi (Bombyx mori) che presso il Museo vengono allevati ogni anno. Il Gelseto riprese una tradizione un tempo diffusa per secoli sul territorio e che era determinante per l'economia, da qui il termine storico. Gli anni 2001-2011 furono anni di incuria con una ventina di piante distrutte di proposito. Ora il Gelseto è in via di ripristino. Oltre a ricreare l'antica sintonia ambientale, sono mostrati al vero gli esemplari delle selezioni botaniche create dall'uomo per questa pianta tanto rilevante. Quando il baco fu portato nel VI secolo dalla Cina nell'area mediterranea, non ebbe difficoltà a cibarsi con la foglia di gelso nero (Morus nigra) già presente. Nel paese di origine si cibava invece con foglia di una pianta simile, il gelso bianco (Morus alba), albero a crescita più rapida con foglia più appetita. La pianta di gelso bianco fu portata in antico anche in Italia. La sua coltura fucosì intensa che quello nero è ora quasi introvabile nel centro e nord Italia. Nelle campagne diventarono invece milioni gli esemplari di gelso bianco. row-gtdq~p5js.ndvn Ritratto di Pino Arrigoni Lecco Piazza XX Settembre L'uomo è seduto trasversalmente su una sedia; in basso, a destra, ci sono alcune scarpe, simbolo della professione esercitata dal personaggio effigiato, il ciabattino del paese di Bellano, luogo di nascita di Giancarlo Vitali (1929). Il dipinto è uno dei caratteristici ritratti realizzati da Giancarlo Vitali (1929): veri e propri documenti di professioni e di mestieri raccontati senza retorica e con un pizzico di ironia. Il dipinto fu donato dallo stesso autore al Comune di Lecco, in seguito alla mostra "La famiglia dei ritratti", tenutasi a Villa Manzoni nel 1987 a cura di Giovanni Testori, al quale si deve la valorizzazione del pittore bellanese, Giancarlo Vitali, fino ad allora sconosciuto al grande pubblico. row-6die_4vcg_6k6k Sibille Cairate Via Molina Le due porzioni di affresco, strappate e poi ricollocate su appositi pannelli di supporto, sono oggi appese ai due lati dell'accesso che dalla navata centrale della chiesa conduce alla navata sinistra e al chiostro esterno. Entrambi i lacerti presentano il profilo laterale esterno curvo, e quello interno rettilineo, da cui l'originaria collocazione in una lunetta ai lati di una finestra. Entrambe le donne raffigurate sono Sibille. Il pannello di destra raffigura una donna seduta nell'atto di scrivere su un libro. Vestita con un abito arancio intenso, questa ha il capo chinato verso il volume e avvolto in un turbante verde cangiante, che le fa anche da mantello coprendole il petto e il ginocchio sinistro con la parte interna della fodera, di colore viola. Ai piedi indossa dei calzari aperti, mentre la testa è sormontata da un cartiglio, ormai quasi illeggibile, che pare riportare in lettere capitali la scritta "Libica", identificando così l'omonima sibilla.Il pannello di sinistra raffigura invece una donna abbigliata con un ricco abito rosso, stretto sotto il seno e sulle braccia da cinture-gioiello; il mantello è di colore arancione, bordato di bianco, e le copre entrambe le gambe, lasciando scoperti i piedi. La donna è seduta, con lo sguardo rivolto verso l'osservatore; con la mano destra regge un serpente mentre con la sinistra trattiene un lembo del cartiglio che si avvolge intorno alle sue spalle e alla testa. Le scritte su di esso sono ormai illeggibili, tuttavia la presenza del serpente come attributo iconografico suggerisce la sua identificazione con la Sibilla "Persica". Le due porzioni di affresco, strappate e ricollocate all'interno della navata centrale della chiesa monastica, provengono dalle lunette della parete opposta, su cui attualmente non si conservano altre tracce rilevanti ad affresco. Le lunette a coronamento delle pareti laterali sono state eseguite alla fine del XVI secolo in concomitanza con la realizzazione della decorazione della volta e della grande lunetta raffigurante Dio padre tra angeli musicanti che sovrasta la parete di fondo della chiesa, proprio sopra il ciclo di affreschi sulle storie della Vergine dipinti da Aurelio Luini nel 1560. La critica non è concorde né sull'attribuzione di tali affreschi né su una datazione più precisa. Alcuni studiosi ritengono che lunette e volta siano state realizzate precedentemente alle pitture del Luini, ad opera di alcuni maestri locali, che furono poi sostituiti dalla badessa Antonia Castiglioni con lo scopo di realizzare un impianto decorativo più vicino alla raffinata estetica degli ambienti milanesi. Secondo altri studiosi, invece, tali affreschi furono realizzati dopo la campagna luinesca e sarebbero dunque da datare intorno al 1590, come parrebbe testimoniare la scritta latina in lettere capitali collocata sul cornicione della sala, forse ad opera di alcuni artisti attivi tra il 1587 e il 1590 sulle volte della chiesa pubblica (Giovanni Antonio di Val Lugano, Salvatore Fontana e Giovanni Antonio Pozzi). row-nnts_8har-knt4 Laveno-Mombello Lungolago Perabò, 5 Prodotto nel corso del 1932, il Vaso Andlovitz è realizzato utilizzando terraglia forte: ottenuta per cottura a temperature che giungono fino a 1280º. Questo vaso si contraddistingue per le sue grandi caratteristiche estetiche e meccaniche, che lo rendono adatto a una produzione di qualità, facilmente riproducibile e notevolmente versatile.Qualità e produzione industriale sembrano dunque i due principi base che soggiacciono alle scelte compiute da Andlovitz per la sua creazione. Principi che egli declina dalla lezione inglese dell'Etruria, l'immenso stabilimento dello Staffordshire fondato dal precursore Wedgwood quasi due secoli prima, e che egli intende perseguire per la realizzazione di tutte le sue opere composizione ceramiche.Il corpo ovoidale del vaso, con piccoli manici laterali ad ansa, alterna strisce di colore differente (blu, rosso e verde lustro) a motivi geometrici astratti. In questo modo sul fondo di vernice bianca si stagliano i blu, i verdi, i neri e l'oro brillante. È impossibile, osservando bene quest'opera ceramica, non andare, col pensiero, ai contemporanei Capricci di Kandinsky, o alle suggestioni evocate dalle ultime opere dipinte da Klee, oppure, restando in Italia, riferirsi agli stilemi di Munari e ai tratti cromatici della tavolozza di Depero.Il collo alto e leggermente svasato, così come il fondo e il basamento circolare che accompagna il vaso, riprendono le stesse cromie del corpo centrale: un'alternanza di righe di diverse altezze e tonalità. La decorazione è ottenuta con colori e lustri, stesi a mano sopra lo smalto, cotti assieme all'opera. "Quest'anno la ceramica di Laveno prende il sopravvento ed è cosa singolarissima quando si pensa ai risultati mirabili raggiunti dalla Richard Ginori sotto la guida di Ponti [¿] c'è più vita, più libera vena, maggior gioventù". Con queste parole si esprimeva R. Papini nel 1926 riferendosi alla produzione delle ceramiche della Società Ceramica Italiana (SCI), che in quell'anno si imponeva alla III Mostra Internazionale delle Arti Decorative di Monza, allestita ancora una volta da Piero Portaluppi nella Villa Reale di Monza. Quest'ultimo non risultò indifferente per la carriera di Guido Andlovitz che fu suo allievo a Brera e al quale deve l'avvio della sua collaborazione con la SCI, a partire dal 1923. Nel corso del decennio successivo, sotto la direzione artistica di Andlovitz, la manifattura conquistò pubblico e visibilità artistica, per merito delle innovazioni stilistiche e del gusto decorativo "agile e capriccioso" che ben si coniugava con un tratto espressivo capace di sfruttare le possibilità della tecnica, contenendo, parallelamente i costi e rendono gli oggetti prodotti accessibili a una più vasta clientela. Il Vaso Andlovitz è dunque l'emblema della capacità del suo autore di studiare le istanze del mercato italiano e le esperienze europee e, in particolare, le sperimentazioni inglesi e tedesche, tra le quali apprezzava certamente quella avanzata della Scuola del Bauhaus. Osservando il Vaso Andlovitz, realizzato nel 1932, sono evidenti la poetica e le intenzioni del designer che qui voleva attuare una produzione rivolta al grande pubblico che lo conobbe anche grazie al catalogo "Lavenia Ceramiche d'Arte" stampato nel 1930 per promuovere le ceramiche in vendita presso La Rinascente. row-ejkc-gu44.mxwm Achrome Milano Piazza della Scala, 6 row-jqgu_v8dz~7aeq La famiglia Gonzaga in adorazione della SS.ma Trinità Mantova Piazza Sordello, 40 Capolavoro della quadreria mantovana, il grande dipinto è riconosciuto come una delle più significative opere giovanile di Pieter Paul Rubens. Incorniciati da maestose colonne tortili, i duchi Vincenzo e Guglielmo si prostrano in adorazione con le consorti Eleonora de' Medici ed Eleonora d'Austria. La Famiglia Gonzaga contempla in ginocchio la Trinità, che viene sorretta come in un tappeto da angeli volanti. La tela venne purtroppo sezionata in età napoleonica, l'insieme attuale non è completo e si compone di tre dipinti. Sono dunque da considerarsi frammenti della più grande opera originale: il frammento maggiore con La famiglia Gonzaga in adorazione della Trinità, il frammento con L'alabardiere ed il frammento con il "cagnolino". Ben documentata è l'impresa dell'artista, il quale dipinge entro il 1605 un trittico di tele da collocare nel presbiterio della Chiesa della SS.ma Trinità. La chiesa è fortemente voluta dalla famiglia Gonzaga; viene principiata dal duca Guglielmo - su spinta della moglie Eleonora d'Austria ed è portata a compimento da Vincenzo I. Al centro del presbiterio era collocata la Famiglia Gonzaga in adorazione della Trinità (o Tempio della Trinità), il Battesimo di Cristo era sulla parete sinistra e la Trasfigurazione sulla destra. row-e2rx~6z52_kbrg San Giuseppe con il Bambino dormiente Monza Via Teodolinda, 4 Dipinto ad olio su tela dominato al centro dalla figura a mezzobusto di San Giuseppe, raffigurato leggermente di tre quarti. Il padre putativo di Gesù è raffigurato con la barba e i capelli grigi, con indosso un mantello marrone rossiccio. Ha il viso rivolto verso il basso, con gli occhi rivolti al Figlio e mostra un'espressione di grande tenerezza. Tra le mani, regge infatti in primissimo piano il corpo del Bambino addormentato fra le pieghe di un panno bianco. Gesù viene raffigurato con i capelli biondi, privo di vestiti, in posizione supina con la mano sinistra appoggiata mollemente sulla gamba, a contatto con il corpo del padre putativo, e la destra che viene lasciata ricadere di lato, oltre le mani di San Giuseppe. Dietro alla spalla destra di Giuseppe è visibile il profilo di un tronco d'albero e di alcuni arbusti, mentre il resto dello sfondo è troppo scuro per intravedere in esso dettagli del paesaggio.L'opera, di formato rettangolare con orientamento verticale, è dotata di cornice lignea dorata su cui è apposta una targhetta metallica recante la scritta in lettere capitali relativa i dati dell'opera ("34. Elisabetta Sirani (?) 1630-1665 S. Giuseppe col Bambino"). Attualmente esposto presso il primo piano dei Musei Civici di Monza Casa degli Umiliati, il dipinto si presenta in ottimo stato di conservazione. Nel 2012 è stato oggetto di un intervento di restauro effettuato dal Laboratorio Nicola Restauri di Aramengo (AT), di cui è conservata documentazione scritta e fotografica presso la sede museale. Il dipinto, entrato nelle collezioni civiche monzesi nel 1923 con il lascito Eva Galbesi Segrè, venne esposto presso la Pinacoteca Civica in Villa Reale fino alla chiusura del museo negli anni Ottanta, con l'attribuzione a Guido Reni (1575-1642). La critica rivide poi tale attribuzione, spostandola ad alcuni seguaci del maestro bolognese: prima venne fatto il nome della pittrice e acquafortista Elisabetta Sirani (1638-1665), specializzata in soggetti di carattere devozionale, poi i nomi di Giovanni Andrea Sirani (1610-1670), padre di Elisabetta e primo assistente del Reni, e di Simone Cantarini detto il Pesarese (1612-1648), noto per aver eseguito nel 1645 una pala d'altare con "San Giuseppe col Bambin Gesù" per la cattedrale di Cervia.Indubbia è del resto la dipendenza da modelli reniani: il tema del putto addormentato era stato affrontato dal Reni sin dagli anni Venti del Seicento come dimostra il dipinto oggi conservato al Museo di Arte Antica di Palazzo Barberini e datato 1627, mentre la figura di San Giuseppe che regge il Figlio fu da lui elaborata nell'opera conservata al Museum of Fine Arts di Houston, databile al 1638-1640, in un dipinto esposto presso il Museo Diocesano di Milano (inv. MD 2002.109.002), proveniente dal Palazzo Arcivescovile e datato 1625-1630, e almeno in un altro dipinto di analogo soggetto conservato presso l'Hermitage di San Pietroburgo, anch'esso databile intorno al 1635. Pur sottolineando come nei prototipi noti il Bambino sia sempre sveglio, mentre nella versione monzese appaia dormiente, è verosimile pensare che il presente dipinto sia opera di un autore appartenente alla cerchia del Reni che abbia cercato analogie con le opere del maestro dipinte nella tarda maturità, dopo il 1635. Dal punto di vista iconografico questo era un tema assai caro nella pittura devozionale della prima metà del Seicento, in un momento storico in cui la figura di Giuseppe fu oggetto di una rivalutazione e di un processo di definizione iconografica a sé stante rispetto al soggetto tradizionale della Sacra Famiglia. L'immagine di San Giuseppe nella storia dell'arte occidentale non ha infatti radici lontane nel tempo come quella della Vergine Maria. Inizialmente, anzi, il padre putativo di Gesù fu una figura marginale, spesso assente, di cui i Vangeli sinottici dicono poco, e che dunque veniva ritratto vecchio, calvo, secondo le descrizioni di lui fatte nei vangeli apocrifi, in modo da allontanare qualsiasi sospetto di una sua partecipazione alla procreazione del Bambino. Da figura subalterna e muta, Giuseppe passò poi nel XVI secolo a diventare protagonista di una serie di rappresentazioni, prima in qualità di falegname al lavoro per mantenere la famiglia (sia da solo che insieme ad un giovane Gesù), poi in una relazione più intima con i componenti della sua famiglia, con compiti di guida e protezione. E' questo il caso delle numerose rappresentazioni dell'episodio della "Fuga in Egitto", in cui Giuseppe interagisce con il Bambino offrendogli piccoli animali o oggetti. Ma è nel corso del Seicento che il santo cominciò ad apparire in composizioni in cui tiene tra le braccia con gesto affettuoso il piccolo Gesù, senza la presenza di Maria, assecondando la diffusione del culto sostenuta principalmente dagli ordini monastici dei Carmelitani riformati e dei Gesuiti in un contesto artistico di rinnovata attenzione alla realtà degli ambienti e degli affetti.In questo caso l'immagine presenta sullo sfondo un tronco che il recente restauro effettuato nel 2012 ha permesso di valutare meglio come riferibile a una palma, facendo dunque ritenere il soggetto come un momento di un "Riposo durante la fuga in Egitto", soluzione non nuova nell'ambito dei modelli reniani: sia nel già citato San Giuseppe del Museo Diocesano che in quello dell'Hermitage, infatti, sulla destra della composizione, nello sfondo dietro il manto di Giuseppe, appaiono in lontananza le figure di Maria e dell'angelo, riferibili al medesimo episodio sacro. row-qb4c.sgzx.nx32 Cristo e undici Apostoli Mantova Piazza Sordello, 40 Il ciclo è costituito da dodici tele dipinte con la raffigurazione del Redentore e undici Apostoli. L'intera serie, pur caratterizzata da una certa discontinuità qualitativa e compositiva, è un capolavoro attribuito a Domenico Fetti. L'altissima tenuta formale si può misurare nel vigore e nella plastica torsione del S. Paolo, nella disgregazione atmosferica dei caseggiati che fanno da fondale al S. Giovanni Evangelista, negli straordinari passaggi cromatici sulla veste del S. Giacomo Minore, vestito d'una cascata di colore, nella vigorosa gestualità del S. Pietro e nella spirituale austerità del S. Taddeo, che solleva gli occhi dal Vangelo stringendo il pugno al petto. I dodici dipinti costituiscono un vero e proprio Apostolado - il collegio apostolico che esprime la quintessenza dei dogmi cattolici, in particolare in ambito controriformistico - secondo una tradizione iconografica che in Spagna esisteva sin dal Quattrocento ma che in Italia trova fortuna e diffusione solo ai primi del Seicento, in particolare a Roma, forse attraverso la committenza iberica lì assai presente. In realtà, Fetti inserisce, rispetto alle rappresentazioni consuete, il Redentore al posto di S. Bartolomeo ed esclude anche S. Mattia a favore di S. Paolo, mutando lievemente l'assetto tradizionale dell'iconografia. La serie non ha praticamente precedenti nel Mantovano. Il ciclo venne realzzato nel 1620 circa probabilmente per la chiesa dei SS. Maria e Cristoforo di Viadana, e nel 1788 venne donato dal pittore Giuseppe Bongiovanni all'Accademia Virgiliana. row-uakb_hva7.2emy Allegoria del Fuoco Milano Piazza Pio XI, 2 row-6vtx~i7xi.8y39 Madonna in gloria e santi Milano Piazza Castello row-nhgp~uazz-afhw San Procolo con san Fermo e san Rustico Bergamo Piazza Duomo Procolo, santo vescovo veronese morto a Verona, fu molto venerato a Bergamo perché nel IX secolo le sue reliquie giunsero in città da Verona insieme a quelle dei santi Fermo e Rustico, considerati di origine bergamasca e forse martirizzati nella città veneta. I tre santi entrarono quindi insieme nel "pantheon" bergamasco e furono spesso accostati anche nelle raffigurazioni artistiche, come questa. All'interno di un edificio sacro il vescovo Procolo è assiso sulla cattedra vescovile intento nella lettura delle Sacre Scritture, mentre i più giovani Fermo e Rustico, in armatura, glii si accostano con fresca spontaneità pur tenendo la palma in ricordo del loro martirio per decapitazione. Dopo che nel 1575 le reliquie dei Santi Procolo, Fermo e Rustico furono traslate in Duomo, furono depositate in un primo momento presso l'altare maggiore, poi presso quello di San Carlo e dal 1699 in un altare provvisorio collocato in testa al transetto destro. Per dare decoro all'altare posticcio, interpretando il desiderio dei fedeli, nel 1704 il canonico Pietro Negroni incaricò di una vera e propria pala dedicata ai tre Santi il già affermato pittore bellunese Sebastiano Ricci, attivo in varie città italiane e reduce da un viaggio a Vienna. L'opera, che con la costruzione dell'altare di Juvarra nel 1731 fu spostata sulla parete laterale, è considerata dalla critica come un punto di svolta nella produzione del pittore che si libera definitivamente della tradizione barocca con la sua eredità chiaroscurale e drammatica. Innovativi sono l'uso del colore schiarito, intriso di luce solare e steso in larghe campiture, e la composizione semplificata con figure accostate senza sovrapposizioni e dall'andamento ritmico. Il dipinto di Bergamo è una tappa significativa di un percorso stilistico che troverà pieno compimento nel ciclo di Palazzo Marucelli a Firenze nel 1706-1707. row-zazr-rypd~vdij Martirio dei SS. Quirico e Giulitta Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 La grande pala d'altare è uno degli esempi più significativi della pittura barocchetta lombarda e, nel contempo, uno degli esiti più alti del pittore varesino Pietro Antonio Magatti.L'ancona riprende dalla tradizione l'episodio del martirio di Quirico e Giulitta, madre e figlio, che non volendo abiurare la loro fede cristiana, sarebbero stati torturati e uccisi a Tarso in Cilicia sotto l'imperatore Severo Alessandro. Sulla sinistra il giudice, assiso in un seggio, indica al carnefice con la spada sguainata, la futura vittima, la cristiana Giulitta, inginocchiata e legata ai polsi, che sta per essere decapitata. Dinnanzi a lei il figlio, il piccolo Quirico scaraventato a terra, ormai cadavere. I personaggi principali, dalla grande solidità formale, risaltano su uno sfondo architettonici ridotto all'essenziale, mentre in cielo, in gloria fra nuvole e angeli, è aggiunta la figura di S. Siro, vescovo e protettore della città di Pavia.La tela a olio viene commissionata al Magatti dal conte Carlo Ambrogio Mezzabarba per ornare l'Oratorio gentilizio (progettato nel 1733 da Giovanni Antonio Veneroni), dipendente dal vicino palazzo di famiglia. Collocata sull'altare maggiore della cappella Mezzabarba, entro una cornice marmorea disegnata dal medesimo architetto, viene realizzata con grande probabilità nel 1734, anno dei consacrazione dell'oratorio, come risulta dalla lapide immurata al suo interno. Si caratterizza per uno stile leggero e aggraziato, ricco di raffinatezze formali, con pennellate larghe e trasparenti e cromie dai toni freddi, azzurri e verdi, vicini al pastello che sembrano attenuare la tragicità del momento del martirio. Acquisita dalla Civica Scuola di Pittura pavese nel 1924, passa nel 1933 ai Civici Musei, dove è esposta nella sezione della Quadreria del Seicento e del Settecento. row-phsn-xuer_c48m Varese Piazzale Litta, 1 Collocato al primo piano della villa nell'ala nord, il salotto rosso presenta sul soffitto una ricca decorazione a stucco raffigurante agli angoli i simboli delle quattro stagioni. L'ambiente è stato allestito dall'ultimo proprietario della villa Giuseppe Panza accostando opere d'arte contemporanea, arte primaria e arredi antichi per costruire una raffinata armonia. Sulle pareti sono esposte le opere su tela di Ruth Ann Fredenthal: Untitled n.9, 1975 (olio su tela di cotone), Untitled n. 130, 1987-1989 (olio su lino) e Untitled n. 121, 1984-1985 (olio su lino trattato). Al centro della sala sono disposti tre divani di velluto rosso con morbida imbottitura capitonnè e un tavolo ottagonale della fine del Cinquecento su cui sono raccolte cinque statue in terracotta e piume della regione del Mali; tre seggioloni in velluto rosso probabilmente della bottega dell'intagliatore bergamasco Andrea Fantoni (1659-1734), una maschera di danza Mwanapwo della regione del Kasai (Congo) decorata con elementi in fibre e terracotta; sulla credenzina piemontese del tardo XVI secolo sono disposte tre figure antropomorfe, in terracotta con applicazioni in terra rossa, dell'arte dei Mambila, tra Camerun e Nigeria; alla sinistra della porta d'entrata si trova una scrivania da notaio di manifattura emiliana del XVII secolo, impiallacciata in radica di noce, sulla quale ci sono due sculture: una dell'arte dei Bozo, regione di Segou (Mali), l'altra di arte Atzeca (Messico), della prima metà del XV secolo; ai lati del mobile due sedie cosiddette "a cartelle", una scultura lignea del 1954 di Vittorio Tavernari e, infine, sull'armadietto pensile, si trova una figura virile dell'arte dei Nayarit, regione di Ixtlan del Rio (Messico), periodo protoclassico. Il salotto rappresenta il cuore della villa perché qui Panza riunisce le sue tre grandi passioni: superando i tradizionali confini che tendono a distinguere tra arte ed etnografia o tra arte occidentale e arte extraeuropea, il collezionista accosta statue tribali a mobili dalle pure linee rinascimentali e dipinti di artisti contemporanei. Determinante, alla base di queste scelte, la convinzione dell'esistenza, in tutte queste forme artistiche, di una fonte d'ispirazione comune, cioè i medesimi valori di purezza, essenzialità ed espressività.I quadri di Ruth Ann Fredenthal (Detroit, 1938) Untitled n.9, 1975 (olio su tela di cotone), Untitled n. 130, 1987-1989 (olio su lino) e Untitled n. 121, 1984-1985 (olio su lino trattato) sono solo apparentemente di un solo colore, ma in realtà suddivisi in diversi settori da un'impercettibile cambiamento di tono lungo una linea ondulata, che è possibilie cogliere solo da un preciso punto di vista. Particolarmente degno di nota è il significato della collezione di Arte Primaria all'interno della raccolta di Giuseppe Panza, che comprende in totale circa sessanta oggetti in particolare di sculture provenienti dall'Africa e dal Messico precolombiano: in dialogo costante con la raccolta di arte contemporanea, nel comune intento di proporre nuovi modelli estetici e ampliare la capacità di comprensione del "diverso". Nei confronti dell'Arte Primaria, Giuseppe Panza non si pone dunque come il collezionista sistematico che vuole riunire la rappresentazione esaustiva di una cultura attraverso l'arte, e non è nemmeno lo specialista che si dedica puntigliosamente ad approfondire un unico settore o soggetto, ma cerca quegli apporti di profondo valore umano che alcune opere hanno conservato nel tempo. In questa ricerca, iniziata nel 1958 e portata avanti in parallelo al collezionismo di arte contemporanea, è fondamentale la figura di Franco Monti, collezionista di arte primaria, che nella primavera del 1958 organizza una mostra di arte primitiva con sculture precolombiane e africane alla galleria dell'Ariete a Milano. Il momento storico, all'inizio degli anni Sessanta, è inoltre favorevole agli acquisti per diversi motivi: la creazione di un mercato di questa arte in America, prima che venissero emanate leggi per proibire l'esportazione dei beni artistici, e il cambiamento di religione delle popolazioni, che passavano da quella animistica all'islamismo, che proibiva la raffigurazione della divinità e costringeva i fedeli alla distruzione delle immagini.La cromìa originaria del soffitto settecentesco è stata scoperta durante la campagna di restauri del FAI sotto uno strato di intonaco bianco nel 1996. row-rgqc_gye8.cyfh La cacciata dei Bonacolsi Mantova Piazza Sordello, 40 Il soggetto del dipinto è particolarmente noto: è 16 agosto del 1328 e nonostante un caldo sicuramente soffocante i Gonzaga indossano l'armatura e impugnano le armi contro i Bonacolsi, che allora governano la città di Mantova. Luigi Gonzaga - definito alter Romulus - è spalleggiato dalle truppe scaligere, il cui ingresso in città avviene alla sinistra della composizione, dalla porta dei Mulini; al centro e in primo piano è la battaglia tra le due opposte fazioni; sulla destra si vede il tentativo di fuga di Passerino Bonacolsi, su un cavallo nero, che vorrebbe rifugiarsi nel Palazzo del Capitano; al centro, ma in secondo piano, è l'ultimo momento della narrazione, i Gonzaga hanno vinto e rendono grazie a Dio con una processione che culmina nel Duomo. La grande tela porta la firma del pittore veronese Domenico Morone ed è datata 1494. Per riportare i differenti momenti della cruenta battaglia, l'artista ha cambiato due volte il punto di vista. Vi è inoltre un certo grado di verismo nella varietà delle pose, non sempre eleganti, dei combattenti, e persino particolari sorprendenti come il piede troncato del soldato sulla destra. L'opera, di rilevante interesse storico per la fedele rappresentazione urbanistica della Mantova di fine Quattrocento e della sua piazza principale, è stata utilizzata come documento per lo studio dell'antica facciata del Duomo, raffigurato sullo sfondo, e per la ricostruzione filologica del palazzo del Capitano, sulla destra. row-jpzy_xzef~dtvz Gloria di san Bernardino da Siena con san Francesco d'Assisi, san Ludovico di Tolosa, santa Chiara e San'Antonio da Padova Bergamo Via Pignolo, 76 Il gruppo scultoreo rappresenta San Bernardino portato in gloria da tre angeli, ritratto mentre regge un libro con l'antifona dell'Ascensione che pronunciò prima di morire. L'angelo ai suoi piedi stringe tre mitrie, allusione ai vescovadi rifiutati (Siena, Ferrara e Urbino). San Bernardino è circondato da altri quattro Santi francescani: Francesco d'Assisi, Ludovico di Tolosa, Chiara d'Assisi e Antonio di Padova, i cui attributi, solo parzialmente conservati, sono andati per lo più perduti. San Bernardino recava nella mano destra la tavoletta con il trigramma di Cristo; gli angeli in basso sostenevano dei pastorali, ancora in riferimento ai vescovadi rifiutati; San Francesco, che mostra la piaga sul costato, teneva una croce e aveva conficcati dei chiodi nelle stigmate delle mani; Santa Chiara reggeva con la destra un ostensorio e Sant'Antonio di Padova un giglio. San Ludovico di Tolosa, l'unico con la mitria in testa, mostra un libro aperto. In alto si trovano una serie di angioletti in preghiera. Originariamente collocata nel convento bergamasco di San Francesco, in seguito alle soppressioni napoleoniche l'opera fu trasferita nel Duomo di Bergamo. Già attribuita a Bongiovanni e a Giovanni Bassiano Lupi, scultori documentati a Milano e a Lodi nella seconda metà del Quattrocento, in base al confronto stilistico con il ciclo pittorico in Santa Maria delle Grazie, databile al 1507, l'opera è stata recentemente riferita a Jacopino Scipioni, pittore ma anche scultore legato alla locale committenza francesca e appartenente alla famiglia degli Scipioni di Averara, e di collocarne la realizzazione tra il 1505 e il 1515. Alcuni particolari, come la spessa preparazione che modella le forme, confermerebbero l'ipotesi: l'autore era un artisrta non particolarmente abile nell'intaglio ma operante con competenze di plasticatore. row-vxce_fz56.7any Il Saggio che, recuperato il tempo con l'allontanamento delle passioni grazie alla Solitudine, si dedica alla cultura, La Carità moderata dalla Temperanza, L'Ingegno favorito dalla Quiete Cesano Maderno Piazza Vittorio Veneto Sul fianco settentrionale della Corte Nobile si affacciano gli ambienti del Ninfeo che comprende la "Galarietta fatta a mosaico", la "Saletta dei Bagni" e la "Sala del Cortile del Mosaico". Si tratta di ambienti riccamente decorati con pitture e con mosaici in acciottolato di fiume bianco e nero a motivo geometrico-floreale, tra cui spicca l'emblema araldico delle ali Arese sormontato da una corona comitale. Tra gli elementi più significativi del Ninfeo vi è certamente la "Galarietta", decorata sulla volta con tre affreschi raffiguranti virtù e allegorie, entro cornici ottagonali, i due laterali, e ovale, quello centrale. Nel riquadro al centro è raffigurata la personificazione femminile della Temperanza, vestita di bianco, nell'atto di versare dell'acqua in una patena sostenuta da una seconda figura femminile discinta che si sta facendo fuoriuscire latte da un seno, che invece rappresenta la Carità. In uno dei due medaglioni laterali è raffigurato un uomo anziano e barbuto, dipinto secondo l'iconografia tradizionale del filosofo con in mano un libro su cui sta scrivendo e con di fianco una clessidra a rappresentare il tempo, cui si avvicina la personificazione femminile della Solitudine, vestita di bianco, che nella mano sinistra regge un libro, tiene sotto il braccio destro un coniglio e sopra la cui testa vola un passero, entrambi animali solitari per natura. Nell'altro medaglione laterale è raffigurata la personificazione femminile della Quiete, seminuda con il braccio sinistro poggiato sopra un cubo marmoreo, accanto ad un giovane dalla veste dorata, sulla cui testa coronata brucia il fuoco dell'Ingegno e che regge nella mano sinistra uno scettro. La "Galarietta" presenta sulla volta tre affreschi realizzati da Giuseppe Nuvolone (il riquadro centrale) e Giovanni Stefano Doneda detto il Montalto (i riquadri laterali). Nel medaglione centrale, è raffigurata la "Carità moderata dalla Temperanza". Questa rappresentazione è molto vicina al gusto barocco per l'ossimoro, infatti la carità è per antonomasia un virtù che non dovrebbe avere limite e che qui invece viene frenata dall'idea tipicamente classica di moderazione, espletata attraverso il gesto di versare l'acqua da un recipiente all'altro, mescolando la fredda con la calda per ottere la temperata (da cui il termine latino "temperantia"). La critica ha proposto una ulteriore interpretazione di questa scena, sostituendo alla figura della Carità quella della Natura che, ricevendo alimento dalla Temperanza, è in grado di saziarsi con poco e dunque rappresenta un esplicito invito a non esagerare con i piaceri, a moderare gli appetiti. Tale modifica prende avvio dallo studio dell'iscrizione latina presente nel dipinto, attualmente priva di senso a causa di errate ridipinture, che per la critica avrebbe in origine potuto essere "NATVRA PAVCIS CONTENTA" ("La natura è contenta con poche cose"), tratta dall'opera del filosofo Severino Boezio "De Consolatio Philosophiae" (libro II, 5).Nel primo dei medaglioni laterali è raffigurato il "Saggio che, recuperato il tempo con l'allontanamento delle passioni grazie alla Solitudine, si dedica alla Cultura". L'immagine è completata dalla presenza di un cartiglio riportante una frase tratta dal "De Republica" di Cicerone (libro I, 27), pronunciata durante un dialogo tra Tuberone e Scipione Emiliano Africano Minore nel quale i due si trovano a discutere su chi possa ritenersi davvero felice: il secondo ricorda come suo nonno, Scipione Emiliano Africano Maggiore, sostenesse di poter considerare felice solo colui il quale può affermare di "non essere mai meno solo di quando fosse da solo".Nel secondo medaglione laterale, è infine raffigurato l'"Ingegno favorito dalla Quiete", come riportato anche nella scritta latina in esso dipinta. Qui l'ingegno viene rappresentato come un fuoco sulla testa del personaggio maschile presente sulla scena, probabilmente ritratto con le fattezze di Giulio Arese, il quale reca scettro e corona a dimostrazione del fatto che chi acquista il dominio dell'intelligenza e della calma, è il Re di se stesso.I temi raffigurati nei dipinti portano dunque ad individuare un intento comune, ovvero quello di sottolineare come la quiete e l'"otium" consentano all'uomo di recuperare il contatto con se stesso e di ritornare ad essere una creatura fatta di contemplazione. La grotta del Ninfeo diventa in questo senso luogo di confine fisico tra natura e cultura, fra il volto aulico e quello "magico" (evidente nei riferimenti all'interno degli affreschi a precise valenze alchemiche o alla tradizione cabbalistica) della classicità: qui Bartolomeo Arese doveva sentirsi il nuovo Cicerone, in perenne equilibrio tra acutezza della mente e apertura al mistero, uomo di un secolo razionale e nello stesso tempo sacerdote di antichi riti. Questa sala si pone dunque come luogo di mediazione tra i temi religiosi e quelli mitologici e come ambiente dai poliedrici impieghi: cenacolo umanistico, luogo di meditazione e spazio dello stupore, in cui mostrare ed esporre alcune delle opere collezionate dalla famiglia Arese Borromeo. Nei secoli passati le sale dovevano infatti comprendere anche un ricco apparato scultoreo, di cui rimangono solamente le testimonianze documentarie e gli elementi basamentali.Il Ninfeo si pone inoltre come luogo di mediazione tra i volumi architettonici del Palazzo e gli ambienti naturali dei giardini, e come fondamentale tappa di un lungo processo di definizione tipologico-architettonica, non solo di matrice lombarda, di tale spazio. row-iqrv~uisp_qiwh Paesaggio a Imbersago Bergamo Via S. Tommaso, 53 L'opera parte dall'osservazione delle lussureggianti rive dell'Adda a Imbersago in Brianza, dove l'artista visse a fasi alterne dal 1955 al 1965. Il luogo, tanto amato per la bellezza della natura e per la tranquillità, spinge l'artista a dipingere "dal vero" calandosi dentro la natura: l'inquadratura è un ritaglio guardato da vicino, il colore vivo, denso e spesso rende l'anima segreta delle erbe, dei piccoli arbusti, degli insetti, della natura più minuta di cui l'artista si sente parte. Negli anni Cinquanta Morlotti inaugura un nuovo modo di vedere la natura tra astrattismo e osservazione della realtà che troverà il suo compimento in occasione della XXVII Biennale veneziana del 1954: da questo momento fino al 1960 si immerge totalmente nella natura utilizzando una ricca materia cromatica stesa con pennello e spatola e dà corpo a ciò che lui stesso definisce il "sentimento dell'organico". A questa fase, a cui appartiene il dipinto in oggetto, risalgono importanti cicli di opere, dedicati al tema dei fiori, delle bagnanti e soprattutto del fiume Adda a Imbersago. A parte il riferimento alla linea dell'orizzonte che sovrasta la vegetazione e che rimane l'unico ancoraggio all'osservazione iniziale, per il resto il pittore penetra nei particolari delle foglie, dei fili d'erba e nella vita che si svolge dentro la natura, il "lato organico" appunto. Per il rapporto consapevole con la tradizione pittorica lombarda, fu definito dal critico e amico Francesco Arcangeli "l'ultimo dei naturalisti". row-g3mi.m9ta~cn7w Brescia Via S. Francesco La struttura della splendida balaustra che permette l'accesso alla cappella dell'Immacolata Concezione non ha paragoni in tutto il territorio bresciano dove questa tipologia di manufatto non si discosta mai dal modello costituito da semplici pilastrini di marmi policromi o tutt'al più decorati a commesso. Questa balaustra, invece, è articolata in due corpi, ciascuno dei quali presenta una base ad andamento ricurvo decorata da specchiature geometriche verdi e rosse. Su di essa si innesta un fastoso corredo scultoreo che comprende sia fantasiosi elementi architettonici di marmi versi colori sia statue a tutto tondo. Al centro di ciascun braccio c'è, infatti, un gruppo costituito da due angioletti con manti svolazzante che sostengono una cartella contenente iscrizione bibliche che esaltano il culto mariano. A sinistra si legge "SANCTIFICAVIT/ TABERNACULUM/ SUUM/ ALTISSIMUS" dal salmo 45; a destra c'è una citazione del Cantico dei Cantici "TOTA PULCRA ES/ AMICA MEA/ ET MACULA/ NON EST IN TE". Completano l'insieme un elegante cancello cuoriforme con il profilo in legno e il centro decorato da lamine di metallo sbalzate e decorate da motivi vegetali e due originali composizioni scultoree raffiguranti un mostro con la testa di lupo e il corpo di serpente che tiene fra le fauci una mela e ha il corpo attorcigliato intorno ad un albero. La balaustra che chiude la cappella dell'Immacolata Concezione, la quarta della navata sinistra, è un'opera unica non solo per la città di Brescia, ma per tutto il territorio sia per la tipologia strutturale che per l'apparato decorativo. E' stata realizzata da Antonio Ferretti fra il 1739 e il 1741 come documentano i pagamenti a lui effettuati dalla Scuola dell'Immacolata Concezione che aveva il patronato della cappella e ne ha commissionato il rifacimento settecentesco. Scultore e stuccatore originario della Val d'Intelvi, lavora con il padre Giorgio in numerose chiese e palazzi nobiliari a Brescia, dopo un lungo soggiorno in Germania dove ha operato nel castello di Mannheim. E proprio alla sua conoscenza della cultura del rococò internazionale può essere ricondotta l'iconografia dell'originale composizione che evoca il peccato originale nella forma di un serpente con la testa di lupo che addetta una mela ed ha il corpo attorcigliato intorno ad un albero. row-tb53.viq7~u29f Collezione del materiale lapideo dall' XI al XVI secolo dei Civici Musei d'Arte e Storia di Brescia Brescia Via dei Musei, 81/b La raccolta include materiali di tipo architettonico, epigrafico e scultoreo di età medievale e rinascimentale provenienti da edifici cittadini. Tra i reperti riferibili all'età del Comune e delle Signorie, spicca una serie di quattro figure maschili (forse dei telamoni) provenienti dal Broletto, alcuni capitelli figurati e i resti di importanti centri di vita e cultura religiosa della città, sottoposti nel tempo a trasformazioni e demolizioni. I materiali relativi all'età rinascimentale, caratterizzata dalla dominazione veneziana, danno conto degli aspetti fondamentali dell'architettura e della decorazione architettonica urbana nel XV e XVI secolo. Dalle formelle tardogotiche in terracotta, di cui alcune invetriate e policrome, si passa alla raffinata decorazione scultorea dei maggiori edifici bresciani pubblici e privati dell'ultimo Quattrocento, compresi la chiesa dei Miracoli e il palazzo della Loggia, indiscussi monumenti del classicismo lombardo. Di tale corrente dell'arte e del gusto resta traccia in una importante serie di monumenti sepolcrali, tra i quali il mausoleo Martinengo, nel quale alla solida struttura architettonica si accompagna il ricercato effetto cromatico prodotto dall'accostamento di diversi tipi di pietre e di marmi che fungono da cornice a preziosi rilievi in bronzo. La maggior parte dei materiali è pervenuta ai Musei in seguito alle trasformazioni urbanistiche ed edilizie e alle demolizioni dell'Ottocento e del primo Novecento. Nella maggioranza dei casi l'archivio dei Musei Civici non registra la provenienza dei frammenti architettonici, anche se i più importanti risultano comunque riconducibili, per altre vie, a singoli edifici e complessi monumentali. I materiali di maggiore interesse - a cominciare da quelli scultorei - erano parte un tempo del Museo Cristiano, ospitato nella chiesa di Santa Giulia e inaugurato nel 1882. row-sx8t.r2dw.t2vg Battaglia di cavalieri Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 La tela raffigura in primo piano un gruppo di cavalieri che si affrontano mentre i cavalli cadono colpiti. Il vessillo al centro e il drappo a sinistra sono rossi e costituiscono un fulcro cromatico all'interno della composizione. Sullo sfondo, a sinistra, uno scoppio solleva i corpi dei combattenti, mentre si notano in lontananza le colline e un castello. A sinistra un albero dai rami spezzati. Si è avanzata l'ipotesi, per questo dipinto, che possa trattarsi di un'opera fiamminga che risente dell'influsso della corrente paesistica sviluppatasi in Italia in quel tempo, in modo particolare a Firenze in cui era attivo Salvator Rosa e di cui si può rintracciare l'influenza nella conduzione delle rocce e degli alberi. row-derp_exyx.awe2 Decorazioni a grottesche Milano Piazza Castello row-rgte~9646.94t5 Altare dei Magi Meda Piazza Vittorio Veneto La terza cappella a destra della chiesa di S. Vittore, ospita l'altare dedicato ai Re Magi e dunque è decorata con una raffigurazione ad affresco del relativo racconto evangelico.Al centro della scena è dipinta Maria con il Bambino in braccio, seduta su un basamento marmoreo sotto l'arco di un edificio in rovina. La Vergine indossa un abito di colore rosso intenso, coperto da un mantello dall'intonazione cromatica verdastra e ha il capo coperto da un doppio velo bianco e giallo. Tutto intorno a lei si posizionano i Re Magi che offrono doni a Gesù: sulla sinistra, Melchiorre, il Mago più anziano, con la barba bianca e la veste dorata, è il primo ad inginocchiarsi davanti alla Madonna e a porgere l'oro a Gesù, che qui è già stato accolto e viene tenuto nella mano sinistra da San Giuseppe, posizionato alle spalle di Maria. Il padre putativo di Gesù è infatti la figura vestita con un abito chiaro coperto da un mantello rosso, che stringe nella mano destra un bastone da passeggio. Sempre a sinistra, dietro Melchiorre, Gasparre, il Mago più giovane, è raffigurato con barba corta e capelli castani, vestito con un corto mantello rosso e con in mano il vaso contenente la mirra. Sull'altro lato, a destra della scena, Baldassarre, il Mago con la carnagione scura, vestito con una ricca tunica bianca bordata d'oro e il capo coperto da un turbante, regge nella mano destra il contenitore dell'incenso, mentre la sinistra è appoggiata sul fianco; ai suoi piedi è raffigurato un bambino di colore intento ad allacciargli il calzare sinistro.Lo sfondo è occupato da un paesaggio naturale: sulla sinistra della composizione si vede il corteo dei Magi che avanza, con cammelli in lontananza e un cavaliere con veste dorata a righe e un bianco turbante sulla testa in primo piano. Sulla destra invece, tra due porzioni di un arco in rovina e la testa di Baldassarre, si intravedono su un sentiero in lontananza dei pastori che si stanno avvicinando alla scena. Il cielo, azzurro e privo di nuvole, è occupato nella parte centrale da tre angioletti che reggono tra le mani una pergamena scritta con le note dell'Osanna, illuminati dalla luce della stella cometa sotto di loro.Interessante la presenza alla base della scena, perfettamente inserito nella cornice dipinta che circonda il profilo della cappella e lo spazio dell'affresco, di un trompe l'oeil raffigurante un piano marmoreo sopra il quale sono appoggiati due strumenti essenziali della liturgia: a sinistra, un messale borchiato chiuso, e a destra, un vassoio dorato con due ampolle rituali contenenti acqua e vino.La parete centrale della cappella è sormontata da una lunetta, anch'essa dipinta ad affresco, raffigurante due angeli reggicorona, circondati da nuvole ed angioletti, sullo sfondo di un cielo stellato blu intenso; ancora più alto, ai lati del catino, due tondi ospitano i ritratti della Sibilla Eritrea e della Sibilla Libica.Complessivamente i dipinti dell'intera cappella si presentano in buono stato di conservazione, anche grazie ad restauro effettuato nel 2003 ad opera del laboratorio Ambra Conservazione e Restauro di Vanzaghello, in collaborazione con la Soprintendenza di riferimento. L'intervento effettuato ha comportato la pulitura della pellicola pittorica con appositi solventi, il consolidamento della pittura al supporto murario tramite iniezioni di appositi materiali e, laddove necessaria, la reintegrazione delle lacune a rigatino (sottile tratteggio ad acquarello) per riportare l'affresco alla sua originaria completezza e luminosità. L'opera è stata attribuita in un primo momento ad Aurelio Luini (1530-1592 ca.), figlio più giovane del pittore Bernardino Luini, per l'alta qualità dell'esecuzione, e più di recente ad un autore sconosciuto che risente dello stile di Calisto Piazza, forse lo stesso che eseguì nel 1556 il dipinto raffigurante le "Nozze di Cana" nella chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore a Milano.L'iconografia dell'offerta dei doni a Gesù da parte dei Magi ha avuto nell'arte una straordinaria fortuna, in particolare nelle rappresentazioni della Natività e del presepe: il testo dei Vangeli sinottici a questo proposito (Mt 2, 1-12) è piuttosto scarno di particolari ed è la successiva tradizione cristiana che ha poi fornito utili dettagli per la formulazione di una vera e propria iconografia dell'evento. Il passo di Matteo non fornisce ad esempio il numero esatto dei Magi nè indicazione dei loro nomi, ma la tradizione più diffusa li ha spesso identificati come tre saggi, basandosi sul fatto che vengono fatti a Gesù tre doni, ed ha assegnato loro i nomi di Melchiorre, Baldassarre e Gasparre. Altra evoluzione successiva è il passaggio dalla condizione di astrologi (Magi è la traslitterazione del termine greco "magoi", che nel tempo ha indicato filosofi e scienziati così come stregoni e astronomi) a quella di re, da cui la rappresentazione di questi personaggi con le corone sulla testa o sui copricapi. Nel dipinto qui esaminato i Magi vengono rappresentati secondo l'iconografia più diffusa: Melchiorre è il Mago più anziano, Gasparre il più giovane, Baldassarre ha la carnagione scura, e viene qui arricchito dall'insolita presenza di un bambino di colore ai suoi piedi, intento ad allacciargli un calzare. Un analogo ragazzino è presente anche a Saronno del Santuario della Madonna dei Miracoli, dove Bernardino Luini dipinse l'"Adorazione dei Magi" nel 1525-1526, elemento questo che farebbe propendere per un autore del dipinto qui schedato molto vicino alla sua bottega o comunque sicuramente debitore dell'impostazione alla scena da lui data. La presenza di un corteo nella scena dell'adorazione dei Magi ha invece un'origine più tarda, attestata come rievocazione storica in alcune città italiane fin dal Medioevo, e particolarmente rappresentata in pittura a partire dall'epoca tardo-gotica fino a tutto il Rinascimento, con una particolare attenzione alla ricchezza delle vesti e dei finimenti degli animali, qui ben esemplificata dal cavaliere all'estrema sinistra della composizione, subito dietro Gasparre. Ciò in cui questo affresco si differenzia dalla tradizionale trattazione lombarda del tema è invece l'inserimento dell'episodio evangelico, non vicino alla consueta capanna, bensì sotto ampie architetture classicheggianti in avanzata rovina, che tradiscono ascendenze fiorentine, sul modello delle numerose opere di Botticelli. Queste rappresenterebbero iconograficamente la cultura pagana antica che viene definitivamente distrutta dalla nuova civiltà cristiana. row-82gg~zkpc-4g4z Vaticano visto da Monte Mario Ome Via Maglio, 51 Un albero frondoso sulla destra, interrotto dal limite del foglio, funge da quinta a una radura boscosa, in fondo alla quale si apre uno scorcio della Città Eterna. Al centro, elemento di unione tra cielo e terra, spicca la cupola della basilica di S. Pietro circondata da costruzioni più basse. In basso a destra si legge l'iscrizione "Vaticano veduto da Monte Ma[rio]/ L. Basiletti 1809". Questa scenografica veduta di taglio panoramico ha la prerogativa di essere uno studio dal vero che conduce al confronto con un'altra veduta riferita all'esperienza del soggiorno di Basiletti a Roma, ossia "Porta Romana del popolo" (Brescia, Musei Civici d'Arte e Storia). Entrambe sono caratterizzate da notevole immediatezza, quasi fotografica, ma ancora legate a schemi compositivi di matrice secentesca, in cui il rilevamento grafico assume un ruolo fondamentale. Con pochi ma precisi tratti di matita, velocemente tracciati su fogli di ridotte dimensioni, il pittore restituisce panorami in cui gli edifici sono limitati a presenze smaterializzate. Lo studio dal vero nella pittura di paesaggio tra Sei e Settecento si qualifica come esercizio per addestrare l'occhio e la mano, finalità che l'artista risolve nel tracciare velocemente il disegno. Nella storia di pittura di paesaggio, Roma trova il suo fulcro di attrazione internazionale: dalla metà del Settecento fino alla prima metà del secolo successivo la città dei Papi diviene infatti l'inevitabile destinazione di ogni paesaggista europeo. Quando Basiletti giunge a Roma nel 1803, la cerchia delle sue amicizie comprende tra gli altri due artisti olandesi che avevano raggiunto una certa notorietà: Wilhelm Friedrich Gmelin (1760-1820), celebre incisore specializzato in paesaggi di grande formato, e Hendrik Voogd (1777-1830) suo "amico affezionatissimo". Le doti di disegnatore di quest'ultimo costituiscono certamente per Basiletti una lezione fondamentale. Il pittore bresciano scopre infatti, grazie a loro, la propria vocazione di paesaggista. I tratti distintivi che emergono dai suoi studi sono il tratteggio delle parti in ombra, la resa della cosiddetta "frappa", ossia il fogliame degli alberi, la ramificazione delle essenze arboree e l'attenzione per i dettagli descrittivi. L'originaria consistenza dei disegni di Basiletti si deduce dalla parte del fondo conservata dagli eredi, rintracciabile presso diverse collezioni private anche in nuclei omogenei. Il foglio appartiene alla ricca collezione nella quale Malossi raccolse oltre 1500 tra disegni e cartoni preparatori per tele e affreschi eseguiti da noti artisti bresciani operosi prevalentemente nella seconda metà dell'Ottocento. Oltre a quello in esame la collezione annovera un altro foglio di tema romano dedicato alla Villa di Tivoli, firmato e datato da Basiletti al 1819. row-uhw5-x6pc_9y8j Santa Maria Maddalena Varese Via Cola di Rienzo, 42 L'opera è costituita da una scultura lignea a tuttotondo dipinta, raffigurante Santa Maria Maddalena. La donna viene rappresentata in piedi, con le braccia aperte levate verso l'alto, nella stessa direzione in cui la santa sta guardando, con il capo gettato all'indietro. L'espressione del volto della donna sembra sofferente: gli occhi sono spalancati così come la bocca; i capelli buttati all'indietro le ricadono dietro la schiena lasciando perfettamente libero il viso. La santa indossa un lungo abito blu scuro, fitto di pieghe, con i polsini e l'estremità inferiore bordata di bianco; sulla spalla destra è appoggiato un mantello rosso che le copre la schiena. La scultura, insieme al suo pendant costituito da un'altra statua lignea raffigurante San Giovanni, proviene da cinquecentesco complesso della Basilica di S. Vittore di Varese: tale provenienza è stata identificata nel 2009 dalla critica sulla base di un confronto con un analogo gruppo ligneo settecentesco conservato nel Monastero delle Romite al Sacro Monte di Varese, riproducente in dimensioni ridotte l'immagine dell'Addolorata tra le Pie donne con San Giovanni e la Maddalena. La decorazione interna dell'abside di S. Vittore era stata eseguita da Andrea da Corbetta e comprendeva una riproduzione del Monte Calvario: cronache dell'epoca descrivono anche le due figure di Maria Maddalena e San Giovanni collocate su "pyramides", ovvero mensole probabilmente distribuite lungo le pareti poligonali dell'edificio. In attesa di riscontri documentari, sulla base di confronti stilistici, queste due sculture sono state attribuite a Giovanni Battista da Corbetta, cugino di Andrea che gli subentrò nella conclusione dei lavori a seguito della sua morte, avvenuta nel 1537. I panneggi gonfi, la tipologia di pieghe, i profili dei volti e l'espressione attonita di entrambi i personaggi, si ritrovano infatti anche in altre sculture lignee realizzate da Giovanni Battista presso santuari e chiese della provincia di Varese. In particolare l'immagine della Maddalena con le braccia spalancate e protese verso l'alto e il mantello che pende lungo un fianco, appoggiato su una sola spalla, si ritrova identica anche in un santo apostolo scolpito da Giovanni Battista nella Cappella della Cattura di Cristo presso il Sacro Monte di Varallo. Le due statue presentano pesanti ridipinture che forse nascondono elaborate decorazioni in oro ottenute con le tecniche del graffito, della pastiglia e della granitura su foglia d'oro: la santa mostra ancora segni di doratura sull'intera capigliatura, ma anche stuccature in più punti del viso, specie intorno agli occhi e sulla fronte, forse per riparare i danni della pellicola pittorica originale. row-5gyk-3dty-rwwj Scuola di ragazze Brescia Via dei Musei, 81/b La scena è ambientata in una stanza spoglia con un uscio chiuso sulla sinistra: tre giovani ragazze stanno lavorando con i tipici ferri sottili per fare le calze. Le figure femminili sono sedute su sedie e sgabelli impagliati intorno a una donna più matura che, lasciati i ferri e la lana nel cestino, aiuta una bambina a tenere il segno sul libro, insegnandole a leggere. Tutte sono acconciate con la stessa pettinatura, capelli raccolti a crocchia e due trecce laterali, e indossano un semplice abbigliamento composto da grembiule e scialle bianchi; la donna più matura, forse la maestra, sopra l'abito con il corpetto colorato, indossa un grande grembiule grigio e uno scialle violetto. Il dipinto, di notevoli dimensioni, è parte di un gruppo di quattordici tele reso noto per la prima volta nel 1931, all'epoca riunite nella collezione di Bernardo Salvadego presso il castello Martinengo a Padernello, in provincia di Brescia. Successivamente disperse, le opere sono oggi divise tra collezioni private, il Museo Lechi di Montichiari e la Pinacoteca civica Tosio Martinengo, temporaneamente chiusa al pubblico. Si deve all'individuazione di questo eccezionale nucleo di dipinti la vera e propria riscoperta del loro autore, il pittore milanese Giacomo Ceruti, ritenuto dalla critica uno dei maggiori artisti del Settecento lombardo.Note come facenti parte del cosiddetto "ciclo di Padernello", probabilmente le tele decoravano in origine più di un palazzo della nobiltà bresciana, per essere aggregate in un unico insieme nel corso dell'Ottocento. Il soggetto ha come protagoniste persone di umile condizione, intente in attività quotidiane forse da ricondurre alla tradizione della pittura di genere, nella quale sono spesso raffigurate scene di vita popolare: questi soggetti godevano di grande fortuna nelle dimore aristocratiche dell'epoca, soprattutto per il tono leggero e ammiccante. Tuttavia, i quadri dedicati da Ceruti a questi temi (tutti concentrati negli anni del suo soggiorno bresciano, tra il 1724 e il 1735) si caratterizzano per un'intonazione totalmente differente. Nel dipingere mendicanti, calzolai, donne occupate in semplici lavori e bambini di strada, Ceruti non si propone di raccontare aneddoti divertenti o mettere in scena caricature, quanto piuttosto di descrivere una condizione. Pur sottolineando l'assenza, sia da parte del pittore che dei suoi committenti, di un'intenzione di denuncia sociale (come invece sarà nella pittura dell'Ottocento), gli studiosi non mancano di evidenziare il senso di intensa partecipazione umana che l'artista profonde in questi scorci, in cui la dignità dei personaggi è accentuata dalle rispettive dimensioni che li traducono in veri e propri ritratti, e le scene sono lontane da ricostruzioni bizzarre e pittoresche.In questa tela in particolare è rappresentato un gruppo di donne riunito in un interno spoglio; le loro sedie sono disposte in maniera casuale, come se il gruppo si fosse formato via via con il progressivo aggregarsi intorno alle due protagoniste più mature. A parte una bambina, nessuna di loro volge lo sguardo verso il pittore. I colori spenti, giocati su una delicata gamma che va dal bianco al grigio, sono ravvivati da tocchi improvvisi di viola, rosso e arancione: le vesti, dignitose, presentano qualche vago accenno di passata eleganza. I volti malinconici e intenti rivelano la consapevolezza e il peso di una condizione di difficoltà. L'impegno nel lavoro e nell'apprendimento sono sottolineati dalla scelta del pittore di raffigurare le mani al centro della composizione e il cestino in primo piano. Tale sottolineatura rispecchia pienamente la sensibilità assistenziale espressa da molti committenti bresciani di Ceruti, che spesso rivestivano cariche di responsabilità all'interno di orfanatrofi e luoghi pii. row-tsjs_xakh_3zve Gloria di San Filippo Neri Lodi Corso Umberto I, 63-65 Al centro della volta dell'oratorio è raffigurato San Filippo Neri mollemente abandonato nell'estasi e circondato da aggraziati e sorridenti angeli, incorniciato dalle quadrature architettoniche, le stesse che rimangono sulla parete destra, ora appena visibili. L'attuale Salone dei notai è, in realtà, l'antico oratorio dei padri Filippini progettato da Giovanni Antonio Veneroni. Venne trasformato più volte: dapprima come sede dell'archivio notarile, poi al momento della soppressione in cui furono divisi gli spazi di proprietà della chiesa da quelli comunali; infine durante gli anni Cinquanta del Novecento per adattarlo a sala per conferenze e mostre e proprio in quella occasione sono venuti alla luce gli affreschi della parete destra, rimanendo quello della volta. Oggi è adibito a sala studio della biblioteca laudense. row-sh8q.asz5_i3eb Casalzuigno Viale Camillo Bozzolo, 5 Posto all'estremità nord-occidentale delle sale del primo piano, lo Studio costituisce uno degli ambienti privati più suggestivi e carichi di cultura dell'intero complesso architettonico. Qui la sala si presenta con forme architettoniche regolari e geometriche, alleggerite dalle decorazioni dipinte alle pareti e dall'imponente soffitto ligneo a passasotto realizzato da anonime maestranze lombarde tra il 1730 ed il 1740. Decorato con elementi geometrici e vegetali, talvolta dal cromatismo acceso, il soffitto è scandito in quattro partizioni da imponenti travature lignee, anch'esse alleggerite da decorazioni pittoriche. Queste furono eseguite nel Settecento anche come cornice perimetrale della sala, come si trattasse di una fascia di imposta per le travature stesse. Di ambito lombardo sono anche le decorazioni paesaggistiche monocrome incorniciate da finte architetture dipinte illusionisticamente nella prima metà del XVIII secolo negli spazi sottostanti le finestre. Nel quarto decennio del secolo furono eseguite anche le decorazioni parietali con nastri che legano finti racemi floreali. Le pareti di questa sala, infatti, mostrano decorazioni a grisaille azzurre collegate a policrome composizioni vegetali con frutti e foglie. Qui si distinguono, in particolar modo, margherite, peonie e rose, che cromaticamente si distaccano dai colori impiegati per le menzionate pitture a tempera degli sfondati paesaggistici. Alternati alle decorazioni pittoriche parietali una piccola serie di tre ritratti d'inizio Ottocento donati pochi anni fa al FAI dagli eredi della famiglia Bozzolo, provenienti da una loro proprietà torinese. Questi raffigurano Cesare, Marianna e Giovanni Richini, i tre fratelli che ereditarono Villa Della Porta Bozzolo di Casalzuigno nella seconda metà del XIX secolo. Nel registro inferiore numerose stampe settecentesche incise dal toscano Francesco Bartolozzi raffiguranti I mesi dell'anno.Completano lo Studio i mobili eseguiti nel quarto decennio del XVIII secolo, sebbene non manchino mobili di più antica fattura. Tra questi l'imponente tavolo della biblioteca, ascrivibile all'ultimo quarto del Seicento. Lo Studio di Villa Della Porta Bozzolo costituisce una rara testimonianza della passione sei-settecentesca dei nobili lombardi per la cultura e la raccolta di stampe, documenti e libri. Lontano dal rispondere alle necessità di trasmettere la propria immagini di uomini e donne cortesi ammessi a frequentare le più blasonate famiglie europee e di stupire con effetti artistici gli invitati a banchetti e feste in villa, questa sala, con annesso un locale di servizio, ha una dimensione più intima, sebbene non sia scevra da colti intenti didascalici. Rimasta integra nella sua originalità e non assoggettata a furti e razzie, questa sala mostra come i proprietari della Villa avessero pensato il luogo in cui studiare ed esercitare il colto ozio dei secoli passati e in cui custodire le memorie archivistiche della famiglia. Questa sala, dunque, non costituiva solamente un luogo di cultura, ma rappresentava il cardine di un sapere, basato su atti formali e documenti notarili, che consentivano di tramandare ai posteri la status acquisito in decenni di lotte e contrattazioni. Era in questo luogo che si conservavano, ad esempio, i contratti di acquisto e acquisizione delle proprietà familiari o i patti siglati, più o meno segretamente, con gli altri nobili e dove erano custoditi i principali atti della storia familiare. Ovviamente alcuni di questi documenti erano conservati anche in altre proprietà familiari, ma il copioso archivio familiare acquisto dal Comune di Casalzuigno ne attesta quasi la sua "sacralità laica".Anche per queste ragioni la sala fu realizzata nelle maniere così imponenti che ancora oggi sorprendono i visitatori. Questa, inoltre, non ha subito grandi rimaneggiamenti successivi alla due fasi della sua costituzione, coincidenti con la fine del XVII secolo e il quarto decennio del Settecento.La recente catalogazione computerizzata del patrimonio della libreria ha consentito di valutare in 2519 i volumi a stampa esistenti, tra i quali emergono per valore culturale le edizioni del Cinquecento delle opere di Battista Guarino e di Petrarca, oltre all'edizione settecentesca dell'Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers scritta da numerosi uomini di cultura diretti da Denis Diderot, considerata anche una delle massime testimonianze dell'illuminismo europeo. row-srwq.vigk~b2cu Ritratto di Fattori nel suo studio Milano Piazza della Scala, 6 row-9yb5_mwii~xcth Ritratto di Laura da Pola Milano Via Brera, 28 row-7utz-h43a-q8xi Raccolte del Museo Valtellinese di Storia ed Arte (MVSA) Sondrio Via Maurizio Quadrio, 27 Gli oggetti che compongono le raccolte del Museo valtellinese di storia e arte (MVSA) provengono in buona parte dal territorio locale e ne descrivono l'ambiente storico e artistico in un ampio arco cronologico che va dalla preistoria all'epoca contemporanea. La sezione archeologica conserva stele incise, monete e materiali di scavo recuperati in provincia di Sondrio databili dall'età del Rame al Medioevo. La parte più antica della pinacoteca conserva invece un gruppo di affreschi staccati, tra i quali i più interessanti sono due rappresentazioni dello Opere di Misericordia, l'una datata 1383 e la seconda risalente al XV secolo. L'istituzione museale ospita anche una sezione del Museo Diocesano di Arte Sacra, costituita da una selezione di opere provenienti dalle parrocchie del territorio. Ne fanno parte tavole e tele di soggetto sacro, sculture lignee e oreficerie liturgiche, tutte datate tra il XVI e il XIX secolo, con l'eccezione di due interessanti croci processionali del XII secolo che arrivano dai piccoli centri di Bema e Ambria. Tra le testimonianze di scultura lignea vale la pena ricordare due belle statue cinquecentesche di S. Rocco e S. Lorenzo, opera della bottega dei fratelli De Donati, un'Annunciazione datata allo stesso secolo, e una Madonna ascritta alla produzione dell'intagliatore Giovan Battista Zotti (sec. XVIII), parte di un gruppo raffigurante la Pentecoste che comprende anche immagini a grandezza quasi naturale degli Apostoli, ora in attesa di restauro. Alcune oreficerie sacre e alcuni dipinti su tela sono di provenienza extra-provinciale e rientrano nel novero dei cosiddetti "tesori degli emigranti", dal momento che si tratta spesso di doni giunti in Valtellina grazie alla generosità dei valtellinesi che fin dal '400 presero ad emigrare dalla terra d'origine per cercare fortuna in città lontane come Venezia, Roma o Napoli. In altri casi, accanto a maestranze locali, in Valtellina furono chiamati ad operare artisti provenienti dalle zone limitrofe, ciò permise l'acquisizione di novità stilistiche elaborate in altri importanti centri di produzione artistica. La raccolta più cospicua e omogenea conservata presso il museo è il Fondo Ligari, composto da stampe, gessi, bozzetti, mobili, autografi e libri, oltre a vari quadri e materiali di lavoro provenienti dallo studio dei pittori Pietro, Cesare, Vittoria e Angelo Ligari, famiglia di artisti originari di Sondrio e attivi soprattutto nel Settecento. Il museo deve la sua prima origine ad un ristretto gruppo di studiosi che nel 1874 fondarono il Comitato Archeologico Provinciale che, seppure ebbe breve vita, si adoperò per raccogliere significative testimonianze della storia e della cultura locale (monete, reperti litici e metallici) che rifluirono, per mancanza di spazi adeguati, nei locali della civica biblioteca. Facevano parte del Comitato figure di spicco della cultura valtellinese, tra i quali il pittore Antonio Caimi e il conte Luigi Torelli. Con il ripristino di Palazzo Pretorio negli anni 1915-17 si compose un abbozzo di museo, collocando nel cortile del palazzo e nella sala consiliare i pezzi più ragguardevoli, unitamente ad alcune nuove acquisizioni provenienti da edifici di Sondrio. Nel 1922 Francesco Sassi de' Lavizzari donò al Comune di Sondrio il palazzo di famiglia - attuale sede del museo - insieme a dipinti, mobili antichi e stemmi. A questi si aggiunsero in una seconda fase i ritratti che facevano parte dell'eredità della moglie Camilla Pratolongo Paravicini. Fondamentale è nel 1935 la donazione da parte degli eredi di Giuseppe Gianoli di numerosi disegni dei pittori Ligari di Sondrio, noti artisti del Settecento lombardo. Questi materiali andarono a costituire il primo nucleo della collezione ligariana, progressivamente incrementata nel corso degli anni, che attualmente comprende circa 800 fogli tra incisioni, disegni e bozzetti a olio, oltre a libri mastri, lettere e inventari che vanno ad aggiungersi agli strumenti di bottega e ai quadri. Nel 1963 fu istituita presso il museo una sezione del Museo Diocesano di Arte Sacra, che portò dipinti su tela e su tavola, oggetti liturgici, sculture lignee, provenienti da numerose parrocchie valtellinesi, con la finalità di preservarle dal pericolo di furti, purtroppo in quegli anni molto frequenti, e di renderle visibili a un vasto pubblico. Recente è invece l'acquisizione di un fondo eterogeneo donato da un collezionista privato che comprende, tra le altre cose, un gruppo di icone russe, una piccola raccolta di bronzi dell'estremo Oriente e porcellane antiche. row-yhnj_ds89~zctt Camerino di Orfeo Mantova Piazza Sordello, 40 Il nome dell'ambiente deriva dalla decorazione delle pareti e del soffitto in quanto, tra scomparti decorati a grottesche, si distinguono quattro pannelli in stucco dove è narrato il mito di Orfeo ed il soffitto presenta un ottagono affrescato con Euridice inseguita da Aristeo. Sullo fondo scuro si stagliano le raffinatissime figure di: Orfeo che ammansisce gli animali col suono della lira, Orfeo e le Eliadi piangono la morte di Euridice, Orfeo nell'Ade suona la lira agli dei inferi, Orfeo straziato dalle Baccanti. Oltre alle grottesche, stemmi e girali creano un'elegante cornice. Il Camerino di Orfeo è ricavato all'interno della palazzina della Rustica, costruita da Giulio Romano dopo il 1536 di fronte alle stanze di Federico II Gonzaga. Sotto la guida artistica di Giulio Romano, nei sogni del principe, Mantova sarebbe dovuta diventare una nuova Roma e, di conseguenza, uno dei centri propulsivi della maniera moderna. La fabbrica della Rustica proseguì anche durante il breve ducato di Francesco III e poté dirsi conclusa solo nel 1561. Gli interni decorati a stucchi e pitture sono attribuiti a Fermo Ghisoni, Lorenzo Costa il Giovane e ad altri artisti mantovani diretti da Giovanni Battista Bertani, autore delle invenzioni. row-f3tc-fgie-s54y Polittico delle Grazie Milano Via Brera, 28 row-bari.r8d3~xrp2 Concetto Spaziale Gallarate Via De Magri, 1 L'opera, di taglio rettangolare, è disposta orizzontalmente e sulla tela bianca presenta il disegno di una gabbia realizzata con un sottile tratto di matita, dentro la quale l'artista crea una fitta trama di buchi disposti lungo linee parallele e curve, come le pagine di un libro aperto o le ali di una farfalla dischiuse nel volo. Alcuni buchi sono realizzati dall'interno all'esterno, mentre altri sono stati creati dall'esterno all'interno. Originale composizione concettuale, quest'opera di Fontana si basa su una forma abbastanza regolare dei fori, caratterizzati da dimensioni piuttosto piccole. Quest'opera di Fontana costituisce un significativo esempio del superamento attuato dall'artista dei limiti posti dalla materia pittorica e si rappresenta una delle numerose variazioni che egli presenta con il medesimo titolo. Come per gli altri "concetti spaziali", anche quest'opera sul retro reca una scritta invisibile allo spettatore. Fontana, infatti, era solito scrivere alcune parole tratte dal suo immaginario che poteva presentare con accezioni di frase poetica, concetto ironico o evocativa immagine surreale. In questo caso l'autore scrive: "È venuta Margherita e mi ha portato una margherita", connotando l'opera nella serie con affermazioni surreali. L'osservatore che provi a sostare per alcuni minuti davanti a quest'opera di non immediata comprensione, è forse facilitato dalle parole del suo creatore, chje era solito dire: "la scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l'infinito: allora io buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita, una x che per me è alla base di tutta l'arte contemporanea".Il dipinto fu eseguito dall'artista nell'ultimo periodo della usa vita, conclusasi nel 1968, e appartiene agli anni della sua maturità artistica, dopo, cioè, che aveva redatto il Manifesto Blanco e il manifesto dello spazialismo. row-u9tt~53qj~8yb6 Madonna del padiglione Milano Piazza Pio XI, 2 row-y3py-giax~txjf Collezione del Museo degli Strumenti Musicali Milano Piazza Castello Il Museo degli Strumenti Musicali comprende oltre novecento pezzi. L'importante collezione è costituita da strumenti ad arco, a pizzico, a fiato, a tastiera, dal secolo XVI alla seconda metà del Novecento. Tra i pezzi storicamente più rilevanti si segnalano: un doppio virginale dei primi del XVII secolo realizzato da un membro della famiglia Ruckers, i più rinomati costruttori di strumenti a tastiera di Anversa; la viola Grancino del 1662, uno dei rari strumenti ad arco di età barocca che conserva il manico originale; la chitarra Mango Longo del 1624, con decorazioni di raffinata esecuzione; lo splendido oboe in avorio di Anciuti del 1722 in perfetto stato di conservazione; due corni viennesi del 1712 che costituiscono la più antica coppia di corni da orchestra conservati al mondo. Il Museo degli Strumenti Musicali nasce nel 1957, quando il Comune di Milano formalizza l'acquisto di duecentosettanta oggetti della collezione di Natale Gallini (1891-1953). Fin dai primi del Novecento il maestro cremasco colleziona strumenti musicali generalmente collegati alle manifatture lombarde. All'acquisizione Gallini si aggiungono altri nuclei in possesso dell'Amministrazione Comunale. La Raccolta viene allestita in un primo tempo a Palazzo Morando, in via Sant'Andrea, sede dal 1959, del Museo di Milano. L'acquisto di altri centocinquanta pezzi della collezione Gallini nel 1961, e la conseguente esigenza di nuovi spazi espositivi portano al trasferimento della Collezione nel Castello Sforzesco. Il Castello, con la Cappella Ducale edificata nel 1473, pare la sede più adatta ad ospitare una raccolta tra le più importanti d'Italia. Nel 1997 viene pubblicato il catalogo scientifico della collezione degli strumenti pertinenti all'orchestra occidentale e, nel 2000, vengono donati dalla Fondazione De Musica circa 80 strumenti raccolti e fabbricati dalla famiglia di liutai milanesi Monzino, tra il XVII e il XX secolo. Nel 2008 la RAI ha concede in deposito ventennale le apparecchiature dello studio di fonologia, sulle quali negli anni Cinquanta è nata la musica elettronica. row-e423-xbsu-q8tp Desenzano del Garda Via Tommaso Dal Molin 7/c Come tutti gli aratri, anche quello del Lavagnone si compone di tre elementi: il ceppo-vomere, ovvero il corpo lavorante; la bure, cioè la parte che permette di attaccare lo strumento al giogo, e la stegola, una sorta di timone che consente di guidare direzione e profondità dei solchi. La varietà della forma di queste tre parti e il diverso modo in cui sono connesse tra loro, determinano il tipo di aratro. L'esemplare in esame appartiene al tipo detto "di Trittolemo", con bure e ceppo-vomere in un unico pezzo, ricavato dalla biforcazione di un ramo di quercia, e stegola lavorata a parte inserita a incastro nel ceppo. Il vomere vero e proprio, che non è stato ritrovato, era anch'esso di legno e veniva inserito in una leggera scanalatura praticata sulla faccia inferiore del ceppo e tenuto in sede da una serie di legacci. Anche il giogo è un reperto eccezionale, essendo uno dei più antichi finora scoperti. Lavorato con particolare cura ed eleganza, è costituito da una barra cilindrica di legno di faggio, che si inarca ai lati per aderire al garrese dei buoi e termina alle due estremità con un grosso pomello modanato. Il giogo era agganciato alla stanga per mezzo di legacci fissati ai tre denti presenti al centro della barra, mentre corregge di cuoio, passanti attraverso i fori rettangolari praticati lungo i lati, legavano l'animale al giogo. Un frammento di giogo analogo è stato rinvenuto a Fiavé, nelle Giudicarie trentine, nell'abitato palafitticolo risalente all'inizio della media età del Bronzo. L'aratro rappresenta il reperto più straordinario conservato presso il Museo Archeologico di Desenzano. Rinvenuto nel 1978 tra i pali della palafitta del Lavagnone, appartenente alla fase più antica della cultura di Polada (Bronzo Antico iniziale - circa 2100-1980 a.C.). Insieme con quello di Walle, nella Bassa Sassonia, è ad oggi l'aratro più antico e integro conservatosi fino ad oggi: gli aratri preistorici e quelli delle civiltà più antiche, infatti, essendo costruiti interamente in legno, hanno potuto conservarsi soltanto in depositi archeologici con condizioni anaerobiche, quali le torbiere (come appunto quella del Lavagnone).Insieme con l'aratro gli scavi hanno restituito due stegole di ricambio e metà del giogo: i primi due in legno di quercia e il giogo in legno di faggio. In seguito al ritrovamento, i reperti sono stati restaurati presso il Römisch-Germanisches Zentralmuseum di Mainz. Nel 2013 l'aratro è stato sottoposto a un nuovo intervento di restauro da parte del laboratorio di restauro della Soprintendenza Archeologica della Lombardia. In questa occasione è stato realizzato anche un nuovo supporto per l'esposizione. row-8gjc_faip~hzus Riposo durante la Fuga in Egitto Milano Via Manzoni, 12 row-mwxb_in8b~wvya Gesù Cristo benedicente in trono fra due angeli e i santi Gervasio e Protasio Milano Piazza Sant'Ambrogio Il mosaico che occupa la semicalotta absidale della basilica di Sant'Ambrogio raffigura su fondo oro l'immagine di Cristo in trono, circondato dai Santi Gervasio e Protasio. Entrambi i santi reggono nella mano sinistra una croce, ma mentre Gervasio indossa una corona sulla testa e tiene il palmo della mano destra rivolto verso l'osservatore, Protasio è raffigurato con il capo scoperto, e tiene la mano stretta al petto.Sotto il basamento del trono sono rappresentati all'interno di tre tondi dorati i volti di San Satiro, che regge tra le mani un tabernacolo, Santa Marcellina, in atteggiamento benedicente, e Santa Candida, che apre le mani in gesto orante. Entrambe le sante indossano un manto scuro che, nel caso di Santa Candida le copre anche il capo, mentre Santa Marcellina ha un velo bianco che le avvolge la testa. Dalla semplice iconografia le tre figure sono identificabili grazie alle corrispondenti iscrizioni collocate al loro fianco.Ai lati del trono due angeli volano nel cielo dorato recando delle corone. L'Arcangelo Michele, sulla sinistra, sembra voler poggiare la corona sulla testa di San Protasio, mentre l'Arcangelo Gabriele pare rivolgersi direttamente a Gesù, recandogli l'oggetto poggiato su una stoffa.Ai lati della composizione sono raffigurati due momenti di un unico episodio, noto attraverso Gregorio di Tours e il racconto agiografico "De meritis Ambrosii" di età carolingia (866-881 ca.). A sinistra, Sant'Ambrogio appare alle esequie di San Martino di Tours, che viene raffigurato disteso in una tomba, dietro la quale si posizionano due personaggi recanti una candela e un crocifisso. Di fianco alla scena, sotto una cappella a cupola, è raffigurato nuovamente il sarcofago di Martino, sormontato da un ciborio.A destra, Sant'Ambrogio è invece rappresentato in piedi di fianco all'altare, con la guancia sulla mano destra, colto da un sonno improvviso. Un diacono alle sue spalle cerca di svegliarlo indicandogli un lettore che, in piedi sull'ambone con il libro aperto davanti, sta attendendo un suo cenno per iniziare. Le due scene, che evidenziano il legamo spirituale tra Ambrogio e Martino di Tours, in realtà si svolgono in contemporanea e sono ambientate all'interno di elaborate architetture, inquadrate ciascuna da una coppia di palme decorate da nastri. Il mosaico absidale della basilica di Sant'Ambrogio è, nella sua forma attuale, il risultato di un lungo processo storico stratificazione, rifacimenti e alterazioni. Esso fu concepito probabilmente in epoca ambrosiana (IV-V secolo), ma già in epoca carolingia fu modificato. Al IX secolo infatti, sono da ricondurre alcuni dettagli delle architetture presenti negli episodi laterali, che evidenziano il legame spirituale tra Ambrogio e Martino di Tours. La costruzione sulla destra potrebbe rappresentare l'antica basilica Porziana, nonostante la sua identificazione sia ancora controversa. La critica ha infatti suggerito anche un riscontro tra essa e la basilica di San Lorenzo. Inoltre, dato il grande numero di dettagli che interessano la chiesa conventuale di San Martino, qui rappresentata in sezione, è probabile che tali fossero le notizie che si possedevano all'epoca a Milano circa la chiesa francese.Danneggiato tra il 1190 e il 1198 da una serie di dissesti statici che interessarono l'intero edificio, il mosaico fu parzialmente ricostruito presumibilmente all'inizio del Duecento, il che motiverebbe in esso la presenza di alcuni elementi stilistici tipicamente legati alla pittura toscana del XIII secolo, quali ad esempio la particolare forma del trono e la presenza di Santa Candida, il cui culto iniziò a diffondersi non prima dell'XI secolo. La figura di San Satiro dev'essere stata invece ricostruita nel Trecento, per via della presenza dell'ostensorio: una volta diventato suo attributo caratteristico e costante, è probabile che il ritratto a mosaico sia stato modificato per aggiungere l'oggetto fra le mani del santo.Nel corso dell'Ottocento il mosaico subì un pesante restauro che, purtroppo, comportò la rimozione delle teste di San Martino, Sant'Ambrogio e, probabilmente, anche di San Gervasio e San Protasio, i cui frammenti furono successivamente dispersi tra musei e collezioni privati. In occasione di tale intervento venne completamente rifatta anche la fascia presente nella parte inferiore della decorazione, con iscrizioni in nero su fondo oro alternati a pannelli decorativi.Nel 1943, infine, durante i bombardamenti di Milano, l'abside venne pesantemente colpita con la perdita di un'ampia zona, comprendente l'angelo in volo posto sulla sinistra, tutta la figura di Cristo e parte del trono. Dopo la guerra il mosaico fu ricostruito rispettando l'iconografia precedente e mantenendo alcuni elementi d'origine, attualmente riconoscibili poiché separati dai rifacimenti da una sottile linea rossa.Se da un lato la continua manomissione delle figure e delle scene rappresentate nel mosaico non permette una chiara identificazione dell'originale e primitivo aspetto della decorazione musiva, è pur vero che lo studio e il continuo confronto dei lacerti dispersi con quanto rimasto in loco, ha portato la critica a indagare su interessanti quesiti riguardanti l'iconografia di Sant'Ambrogio all'interno della sua stessa basilica. Nei frammenti originali di mosaico, infatti, il volto di Sant'Ambrogio appare diverso rispetto all'iconografia tradizionale presente nel sacello di San Vittore in ciel d'Oro e nell'altare d'oro di Volvinio, caratterizzandosi con tratti somatici simili a quelli dell'apostolo Pietro. Questo fenomeno può essere letto come un gesto di sfida nei confronti di Roma da parte dell'arcivescovo di Milano Ansperto (868-881), il quale fu deposto e scomunicato dopo un violento conflitto con papa Giovanni VIII. In questo contesto l'immagine dell'abside milanese diventa esplicativa di un manifesto programma politico, in cui Ambrogio doveva essere percepito come un "alter Petrus" e, dunque, rendere legittima la posizione della chiesa ambrosiana, senza che questa si sottomettesse a Roma. row-yke9-xuyr~82g2 Storie della nascita e giovinezza di Maria Vergine Pavia Via Severino Boezio, 27 La prima basilica cristiana edificata a Pavia, dal primo vescovo cittadino S. Siro, qui sepolto e poi traslato in Duomo, conserva sulle pareti e nella volta della cappella Giorgi, uno straordinario e vivace partito decorativo ad affresco con episodi della vita di Maria. La curiosità di questo ciclo pittorico risiede nel fatto che se ne erano perse completamente le tracce: non menzionato dalle fonti antiche e coperto da un pesante strato di intonaco verso la fine del Settecento, verrà riscoperto casualmente solo nel 2006 per una scrostatura accidentale della tinteggiatura e riportato alla luce tramite un complesso intervento di restauro.Lungo la base della volta corre una fascia decorativa con iscrizione che rivela l'originaria dedicazione del sacello alla Vergine delle Grazie e della Consolazione.Nella volta a botte sono affrescate, al centro entro una medaglia ovale, la "Nascita della Vergine" e alle basi, a sinistra, la "Presentazione della Vergine al tempio" e a destra lo "Sposalizio della Vergine". Sulle pareti est e ovest i due episodi, entro riquadrature architettoniche a trompe l'oeil, della "Adorazione dei pastori" e della "Adorazione dei magi", mentre sulla parete di fondo campeggiano a sinistra "S. Giovanni Evangelista" e a destra "S. Antonio Abate" entro finte nicchie marmoree a rilievo. Non è dato sapere la data di esecuzione, nè il nome dell'autore del partito decorativo con temi mariani, caratterizzato da una vivace cromia e da un effetto di monumentalità, che appare stilisticamente affine a pitture pavesi coeve, ascrivibili ad un periodo compreso tra fine Cinquecento e inizi Seicento. Raffronti stilistici portano la studiosa Giordano ad assegnare il ciclo pittorico tardo manierista, a tre distinte mani, distinguendo i personaggi della medaglia centrale da quelli nelle basi della volta e da quelli sulle pareti; quest'ultimi, che sono i più danneggiati, denunciano tuttavia una notevole qualità pittorica riscontrabile in particolar modo nel muso del cavallo e nelle teste della Vergine e di Giuseppe.Il sacello viene fatto costruire nel 1591, come cappella funeraria di famiglia, dal nobile pavese Marco Antonio Giorgi che ottiene l'autorizzazione dai frati del Terz'Ordine francescano che officiano la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio dal 1542. All'inizio del Settecento la cappella viene dedicata a S. Giovanni, successivamente a S. Giuseppe e solo dal 1875, a seguito del ritrovamento da parte di don Cesare Prelini di un sarcofago identificato come prima sepoltura di S. Siro, intitolata al patrono di Pavia. Nel sacello vengono quindi raccolti tutti i cimeli conservati nella chiesa legati alla figura del primo vescovo di Pavia, considerati i manufatti più preziosi della basilica: l'avello di con inciso il nome del Santo, l'altorilievo policromo del Santo vescovo e il cippo esagonale lipsanoforo, cioè contenitore di reliquie. row-6yay~8ns8~s7zw Appartamento della Giardino Segreto Mantova Viale Te, 13 Nell'Appartamento del Giardino Segreto il visitatore s'immerge in un luogo silenzioso e riservato, più contenuto rispetto agli altri ambienti del palazzo. Si accede all'appartamento attraverso un vestibolo che collega la Camera di Attilio Regolo alla Loggia. Nella Camera - caratterizzata dalla celebrazione dell'eroe romano e delle imprese di Orazio Coclite, Alessandro Magno e Zeleuco - gli esempi di virtù romana e greca, di ardimento, di fedeltà alla parola data, di giustizia e di magnanimità proponevano la famiglia Gonzaga come erede della tradizione classica romana. L'ottagono centrale mostra l'Allegoria delle virtù del Principe: la promozione della guerra, della pace, delle scienze e delle arti. Completano poi la decorazione del soffitto le quattro personificazioni della Giustizia Carità, Fortezza, Prudenza. Il Vestibolo a pianta ottagonale presenta una volta decorata a finissime grottesche. Il pavimento è un mosaico figurato di ciottoli di fiume multicolori che mascherano piccole bocchette di piombo utilizzate in origine per spruzzare il visitatore, come scherzo d'acqua. La Loggia si affaccia su Giardino Segreto ed è costituita da una volta a botte sorretta da due colonne e da una parete cieca affrescata. Sulle pareti prevale una decorazione a grottesche su fondo bianco e quadretti dionisiaci. Sulla volta e sulle lunette si sviluppano invece le scene di una storia sull'esistenza umana. L'allegoria ha infatti inizio con la nascita, all'alba, di un bambino in presenza di due geni alati e termina con l'ingresso in Paradiso di una figura maschile sollevata da angeli. L'architrave della Loggia reca lo stucco della sepoltura di un cane. Le alte testate, che chiudono il Giardino Segreto, sono divise in due zone. La parte inferiore era decorata con sfondati paesaggistici, mentre nel registro superiore si trovano rappresentate, una dipinta e l'altra in rilievo, le favole di Esopo. Lo sfondato prospettico della testata nord è interrotto dall'ingresso alla Grotta. L'originale portale naturalistico, preceduto da due fontane, è composto da concrezioni calcaree, stalattiti e conchiglie. Lungo le pareti si alternano nicchie e lesene, i cui fusti erano ornati con conchiglie madreperlate. La sommità del soffitto è aperta da un occhio ovale, forse un pozzo di luce che creava riflessioni sulla madreperla delle conchiglie. Mancano documenti su questa decorazione, ma si ha ragione di ritenere che i lavori all'appartamento siano collocabili entro il terzo decennio del Cinquecento. Si pensa che la scelta di rappresentare le favole di Esopo, lungo le pareti che chiudono il Giardino Segreto, sia da attribuire alla volontà di onorare una cagnolina del marchese Federico II morta di parto. La presenza della Grotta non appartiene al progetto di Giulio Romano; l'ambiente, voluto da Vincenzo Gonzaga, è stato realizzato a partire dal 1595. row-85pq_i6hg.qrmm Trasfigurazione con Sant'Elena, San Nicola da Bari, San Francesco e Santo martire Lodi Piazza Ospitale La cappella Bononi ripropone architettonicamente la struttura di un ottavo dell'Incoronata di Lodi: stessa strombatura, coperta da una volta a botte a rosoncini e teste in terracotta sporgenti dai tondi. L'architrave è decorato con un fregio di putti e animali, spesso fantastici, riprendendo la decorazione dell'Incoronata. Da questo modello si discosta nelle paraste dipinte di blu e oro con nastri, strumenti musicali e animali che si avvicinano a quelle che Giulio Campi dipinge per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Soncino con affreschi anche del Carminati. Sugli intradossi vi sono quattro santi ad affresco: a sinistra Sant'Elena con la croce e San Francesco; a destra San Nicola da Bari e un Santo martire; al centro la pala con la Trasfigurazione, dipinta a tempera su tela. L'intervento nella chiesa di S. Francesco di Francesco Carminati detto Soncino dovrebbe collocarsi attorno agli anni Trenta del Cinquecento, con la cappella Bononi posta nel transetto destro. Nell'iscrizione posta sulla cornice marcapiano compare la problematica data "1586", problematica poichè all'epoca il Soncino è già defunto e forse spiegabile come manomissione di una iscrizione precedente abrasa. Stilisticamente le figure nei dipinti murali richiamano nelle forme ampie e nella fissità degli sguardi, gli affreschi di S. Maria delle Grazie, sempre da lui realizzati, così come le torsioni manieriste degli apostoli Giacomo, Giovanni e Pietro. La tela centrale con la Trasfigurazione mostra una maggior pienezza e una scansione dello spazio mediante gesti ampi e solenni, con ricercati effetti luministici della miglior tradizione bresciana, qui espressi nella mandorla con Cristo intrisa di luce formata da volti di putti o svelati dal controluce. L'invenzione pittorica con quattro affreschi e una tela centrale sembra anticipare la cappella Simonetta in S. Maurizio al Monastero Maggiore di Milano dipinta nel 1555 da lodigiano Callisto Piazza e suo figlio Fulvio. row-274s_247y-mqpg Camera di Psiche Mantova Viale Te, 13 La Camera di Psiche è l'ambiente più sontuoso del palazzo. Il nome è dato dalla storia di Amore e Psiche, tratta dalle Metamorfosi di Apuleio, narrata sulla volta e nelle lunette. In uno dei più famosi cicli pittrici del Te, Giulio Romano illustra il racconto dello scrittore latino attraverso ventidue episodi. Psiche è una principessa che, a causa della sua straordinaria bellezza, suscita l'invidia di Venere. La dea decide di darla in sposa ad un mostro ma l'oracolo, che sembra ordinare queste nozze, nasconde in realtà Cupido, innamoratosi della fanciulla. Mentre Psiche attende il proprio destino sulla sommità di un monte, viene trasportata da Zefiro in una valle fiorita dove si addormenta. Al risveglio si ritrova in un lussuoso palazzo. Durante la notte si presenta, nascosto dalle tenebre, il padrone della villa, lo sposo promesso che ammonisce Psiche a non cedere alla tentazione di volerlo vedere, così facendo infatti lo perderebbe per sempre. Psiche riceve le due sorelle a palazzo e queste, invidiose, insinuano dubbi sulla natura dello sposo. Così Psiche, vinta dalla curiosità, aspetta che Amore si addormenti e, munita di coltello, accende una lampada. Può finalmente ammirare il bellissimo dio ma, chinatasi per baciarlo, fa cadere una goccia di olio bollente sulla sua spalla. Amore si sveglia ed abbandona Psiche sentendosi tradito. Venere, adirata, rimprovera duramente il figlio ma incontra Cerere e Giunone che tentano di minimizzare l'accaduto. Psiche, nel suo peregrinare alla ricerca dello sposo perduto, giunge ad un tempio dedicato a Cerere e chiede aiuto alla dea. Quest'ultima respinge le sue preghiere per non contrariare Venere. Psiche supplica inutilmente anche Giunone. Nel frattempo Venere chiede al padre Giove la collaborazione di Mercurio, per poter annunciare a tutti i mortali che, chi scoprirà la fuggiasca riceverà come ricompensa un bacio dalla dea. Abitudine trascina Psiche al cospetto di Venere che la affida alle sferze di Affanno e all'ancella Tristezza. Per riconquistare Amore la fanciulla dovrà affrontare quattro prove: distinguere diverse specie di semi confuse in un grande mucchio - viene aiutata dalle formiche; cogliere un fiocco di lana dal vello lucente di alcune pecore - una canna le suggerisce come riuscire nell'impresa; attingere acqua dallo Stige infernale - trova l'aiuto dell'aquila di Giove; portare un vasetto contenente la bellezza di Proserpina, signora dell'Averno - una torre le insegna come placare i latrati di Cerbero e farsi traghettare da Caronte. La curiosità ancora una volta spinge Psiche a disubbidire agli ordini. La fanciulla infatti, nonostante il divieto di Proserpina, apre l'ampolla da cui esala un sonno infernale. Amore ritrova Psiche addormentata sulla soglia dell'Ade e la sveglia pungendola con una delle sue frecce. Giove decide di legittimare con le nozze la loro unione e di rendere immortale la sposa. Nel riquadro centrale del soffitto è ben visibile quest'ultimo episodio realizzato con uno scorcio audace. La successione labirintica degli episodi della favola di Amore e Psiche è stata interpretata come metafora di un percorso che attraverso insidie e prove iniziatiche permette di raggiungere la visione divina: il matrimonio celebrato da Zeus al centro della volta. Nella parete occidentale e in quella meridionale è rappresentato un banchetto al quale partecipano Amore e Psiche sdraiati su di un letto dorato. Tra gli invitati si riconoscono: Vulcano, che parla gesticolando con una donna anziana, Apollo seduto e mantellato d'azzurro, Dioniso nudo e coronato d'edera, il pingue Sileno. Amore e Psiche stringono tra le braccia la figlia Voluttà, Cerere versa acqua, simbolo di fecondità, sulla mano di Amore. A terra è accucciato un cane, simbolo di fedeltà. Di fronte al convito divino, sulla parete nord, sono stati rappresentati gli amori degli dei: Marte e Venere al bagno, Bacco e Arianna, Marte trattenuto da Venere mentre Adone scappa. La parete est è invece dedicata agli amori bestiali: Zeus seduce Olimpiade, futura madre di Alessandro Magno, presentandosi sotto l'aspetto di un serpente; Polifemo innamorato di Galatea la sorprende con Aci sulla riva del mare; Dedalo invita Pasifae ad entrare in una falsa vacca in modo da potersi congiungere con un toro, dall'unione nascerà poi il Minotauro. Nell'iconografia dell'intera sala è stata vista una celebrazione pagana degli amori del marchese, un'allegoria del rapporto, contrastato da Isabella d'Este, tra Federico II ed Isabella Boschetti. La sala era destinata ad accogliere conviti principeschi animati da intermezzi recitativi, danze coreografiche, azioni mimiche. Qui banchettò anche l'imperatore Carlo V. Corre, su fondo dorato lungo le pareti della stanza, un'iscrizione che dichiara il desiderio di Federico II di trovare, sull'isola del Te, quell'onesto ozio che lo ritemprasse dopo le fatiche del lavoro: FEDERICUS GONZAGA II MAR(chio) V S(anctae) R(omanae) E(cclessiae) ET REIP(ublichae) FLOR(entinae) CAPITANEUS GENERALIS HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRT(utem) QUIETI CONSTRVI MANDAVIT. Giulio Romano intervenne direttamente su buona parte della decorazione. I pagamenti, che vanno dal 1527 al 1528, nominano anche gli aiuti: Gianfrancesco Penni, Benedetto Pagni, Rinaldo Mantovano, Luca da Faenza e Fermo da Caravaggio. row-6q4y~anxe~4yps Soncino Via Lanfranco, 8 Su una struttura portante a forma ovale poggiante su un sostegno a quattro piedi a forma di zampa leonina, vi è un carrello a due binari mobile in senso orizzontale azionabile mediante una manovella girevole dalla maniglia lignea tornita, collegata a una striscia di nylon. Il carrello, sostenuto da un cilindro metallico poggiante a terra, è completo di porta-forma, detto fraschetta, per inserire le matrici con i caratteri da stampa. Assicurata alla struttura portante e posta sopra il carrello vi è la platina che si abbassa mediante una leva per esercitare pressione sul foglio di carta. Ad essa è collegato un contrappeso a forma di zucca. L'oggetto, prodotto nel 1861 dalla Ditta Amos Dell'Orto di Monza, serviva per esercitare una pressione verticale omogenea per stampare utilizzando composizioni di caratteri tipografici. Mantenendo la platina sollevata grazie al contrappeso, si inserivano i caratteri nel porta-forma e si inchiostravano a rullo. Quindi si inseriva il foglio sul carrello. Agendo sulla leva, la platina si abbassava sulla forma, esercitava pressione ottenendo così la stampa dei caratteri sul foglio. Il contrappeso facilitava poi l'innalzamento della platina. Il torchio è un modello Stanhope. L'inglese Lord Charles Stanhope (1753-1816) fu l'inventore, agli inizi dell'Ottocento, del primo torchio tipografico in ghisa. La caratteristica più importante del torchio Stanhope risiedeva nel sistema di leve multiple tra barra e vite, che andò a sostituire la semplice vite usata nei vecchi torchi in legno. Questa sistema di leve moltiplicava la pressione esercitata e la trasmetteva ad una platina più grande che consentiva la stampa di una forma intera con un unico tiro di leva. La presenza del contrappeso, inoltre, aiutava ad alzare la platina e a tenerla sollevata. Coerente con le sue convinzioni, Lord Stanhope considerava il suo torchio uno strumento per la libertà di stampa e pertanto non lo brevettò. La pressione eseguita dal meccanismo era tale che si poteva stampare un foglio di dimensioni doppie rispetto ai torchi in legno. Lo Stanhope fu costruito da molti produttori in Francia, Germania, Svezia e Italia. La ditta Amos Dell'Orto fu un'officina italiana costruttrice di macchine tipografiche, operante a Monza nell'Ottocento. Il torchio modello Sthanhope di Amos dell'Orto fu premiato nel 1839 con medaglia d'argento. row-bgbd.n6pd.mren Asta Milano Piazza Duomo row-eris-25ap~yqy4 Laveno-Mombello Lungolago Perabò, 5 Tra le opere più intriganti conservate presso il Museo Internazionale Design Ceramico (MIDeC) di Laveno-Mombello vi è certamente il Servizio reale che parrebbe creato appositamente per la Casa Savoia. Si tratta un servizio da tavola, oggi composto da novantadue elementi, tra i quali otto piatti, una salsiera, una zuppiera, cinque porta uova e un piatto da portata attualmente non in esposizione. Il servizio dal tipico gusto ottocentesco mostra una decorazione molto semplice contrassegnato da elementi essenziali, sobri e sole tre tonalità cromatiche: bianco, blu e oro. Su fondo bianco avorio della ceramica (terraglia forte smaltata) si stagliano monocrome campiture lineari in azzurro cobalto detto bleu de roi, noto come blu sèvres dal nome della Manufacture nationale de Sèvres che lo inventò in Francia. In queste fasce, concluse con un piccolo elemento in oro, sono inserite stilizzate decorazioni raffiguranti la corona del Regno d'Italia in policromia e oro.Sul fondo esterno il servizio presenta anche il marchio di fabbrica, un'aquila ad ali spiegate che regge cartigli con l'iscrizione in verde "VERBANUM STONE/SCI/LAVENO", che permette di datare con precisione il servizio al 1923. Il servizio reale esposto nelle sale del piano superiore del Museo Internazionale Design Ceramico (MIDeC) di Laveno-Mombello era proprietà della famiglia Scotti Meregalli di Laveno e si compone di ben novantadue elementi, tutti realizzati in terraglia forte smaltata. Il servizio, dunque, è oggi costituito da un'alzata, un coperchio, un'insalatiera, undici piatti da frutta, undici piatti da portata, sette piatti fondi, quarantotto piatti piani, sei portauovo, tre salsiere, un vassoio e due zuppiere. Il servizio non fu messo in produzione seriale ed è dunque unico e dipinto a mano. Questo fu certamente realizzato nel 1923 e venne esposto alla prima Mostra Internazionale di Arti Decorative svoltasi nella Villa Reale di Monza. Le cronache attestano che il giorno dell'inaugurazione il servizio è stato offerto dalla Società Ceramiche Italiane (SCI) al Principe ereditario. row-4tr5~e9bd.md2d Collezioni del Museo Archeologico di Milano Milano Corso Magenta, 15 Il Museo Archeologico di Milano è articolato nelle sezioni romana, di Cesarea Marittima, arte del Gandhara, etrusca, altomedioevale, greca, della preistoria e protostoria, egizia. La sezione romana conserva un ricchissimo patrimonio di materiali riferibili alla storia della città di Milano, dalle origini dell'insediamento nel V. secolo a. C., fino al declino nel V secolo d. C., oltre ai resti di una "domus" romana del I secolo d. C e le mura romane del III-IV secolo d. C, con una torre poligonale, conservata in lazato fino al tetto. Nel percorso museale è compresa anche una seconda torre, quadrata, che affaccia su via Luini, appartenente ai "carceres", luogo da cui partivano le corse dei cavalli del Circo tardoromano, riutilizzata come campanile della chiesa monastica intorno all'VIII-IX secolo, quando venne aggiunta una loggia colonnata a coronamento della struttura. Vastissimo è il patrimonio di epigrafi, rinvenute a Milano, databili tra il I secolo a. C. e il II secolo d.C. La sezione di Cesarea Marittina raccoglie un nucleo di reperti, databili tra il VI e VII secolo d.C., provenienti dagli scavi condotti nei primi anni sessanta del Novecento nella zona del teatro romano di Cesarea, in Israele. La collezione di arte del Gandhara, antico nome geografico indicante un'area corrispondente all'attuale Pakistan settentrionale e al nord-est dell'Afghanistan, comprende opere di grande pregio e consente una presentazione articolata e completa di questa produzione artistica grazie alla varietà del materiale e che copre tutto l'arco cronologico della produzione databile ai primi secoli d.C.. La collezione etrusca costituisce un importante patrimonio, utile alla ricostruzione di numerosi aspetti dello sviluppo storico e artistico di uno fra i più ricchi e potenti centri dell'Etruria, l'antica Caere; a questi materiali si sono aggiunti numerosi corredi funeari rinvenuti in occasione degli scavi condotti a Cerveteri. Le testimonianze della cultura materiale, con particolare attenzione al territorio della Lombardia nel VI e VII secolo, costituiscono la sezione altomedievale. Un vasto patrimonio di antichità greche, in particolare di ceramiche, è presente nelle collezioni del Museo; ad esso si è aggiunto il deposito da parte della Regione Lombardia della Collezione Lagioia, ceramica magnogreca proveniente da Ruvo di Puglia, e, da parte dello Soprintendenza Archeologica della Lombardia, di altri reperti. Le collezioni preistoriche e protostoriche comprendono prevalentemente materiali provenienti dall'Italia settentrionale e descrivono, senza soluzione di continuità, la storia del territorio negli ultimi 5000 anni prima di Cristo. La collezione egizia offre significative testimonianze sulle usanze funerarie e sulla vita quotidiana dell'antico Egitto. Nel 1814 il primo nucleo della Collezione Archeologica, costituito da oltre cinquecento reperti, viene acquistato dall'Accademia di Brera. Gli oggetti confluiscono successivamente nel Regio Museo Patrio di Archeologia e poi nelle Raccolte d'Arte, conservate prima al Castello Sforesco, e, dal 1965, nell'attuale sede di corso Mangenta, nell'area dell'antico Monastero Maggiore di S. Maurizio. Le collezioni hanno continuato ad arricchirsi di reperti, provenienti da acquisizioni, depositi e donazioni. I reperti archeologici milanesi sono confluiti continuativamente, a partire dall'Ottocento, nel museo. I resti della domus distrutta da un incendio e caratterizzata da due distinte fasi edilizie di I e III secolo d.C., sono emersi a seguito di scavi archeologici effettuati nel 1961. La sezione di Cesarea Marittima proviene dagli scavi condotti, nei primi anni Sessanta del Novecento, nella zona del teatro romano di Cesarea, e donati dallo Stato di Israele, come premio, alla missione italiana patrocinata dall'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. La collezione di arte del Gandhara è stata acquisita dal Museo a partire dagli anni Settanta del Novecento. La collezione etrusca costituisce un importante patrimonio, utile alla ricostruzione di numerosi aspetti dello sviluppo storico e artistico di uno fra i più ricchi e potenti centri dell'Etruria: l'antica Caere. A questi si è aggiunta, nel 1975, la Collezione Lerici, composta da oltre centocinquanta corredi funerari provenienti dagli scavi condotti dalla Fondazione Lerici a Cerveteri. L'età longobarda è riccamente rappresentata dai rinvenimenti lombardi di Boffalora e Varedo e dai magnifici corredi provenienti dalle cinque tombe di alti dignitari, rinvenute casualmente a Trezzo sull'Adda nella metà degli anni Settanta. La collezione greca è di provenienza assai varia, ha origine perlopiù da raccolte storiche o acquisti e doni. Il primo nucleo della collezione egizia si era formato con una raccolta di oggetti riuniti, agli inizi dell'Ottocento, presso il Gabinetto Numismatico di Brera e con donazioni di benefattori, collezionisti e studiosi, tra i quali il celebre egittologo milanese Luigi Vassalli (1812-1887), che a lungo lavorò in Egitto collaborando soprattutto con il Museo del Cairo, di cui fu nominato direttore ad interim nel 1881. Le raccolte comprendono anche i reperti provenienti dagli scavi dell'Università di Milano, diretti da Achille Vogliano, negli anni 1930-40 nella regione egiziana del Fayum, e altre collezioni acquistate più recentemente dal museo stesso, come la collezione della Custodia di Terra Santa, un tempo ad Alessandria d'Egitto. row-q2sd_qmj6~wwwm Ritratto di Napoleone re d'Italia Milano Piazza Pio XI, 2 row-d5vm~7pvv_6wc2 Pavia Corso Strada Nuova, 65 Il vaso di Tantalo prezioso manufatto del Gabinetto di Fisica di Alessandro Volta, era conservato in particolare tra quegli apparati classificati dallo stesso fisico come giochi idrostatici. Immettendo acqua nel bicchiere di vetro mediante un cannello di portata minore di quella del tubo ricurvo presente al suo interno (sifone), risulta impossibile riempire del tutto il vaso. Infatti appena il livello dell'acqua copre del tutto il sifone, quest'ultimo entra in funzione facendo defluire l'acqua dal piede d'ottone fino a quando il livello dell'acqua non è sceso al di sotto dell'orifizio del sifone.Il vaso di Tantalo, consente quindi di effettuare un "gioco" abbastanza sorprendente perché risulta impossibile riempirlo. Prende il nome dal mitico figlio di Zeus, condannato per punizione a patire i tormenti della fame e della sete. Tantalo, legato ad un albero carico di frutti in mezzo ad un lago, quando tendeva la mano per tentare di coglierne i frutti questi si ritraevano e le acque del lago si allontanavano da lui quando si accingeva a bere. Molto spesso in dispositivi come questo il sifone è mascherato da una statuetta raffigurante proprio il mitico personaggio dal quale lo strumento prende il nome. row-b2ka_4ngw-ev53 Ritratto d'uomo Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Lo straordinario ritratto di Antonello da Messina raffigura un giovane gentiluomo, a mezzo busto, con il volto affilato ed espressivo, leggermente ruotato per dirigere lo sguardo verso l'osservatore. L'uomo indossa una vivace giubba rossa, con una foggia del collo anomala in Italia, ma usuale nella pittura provenzale, allo stesso modo l'alto copricapo nero a tronco di cono corrisponde alla moda in uso in area fiamminga nel 1460. Il ritratto affascina per il realismo nella resa dei particolari: il mezzo sorriso, le pieghe ai lati della bocca, le sopracciglia abbassate, la corta frangetta rada sulla fronte. Il giovane effigiato emerge da un fondo cupo, affacciandosi ad un basso parapetto, sul quale è dipinta un'iscrizione con la firma che simula di essere incisa, prassi inusuale per il pittore siciliano che solitamente la dipinge in un cartiglio (questa particolarità aveva portato alcuni studiosi a dubitare della sua autenticità). Gli ultimi restauri hanno restituito al dipinto una maggiore leggibilità, permettendo alla critica più recente di ascrivere l'opera sicuramente al maestro siciliano e a un periodo giovanile tra 1465-1470. Il dipinto, una tempera grassa su tavola di noce, essenza rara nella pittura italiana, ma frequente in quella provenzale, ben documenta il raffinato gusto dei collezionisti ottocenteschi: proviene, infatti, dalle raccolte del marchese Luigi Malaspina di Sannazzaro, colto mecenate, che nel 1823 acquista il dipinto da una famiglia patrizia veronese, ritenendolo autoritratto di Antonello e "pezzo assai raro". Le ricche raccolte d'arte del nobile pavese, custodite nel neoclassico Stabilimento di Belle Arti Malaspina, progettato tra il 1820 e il 1835 dallo stesso Malaspina, dilettante di architettura, vengono in seguito donate ai Musei Civici. Il dipinto trafugato nel maggio 1970, viene recuperato sette anni dopo a Roma dal Nucleo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e restituito ai musei pavesi, dove è esposto nella sezione della Pinacoteca intitolata al munifico donatore Malaspina. row-ks78.cr2h~txh4 Galleria presso Isola Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 Una grande vetrina nella sala detta "stüa granda", al secondo piano del museo di Campodolcino, presenta la serie completa, in fogli sciolti montati per l'esposizione, della rara edizione delle stampe del volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga", edito a Milano intorno al 1824. Si tratta di 16 vedute dal vero eseguite dall'artista Friedrich Lose, sia per il disegno che per l'incisione, che raffigurano luoghi e panorami lungo il percorso che da Chiavenna porta a Coira attraverso il passo dello Spuga. Le stampe sono realizzate con la tecnica dell'acquatinta e vennero colorate a mano. Le tavole relative alla parte di percorso lungo la Val San Giacomo presentano vedute di Chiavenna, del santuario di Gallivaggio, della contrada delle Corti di Campodolcino, della cascata di Pianazzo, di una galleria paravalanghe ora non più esistente, della casa cantoniera di Teggiate e della dogana e dell'albergo a Montespluga. Intorno al 1824 Friedrich Lose elaborò per l'editore milanese Francesco Bernucca il volume "Viaggio pittorico e storico al Monte Spluga" dedicato alla strada carrozzabile dello Spluga, voluta dal governo austriaco e inaugurata pochi anni prima, nel 1822.Il "viaggio pittorico" o "viaggio pittoresco" era un tipo di pubblicazione molto diffuso nella prima metà dell'Ottocento, una via di mezzo tra la guida turistica e il libro d'arte. Nei volumi numerose tavole illustravano scorci e panorami dell'itinerario accompagnate da un commento descrittivo. Questo raffinato prodotto era rivolto a un pubblico d'élite, nobili e intellettuali, gli unici, all'epoca, che potevano permettersi di viaggiare per diletto. L'autore lavorava spesso a questi progetti con la moglie Caroline, anch'essa pittrice. Il connubio artistico fra i due vedeva solitamente Friedrich impegnato nel disegno dei paesaggi ad acquerello, mentre Caroline provvedeva all'incisione delle tavole in acquatinta e successivamente alla loro coloritura. row-ya4v.tv55.z6bt Bergamo Piazza Rosate La monumentale struttura, sontuosa già nei materiali riccamente policromi e ornata di un esuberante apparato decorativo, si articola in tre ordini. Al primo, costituito da un portico ad ampio arco ornato da un fregio scolpito poggiante anteriormente sui famosi leoni stilofori in marmo rosso di Verona e posteriormente su mensoloni in marmo rosa di Candoglia, si poggia una loggia in marmo bianco a tre aperture anteriori e due laterali, nei cui spazi aperti si trovano tre statue in marmo bianco: sant'Alessandro a cavallo, patrono della città di Bergamo, affiancato a sinistra da san Barnaba e a destra da san Vincenzo. Il terzo e conclusivo ordine si compone di una loggetta in marmo bianco nella cui apertura anteriore sono collocate tre statue raffiguranti la Madonna con il Bambino al centro, santa Esteria a sinistra e santa Grata a destra. Chiamato convenzionalmente "dei Leoni Rossi", il protiro settentrionale della Basilica di S. Maria Maggiore è una delle opere più celebri di Giovanni da Campione realizzata, con l'aiuto della sua bottega, negli anni '50-'60 del XIV secolo. La critica recente assegna al maestro campionese un ruolo essenzialmente di progettista e di supervisore dei lavori, più che di esecutore diretto di opere scultoree, con l'eccezione della statua di sant'Alessandro a cavallo, recante il suo nome e la data 1353, e delle sculture poste nelle logge superiori, in gran parte riferibili alla sua stretta cerchia. Per il protiro bergamasco, Giovanni guardò modelli della tradizione romanica di area lombarda e veneta. La perfetta coerenza stilistica e di materiali tra il piano inferiore e le logge superiori, e lo stretto nesso che lega quelle strutture alle statue, fanno pensare che l'architetto avesse già previsto nei dettagli la costruzione delle parti sopraelevate. Solo alcuni pezzi, come la statua di san Barnaba della loggia mediana, presentano caratteri di stile assai diversi da quelli usati d'abitudine da Giovanni e dalla sua bottega avvalorando l'ipotesi di interventi successivi. row-mfs7.5yuu_jqgi Bambini che giocano Castiglione Olona Piazza G. Garibaldi, 1 La sala di Palazzo Branda oggi conosciuta come "Camera dei Putti" o "Camera del cardinale", nonostante le molte modificazioni successive e il riadattamento a sede museale, mantiene ancora intatto al suo interno uno dei cicli pittorici più importanti del complesso. Nella parte alta delle pareti scorre un fregio composto da simboli araldici accostabili a singoli membri della famiglia Castiglioni e delle famiglie ad essa imparentate: tra di essi sono riconoscibili quello dei Visconti, dei Pusterla e dei Terzago, mentre quello di Branda, sormontato dal cappello cardinalizio con le nappe, è riprodotto due volte, sia sulla parete meridionale che su quella settentrionale. Gli stemmi sono inseriti entro cornici inframmezzate da lunghe fasce decorate con racemi vegetali di vario tipo, fra le quali si posizionano angeli apteri o alati che suonano strumenti musicali o versano acqua da una brocca.Al di sotto, si aprono le decorazioni centrali delle pareti caratterizzate da un fondo rosso intenso su cui spiccano alberi di specie diverse, attorno ai quali coppie di putti sono intenti a giocare e ad arrampicarsi. Gli alberi poggiano su un prato ricco di fiori, delimitato in primo piano da uno steccato formato da ramoscelli che si intrecciano (oggi visibile pienamente solo in alcuni punti della sala); intorno ad ogni tronco si arrotola poi un cartiglio su cui è scritta una citazione in latino tratta dall'Antico Testamento.Al di sotto degli alberi si apre una terza tipologia di decorazione, contraddistinta dalla presenza di un finto tessuto appeso allo steccato, sul quale sono riprodotti mazzi di fiori di diverse specie avvolti in cartigli con motti latini di Sallustio, Cicerone, Lucano, Seneca, Terenzio, ecc.. alludenti a Vizi e Virtù; in alcuni punti i fiori vengono sostituiti da corone vegetali all'antica o da curiose figure nude inginocchiate che reggono tra le mani una croce. Ancora più in basso, una ulteriore fascia racchiude raffigurazioni di pappagalli che reggono cartigli con altri motti latini, chiusa sul fondo, a contatto con il pavimento, da una panca dipinta di scorcio. La Camera dei Putti fu realizzata da un anonimo maestro lombardo nel 1423: nonostante l'ingresso attuale non sia più coincidente con quello originario, il ciclo pittorico non ne è risultato compromesso e dunque è ancora possibile leggervi in toto un percorso fatto di elevazione, sia morale che mistica, in grado di guidare e giustificare il prestigio nobiliare dell'illustre casato Castiglioni. La posizione elevata dei simboli araldici, affiancati da angeli e fiori e frutti allegorici, conferma l'idea per cui un Castiglioni, mediante il percorso meditativo descritto nella sala, doveva mirare a coltivare le virtù che per privilegio di casta erano state concesse alla famiglia, scacciando i vizi terreni. Questi Vizi e Virtù sono esemplificati negli alberi e nei putti collocati al centro delle pareti: essi potrebbero infatti alludere ad una umanità primigenia, inconsapevole (da cui la nudità), che a tratti viene colta dal peccato (una spina nel piede, alcuni oggetti che reggono tra le mani) e che a volte invece cerca di elevarsi spiritualmente (putti che tentano di arrampicarsi sugli alberi). Gli alberi stessi fanno infatti riferimento ognuno ad una specifica Virtù, così come viene descritta nei testi dei libri sapienziali dell'Antico Testamento, di cui sono riportati motti e brani nei cartigli che ne avvolgono il tronco. Sulla parete orientale: la pianta con una coppia di putti intenti a reggere frutti e a sbucciarli fa riferimento alla "Carità"; l'albero intorno il quale i putti sono intenti a spaccare delle pigne rappresenta la "Mansuetudine"; mentre la pianta circondata da putti che colgono i frutti in un cestino pare un invito alla "Prudenza". Sulla parte meridionale: l'albero sotto il quale si colloca il putto "cavaspino" è quello della "Misericordia", mentre la pianta scossa da due putti che tirano le fronde (oggi in parte distrutta dall'apertura di una finestra) è associata all' "Umiltà". Sulla parete occidentale: la pianta sulla quale un putto è salito con l'aiuto di una scala e ora è intento a porgere un frutto al secondo sotto di lui, rappresenta la virtù della "Liberalità" (intesa come generosità); mentre l'albero sul quale due putti si stanno arrampicando aiutandosi l'un altro è indicativo della "Pace". Sulla parete settentrionale: l'albero al centro, sotto il quale un solo putto regge tra le mani un bastone, è la probabile personificazione della "Fortezza", mentre ignote sono le Virtù collegate alle altre due piante con i rispettivi putti.L'intero giardino è delimitato in uno spazio ristretto da uno steccato, raffigurazione simbolica di un "hortus conclusus", ovvero di un giardino segreto, il giardino di chi è dedito alla coltivazione del proprio spazio interiore, in cui i Castiglioni erano invitati a sedersi sulla panca dipinta per iniziare la meditazione alla ricerca delle Virtù. Anche la figura ricorrente del pappagallo presente nella parte bassa della decorazione è allusiva dell'uomo eloquente, come certo doveva essere il cardinal Branda, che all'epoca della realizzazione degli affreschi aveva già ottenuto prestigiosi incarichi per conto di papa Martino V e dell'imperatore Sigismondo di Boemia. row-dcd2-66c8-44zb Pavia Corso Strada Nuova, 65 Il microscopio a immersione in vetro e ottone, per osservare oggetti non percettibili ad occhio nudo consentendone l'ingrandimento, è riposto in una cassetta di rovere, dotata di appositi alloggiamenti per lo strumento stesso e per i suoi accessori, alcuni dei quali avvolti in fogli manoscritti: oculari, obiettivi, prismi per illuminazione, specchietto per illuminazione, lastre di vetro, disco per piccoli corpi opachi, lieberkuhn, telaietti di ottone.Il microscopio, costruito da Giovanni Battista Amici, fu consegnato verso la fine del 1857 al professor Giacomo Sangalli (1821-1897), docente di Anatomia patologica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Ateneo pavese. Lo strumento, pagato 600 franchi, era accompagnato da una lettera esplicativa autografa dell'inventore che dava indicazioni per il corretto utilizzo: "Istruzione per l'uso del microscopio d'Amici eseguito per commissione del Prof. Giacomo Sangalli". Il modenese Giovanni Battista Amici (1786-1863), ingegnere, matematico, astronomo, la cui fama però è principalmente legata agli studi e alle invenzioni in campo ottico, convinto che l'apertura numerica costituisse il fattore teorico che determinava il potere risolutivo del microscopio, fece il possibile per perfezionarlo, non solo costruendo obbiettivi con migliori aperture numeriche, ma anche inventando la tecnica del microscopio ad immersione, dapprima in acqua, poi in olio d'oliva, infine in olio di sassofrasso.L'apparecchio poteva essere utilizzato ricorrendo o meno alla tecnica dell'immersione, che consisteva nel porre una goccia d'acqua o di olio tra il vetrino coprioggetto e la lente frontale dell'obiettivo, in modo che fra essi non vi fosse intercapedine d'aria. Questo accorgimento riduce la porzione dei raggi che provenendo dall'oggetto in esame subiscono una riflessione totale sul vetrino coprioggetti, sfuggendo all'obiettivo, e ne aumenta l'apertura numerica. In tal modo si migliora il potere risolutivo del sistema ottico. row-edyg~dmut.pi4b Venditore di panni Milano Corso Magenta, 15 row-yg8z-fytw-6tfr Piadena Piazza Giuseppe Garibaldi, 3 La statuetta rappresenta una figura femminile a due teste, impostate su un semplice corpo cilindrico, nel quale sono pienamente evidenti i seni e, soprattutto, le natiche. Il braccio sinistro, l'unico conservato, posto appena sotto la testa corrispondente, è curiosamente reso come un occhiello non forato. Le teste, a forma di fungo, sono decorate con dei motivi a V, che vanno interpretati come i particolari dell'acconciatura. Sui visi non sono rappresentati i tratti somatici, fatta eccezione per i nasi, costituiti da due piccole protuberanze. La figurina, alta 14 cm., era un tempo ricoperta di uno strato di ingobbio di colore nero, sul quale erano incisi dei motivi decorativi ormai quasi illeggibili. Sono colti da grande stupore gli archeologi che, nel 1976, durante lo scavo di un pozzetto in un abitato di età neolitica al Vho di Piadena, ritrovano i frammenti perfettamente combacianti di questa statuetta. Subito ribattezzata "Venere bicefala", essa viene interpretata come una divinità femminile propiziatrice della fertilità dei campi, ma rimane difficile spiegare il motivo della presenza delle due teste, per le quali nessuna ipotesi convincente è stata finora formulata. Sappiamo che idoletti bicefali provengono dalla Turchia, dalla Siria e, soprattutto, dall'Europa balcanica. Il rinvenimento al Vho di questo esemplare, il meglio conservato di numerosi frammenti relativi a statuette simili, continua, però, a restare isolato nella zona dell'Europa occidentale. row-zr87-xgpe_wssa Madonna col Bambino, santi e giovinetti Milano Piazza Castello row-63uy~sh38.ranv Bozzetto per il monumento alla famiglia Cairoli Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Il bozzetto in gesso di Leonardo Bistolfi, artista di grande valore e maestro della scultura Liberty in Italia, viene presentato al concorso indetto nel 1890 dal Municipio di Pavia per l'erezione di un monumento nazionale commemorativo alla Famiglia Cairoli, eroi risorgimentali pavesi. Al concorso partecipano personalità di spicco dell'epoca, oltre a Bistolfi: Carlo Abate, Pietro Bordini, Antonio Carminati, Giudici, Eugenio Pellini ed Enrico Cassi. Nonostante la netta superiorità artistica di Bistolfi, il gusto conservatore e ancora legato alla tradizione della giuria si orienta verso il bozzetto più tradizionale, accademico e molto realistico di Enrico Cassi, scultore già attivo in città, rispetto all'opera di ispirazione simbolista del maestro casalese.La soluzione del bozzetto di Bistolfi, decisamente innovativa e anticonvenzionale, si stacca dalla tradizionale statuaria commemorativa creando una piramide tronca, molto bassa e larga alla base, dal centro della quale si eleva una sorta di onda che racchiude una figura femminile ed un cannone, due simboli del dramma di Adelaide Bono Cairoli, attorno alla quale si distribuiscono, isolate, le figure dei cinque fratelli.Pur non vincendo il concorso, il bozzetto di Bistolfi nel 1895 viene comunque premiato dalla giuria, assieme alle opere di Abate e Bordini, inoltre nel 1912 il qualificato giudizio dello scultore viene richiesto dalla commissione municipale, in vista del possibile trasferimento del monumento in una sede più idonea all'importanza del gruppo plastico.Come stabilito dal bando del concorso il bozzetto di Bistolfi rimane di proprietà della Civica Scuola di Pittura pavese, per poi passare ai Musei Civici. row-rzzg_62dx~j9ev Dame e cavalieri in costume quattrocentesco Varese Via Cola di Rienzo, 42 La Sala degli Svaghi, collocata al piano terra del Castello di Masnago, attuale sede del Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Varese, presenta sulle pareti una raffigurazione senza soluzione di continuità, che ha per soggetto una serie di scene riconducibili al mondo cortese, inserite in un ambiente naturale. Nonostante gli affreschi si presentino oggi molto lacunosi, si distinguono chiaramente tra i soggetti: la partenza per la caccia con il falcone di una dama e un cavaliere sontuosamente vestiti; la gita in barca di tre dame, due intente a scambiarsi dei fiori e una occupata con i remi; la colazione sull'erba di un gruppo di gentiluomini; la partita ai tarocchi di un gruppo di dame su una piccola imbarcazione; ed infine una dama intenta a suonare l'organo portativo sotto un'ampia tenda riccamente decorata, che reca in cima il vessillo della famiglia Castiglioni e quello della famiglia Lampugnani.Tra un episodio e l'altro sono inseriti personaggi secondari che documentano il gusto dell'epoca per la raffigurazione di elementi naturalistici, accuratamente tradotti ad affresco attraverso una serie di particolari tratti dal mondo vegetale e animale (anatre in uno stagno, lepri, feroci cani da caccia e fedeli cani da compagnia). Sullo sfondo, verdeggianti colline ricche di cespugli, alberi e rocce, incorniciano le scene. La decorazione pittorica della sala, sebbene tutt'oggi si presenti fortemente lacunosa, costituisce uno dei massimi esempi di raffigurazione degli usi e costumi della tradizione cortese, con una particolare attenzione per i passatempi che intrattenevano i nobili in una residenza di campagna. Non si conoscono i nomi degli autori di tale ciclo, così come incerta è la datazione di tali affreschi. Una prima ipotesi fornita dalla critica verte su una datazione compresa tra il 1443 e il 1453, periodo durante il quale il castello venne abitato e governato da Maria Lampugnani, vedova di Giovanni Castiglioni, proprietario del maniero e suo residente dal 1441 fino alla morte. Lo stemma dei Lampugnani appare infatti più volte nel castello e nella Sala degli Svaghi è dipinto a fianco di quello dei Castiglioni; alcuni studiosi hanno addirittura suggerito che la dama che suona l'organo sotto il ricco tendaggio possa in effetti considerarsi un ritratto di Maria, oltre che un ottimo esempio iconografico del ruolo della donna nel contesto sociale di una corte. Altri studiosi hanno invece accantonato l'ipotesi di una tale committenza, allargando il significato del ciclo a tutti i rapporti sociali che la famiglia Castiglioni intrattenne con le altre casate nobili dell'epoca, non soltanto in funzione dell'unione matrimoniale con esse. Ciò può essere avvalorato dalla presenza nei dipinti murali di ulteriori stemmi araldici familiari, come quello dei Terzaghi, il cui vessillo viene retto da un personaggio maschile inserito nella scena della partita a tarocchi. In questo caso la datazione verrebbe spostata tra il quinto e il settimo decennio del Quattrocento, in linea con i contatti storicamente avvenuti per motivi politici, economici e sociali tra le varie casate. row-24tu_g5qg_8nqm San Bassiano benedicente fra i cervi, Madonna con Bambino e angeli, Santissimo Sacramento, San Bassiano guarisce un lebbroso, Sant'Antonio da Padova in adorazione di Gesù Bambino Lodi Via Cavour, 31 Paliotto raffigurante Sant'Antonio da Padova in adorazione di Gesù Bambino con ricami in sete policrome che raffigurano motivi floreali e fogliati che formano girali o si distribuiscono liberamente sul tessuto; paliotto con al centro San Bassiano benedicente fra i cervi impostato su un fondo ricamato blu, mentre il santo e gli animali sono ottenuti con un fio d'oro, lo stesso utilizzato per i motivi decorativi che suddividono simmetricamente in riquadri il tessuto d'argento; paliotto con la Madonna con Bambino e angeli racchiusi da una cornice azzurra messa in risalto dal festone di fiori che chiudono le parti laterali e quella superiore; paliotto con il Santissimo Sacramento circondato da teste di putti e da un tripudio di tralci di vite in cui trovano posto angeli dipinti; paliotto con San Bassiano che guarisce un lebbroso, in questo caso dipinta e applicata al tessuto su cui risaltano a rilievi i decori simmetrici a filo d'oro e d'argento. I paliotti a pannello racchiudono scene miracolose o di celebrazione del santo patrono di Lodi. Si scalano fra il diciasettesimo e diciottesimo secolo, presentando preziosi ricami, non solo per le sete policrome, ma sopratutto per il filo d'oro e d'argento che arricchisce di bagliori e luminosità il tessuto. row-dqtf.3ijv-vjtk Sala dei Cavalli Mantova Viale Te, 13 Protagonisti assoluti della decorazione sono i ritratti di sei cavalli dipinti sulle pareti, a grandezza naturale. Gli animali sono stati realizzati con magistrale bravura, nelle proporzioni, nel nobile portamento, nei giochi di luce del manto. La finta architettura, all'interno della quale sono inseriti i destrieri, ospita anche cinque nicchie con statue a figura intera e cinque nicchie con busti, alternate a porzioni nelle quali compaiono sei scene a monocromo con imprese di Ercole. Paesaggi con vedute campestri si aprono dietro ciascun animale. Il soffitto a cassettoni è realizzato in legno dipinto e dorato, decorato con le imprese gonzaghesche del monte Olimpo e della salamandra. I cavalli catturano la nostra attenzione, rivolgendo direttamente lo sguardo al visitatore e seguendolo illusionisticamente mentre esso attraversa la sala. Si sono tramandati i nomi di quattro di questi animali tanto amati dai Gonzaga, a partir dalla destra del camino: Morel Favorito, Bataglia, Glorioso, Dario. I nomi del primo e dell'ultimo sono ancora leggibili sul basamento, tra gli zoccoli. Che la sala di maggiori dimensioni del palazzo, destinata ad accogliere gli ospiti e le cerimonie più importati, sia stata dedicata ai destrieri favoriti del marchese segna anche l'ideale continuità con l'originaria funzione delle preesistenti strutture architettoniche, adibite a scuderie prima dell'arrivo di Giulio Romano. La decorazione ad affresco occupa la metà superiore delle pareti della sala, dall'altezza delle architravi dei portali marmorei fino al cornicione ligneo d'imposta del soffitto. La porzione inferiore delle pareti era destinata ad essere ricoperta, qui come in molte altre camere del palazzo, da spalliere di cuoio lavorato e stampato: l'inventario della villa redatto nel 1540 specifica che nella Sala dei Cavalli lo zoccolo delle pareti era rivestito da "otto pezzi de spalera de coramo rosso cum coloni de oro" . row-pi57.tdmk.wctn Redentore, santi e dottori della Chiesa d'Occidente Chiavenna Piazza don Pietro Bormetti, 3 Di notevoli dimensioni e di capienza pari a un litro, il calice di San Lorenzo è in argento dorato e presenta una forma tradizionale che riprende la tipologia dei calici gotici trecenteschi, anche se è datato al secolo successivo. Alla base è decorato con filigrane, girali e fiori a bassorilievo che ricamano la superficie metallica. Sul piede sono state applicate quattro piastrine d'argento illustrate con le immagini dei santi Lorenzo, Stefano, Vincenzo e Maurizio, un tempo rivestite da smalti traslucidi di cui rimangono solo poche tracce. Il grande nodo schiacciato posto a metà del fusto è decorato con otto chiodi d'argento sporgenti, sui quali compaiono le effigi del Redentore, dei santi Pietro, Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Bartolomeo e di un altro santo. Anche questi erano ricoperti di smalti, così come le quattro medaglie con i busti dei Padri della Chiesa d'Occidente che formano il sottocoppa, ingentilito da un profilo di perle oltre il quale si allarga la superficie liscia della coppa vera e propria. Questo bell'oggetto di oreficeria sacra proviene dalla chiesa collegiata di San Lorenzo ed è conservato presso il vicino Museo del Tesoro di Chiavenna. È detto "calice nuovo" in un inventario del 1486 redatto dal notaio Pietro Nascali; per questo viene generalmente datato alla seconda metà del XV secolo, come attestano gli smalti che lo decorano, ancora legati alla pittura lombarda di gusto tardogotico della metà del Quattrocento. Nella storiografia comasca il manufatto è spesso confrontato con quello un tempo esistente nella chiesa di S. Vincenzo di Gravedona, sul lago di Como, attribuito a Francesco Ser Gregorio da Gravedona, orafo attivo tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo. A ben vedere le tangenze non paiono così evidenti: il calice lariano è di gusto gotico fiorito ricco di guglie, pinnacoli, trafori, con nodo a tempietto, tutti elementi diversi rispetto a quelli che caratterizzano il calice di Chiavenna che va comunque attribuito a una bottega attiva in ambito comasco. row-ucqb-cd86-s3iu San Francesco in preghiera Cremona Via Ugolani Dati, 4 Il fulcro della scena, ambientata di notte in un luogo boscoso, è costituito dalla figura di San Francesco, evidenziata dal cadere della luce secondo una direttrice obliqua. Il santo è seduto con il viso poggiato alle mani intrecciate, intento a contemplare un teschio e un crocifisso posato tra le pagine di un libro. La cruda incidenza della luce mette in risalto minuti dettagli di estremo realismo, come le ciocche dei capelli, le rughe che solcano la fronte, la consunta manica sinistra del saio. Donato al museo dal marchese Filippo Ala Ponzone insieme alla sua cornice, per lungo tempo viene considerato una copia antica di un perduto dipinto di Caravaggio (Longhi, Puerari). Nel 1951 Denis Mahon propone di riconoscervi l'autografia del Merisi e induce Longhi a riconsiderare la sua opinione. Successivamente la critica si divide tra sostenitori, detrattori e indecisi, ma in seguito agli studi di Maurizio Marini e Mina Gregori si è andata accreditando l'ipotesi che la tela sia un originale. La scena è votata ad un intimo raccoglimento e meditazione, un inno alla pietas. L'iconografia del dipinto sembra essere maturata nell'atelier dei Carracci, in particolare dal San Francesco adorante il Crocifisso di Ludovico (Firenze, Galleria Palatina) e da una stampa di Annibale per un San Francesco in meditazione. Tra il 1605 e il 1606 Caravaggio tornò più volte su questo soggetto, altre due tele dedicate alla meditazione del santo assisiate si conservano a Palazzo Barberini (ma proveniente da Carpineto Romano) e nella chiesa dei Cappuccini di Roma (probabile opera di bottega).Il restauro del 1986 ha riportato il dipinto a un buon grado di leggibilità, nonostante l'irreparabile impoverimento dello sfondo arboreo. Le ricche pennellate luminose creano effetti di forte evidenza plastica, enfatizzata dall'emergere della figura dal buio del fondo. Nella decorazione della cornice alla romana che racchiude il San Francesco in meditazione è stato riconosciuto lo stemma Ala e sul verso lo stemma di Daniele Ala insieme alla scritta: "Con. S.ti Fran ci"(Toninelli). Probabilmente il dipinto apparteneva a Benedetto Ala, governatore di Roma dal 1604 al 1610, in seguito passa a un convento francescano, forse a Cremona, come attesta l'iscrizione "Con. S.ti Fran ci", ovvero Conventus Sancti Francisci. Ipotesi che trova conferma nella realizzazione di copie antiche come quella di Castell'Arquato, documentata dal 1849. Il marchese Daniele Ala, era il padre di Filippo (il donatore del quadro) ed era mosso da ampi interessi collezionistici, potrebbe aver recuperato il dipinto in seguito alle alienazioni seguite alle soppresssioni dei conventi cremonesi. row-t7nw_m8xe_tcuy Danza dei figli di Alcinoo Milano Piazza della Scala, 6 row-x3uf~i37c-nefr Angelo dolente Chiari Via Bernardino Varisco, 9 L'angelo a figura intera è rappresentato seduto, avvolto in un'ampia e morbida clamide, sul bordo di una lapide o di un sarcofago. La testa, abbandonata nella mano sinistra in un atteggiamento di profondo dolore, contrasta con la mano destra che lascia scivolare tra le dita un mazzetto di rose quasi sfiorite. Le ampie ali equilibrano l'intera composizione e bilanciano lo spostamento laterale della figura. Modello per il monumento funebre della famiglia Goffi nel cimitero di Chiari, realizzato nel 1910, la scultura è tra le opere funerarie più sensibilmente interpretate da Ricci, pervasa dal sottile sentimento simbolista che riscalda le cadenze ancora accademiche dell'insieme, condotto con rigore e una certa semplificazione formale, che lascia all'abbandono della posa il tratto più eloquente dell'espressione artistica. Recuperando uno schema vagamente bistolfiano che lo scultore certamente conosce, l'angelo assume la funzione stessa del dolore, tutta contenuta nel punto di equilibrio tra la voluta semplificazione delle forme correttissime, con le quali viene reinterpretata la matrice accademica, e il velato patetismo che permea la forma quasi involuta della figura angelica. row-fi7p.shy6~vnj5 Desenzano del Garda Via Tommaso Dal Molin 7/c Il coltello è costituito da un unico pezzo di legno di quercia lavorato in modo di ottenere una parte terminale, con pomolo troncoconico distinto, adatta a essere impugnata. Il corpo centrale ha il dorso arrotondato con una fessura per l'inserimento di quattro lame in selce, cosiddette "elementi di falcetto", ed è caratterizzato da una punta arcuata. In seguito al restauro condotto nel 2014, il reperto si presenta oggi completo della punta ricurva, grazie al ritrovamento nel magazzino del museo delle parti mancanti. Il coltello è stato rinvenuto da Emilio Mosconi presso la palafitta del Lavagnone all'inizio del Novecento. L'utilizzo come strumento per la mietitura è confermato dalle tipiche tracce lucide lasciate dai fitoliti (ossia piccosissimi elementi di pietra) presenti nei cereali depositati sugli elementi in selce, a causa dell'uso ripetuto dello strumento. La struttura del manufatto permette di ipotizzare che il coltello fosse manovrato con la mano sinistra, impugnandolo direttamente sul corpo al limite del pomolo; con un gesto ampio del braccio sinistro era quindi possibile raccogliere le spighe grazie alla punta ricurva, bloccarle con la mano destra e infine tagliarle muovendo il coltello con la mano sinistra.Reperti simili sono stati rinvenuti in altre palafitte dell'area gardesana risalenti all'età del Bronzo, tra cui a Lucone di Polpenazze, in località Polada di Lonato del Garda e a Barche di Solferino (Mantova), oltre che nella palafitta di Ledro (Trento). In una fase successiva il coltello messorio viene affiancato dal falcetto "a mandibola", in seguito l'unico tipo utilizzato. row-qu2p_3cvp~9e3t Ritratto di Ignazio di Loyola Sondrio Via Maurizio Quadrio, 27 Aulico è il ritratto a mezzo busto di Ignazio di Loyola, colto di profilo in un'immagine essenziale che si staglia su un fondo bruno scuro e fa risaltare gli elementi fisionomici, il labbro inferiore incorniciato da barba e baffi, il naso prominente, l'occhio piccolo ma vivace, il capo stempiato, l'espressione serena. Il fondatore dell'Ordine dei Gesuiti indossa la consueta mantella nera dal collo rialzato. Si tratta di una rappresentazione "civile" adatta ad un uomo illustre che vive nella società di primo Cinquecento, e non vi è alcun alone luminoso intorno al capo che stia ad indicare la santità del personaggio. Sopra la sua figura è vergata in lettere capitali una scritta che ne restituisce il nome: "IGNATIUS LOIOLA IESUITAR(UM) INSTITUT(OR)".Sulla fascia rossa che definisce parte della spessa cornice in legno spicca un'altra frase latina che dà conto della provenienza del quadro da Roma quale dono: "Ritratto autentico di sant'Ignazio di Loyola, eseguito mentre egli era ancora vivo, che venne portato da Roma da padre Nicolò Bobadilla e donato, nell'anno 1543, a Giovanni Maria Guicciardi, a titolo di protezione personale e familiare e come testimonianza d'affetto". A metà del Novecento giunse al Museo di Sondrio un ritratto di Ignazio di Loyola donato da Giuseppina Guicciardi di Ponte in Valtellina, esponente della nobile famiglia che a lungo aveva custodito il quadro.Ignazio fu uno dei maggiori testimoni della spiritualità cristiana nella Controriforma, cui più volte era stato chiesto di inviare in Valtellina padri gesuiti in difesa della fede cattolica.È noto da fonti autorevoli che Ignazio si era sempre negato a un ritratto; solo dopo la morte, nel 1556, il suo volto venne riprodotto sulla base della maschera funeraria e dunque tradotto nelle rappresentazioni ufficiali. Eppure secondo la scritta sulla cornice questo dipinto è un dono fatto nel 1543 da padre Nicola Bobadilla, tra i primi compagni di Ignazio, al valtellinese Giovanni Maria Guicciardi, convinto sostenitore del collegio gesuitico di Ponte. Nell'iscrizione è detto santo, suggerendo una datazione successiva al 1622, anno della canonizzazione, ma recenti analisi scientifiche confermano l'ipotesi che il ritratto sia stato eseguito a metà del Cinquecento, dunque riprodurrebbe la vera effigie di Ignazio, rara e precoce più di qualunque altra finora rintracciata. row-9u8u.nzt6_6ki5 Stazioni della via crucis Cairate Via Molina Collocate al primo piano, lungo le pareti perimetrali esterne del chiostro, le quattordici stazioni affrescate della Via Crucis non si presentano ad oggi con un uniforme stato di conservazione. Esse sono state dipinte sulla parete ad affresco fingendo la tridimensionalità, da cui l'ombra portata della cornice dipinta sull'intonaco bianco della parete, quasi fossero in realtà dei quadri appesi. Tutte le stazioni sono inquadrate da una cornice rettangolare di orientamento verticale che imita il finto marm. Sulla sommità, in corrispondenza del profilo ondulato superiore, ogni riquadro è dotato di un cartiglio dorato e decorato con volute, che riporta il numero della stazione corrispondente e una frase che la descrive, purtroppo ora non sempre leggibili. Le stazioni della Via Crucis collocate al piano superiore del chiostro, appartengono all'ultima campagna decorativa effettuata nel tardo Settecento all'interno del Monastero, ad opera del pittore bustocco Biagio Bellotti, molto attivo in zona e presso alcuni monasteri milanesi. Scrittore di testi teatrali, poeta e musicista, il canonico italiano fu senza dubbio una delle più vivaci personalità della cultura bustese del XVIII secolo, benché eccelse soprattutto nel campo delle arti figurative, realizzando affreschi, architetture e decorazioni per lo più di carattere sacro e religioso. Pur partendo da premesse locali, Bellotti fu molto affascinato da artisti quali Magatti e Tiepolo, da cui lo studio attento degli effetti di luminosità e movimento e soprattutto l'abitudine ad impostare i gruppi di figure entro spazi centrifughi. Il tono sapiente e libero con cui annoda e muove i personaggi all'interno delle varie stazioni della via Crucis, consente di perdonargli la debolezza di talune figure.Presso il Monastero di Santa Maria Assunta in Cairate realizzò, oltre alle quattordici stazioni della Via Crucis, anche le due raffigurazioni dei Santi Benedetto e Scolastica, poste al piano terra del chiostro, e, sempre al primo piano, altre due scene sacre: "Tobiolo e l'angelo" e l'"Addolorata". row-up9r-chim~sz7y Collezioni della Triennale di Milano - Triennale Design Museum Milano Viale Alemagna, 6 Le collezioni della Triennale di Milano -Triennale Design Museum comprendono una ricca raccolta permanente di oggetti del design italiano, che ne documenta la storia e l'evoluzione, con opere di grandi maestri come Gio Ponti, Piero Fornasetti, Franco Albini, Bruno Munari, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Achille Castiglioni, Ettore Sottsass, Marco Zanuso e tanti altri. All'interno del Design Cafè sono esposte a rotazione, per essere adoperate, oltre cento sedute, che costituiscono una sorta di piccolo museo. La collezione dei modelli di studio di Giovanni Sacchi, acquistata da Regione Lombardia e depositata presso la Triennale, consente di ricostruire la fase progettuale degli oggetti più noti del design italiano. Tra le donazioni che hanno arricchito il patrimonio è la preziosa raccolta di disegni di designer italiani e internazionali, appartenuta a Giovanni Veneziano. La Triennale di Milano comprende un patrimonio di oltre mille oggetti acquisiti durante oltre ottanta anni di attività. A questi, attraverso depositi e donazioni, si sono aggiunte importanti collezioni, come quelle dei modelli di Giovanni Sacchi e dei disegni di Alessandro Mendini. Un Centro di Documentazione raccoglie le pubblicazioni ufficiali, i cataloghi delle esposizioni e gli Atti dei Convegni svoltisi nell'ambito della Triennale di Milano e delle Biennali di Monza. row-z9dh.maep~x8i8 Campodolcino Piazza S. Antonio, 15 In Valtellina e Valchiavenna sono denominate "stüe" le stanze interamente foderate in legno allo scopo di isolare termicamente l'ambiente per far fronte al lungo periodo di freddo invernale.Le pareti della "stüa pisc'na", ovvero "stüa piccola", sono suddivise in scomparti scanditi da cornici; elementi simili sono presenti anche nei cassettoni che compongono il soffitto. In un angolo è presente una voluminosa "pigna", ossia una stufa in muratura, che scaldava tutto il locale. La "pigna", circondata su due lati da una panca senza schienale, veniva alimentata dal camino della cucina attigua. La settecentesca "stüa pisc'na", confluita nelle raccolte e ricomposta nel 2006 presso il Mu.Vi.S., Museo della Via Spluga e della Val San Giacomo di Campodolcino, proviene da una casa della frazione montana di Fraciscio, dimora che localmente era denominata "chié di Ritàn" o "dal Pàul", dai nomi dei proprietari. L'attuale allestimento presso il museo presenta mobili e arredi di varie epoche e riproduce in modo verosimile la situazione originale dell'ambiente.In inverno, essendo la camera più calda della casa e quella meglio isolata, veniva utilizzata per il soggiorno, per la consumazione dei pasti e, compatibilmente con lo spazio disponibile, come camera da letto. Spesso durante le lunghe notti invernali veniva sistemato un pagliericcio sulla lastra di pietra della stufa e lì dormivano i bambini più piccoli. row-c6pw.gv9i_6zxg Collezioni del Museo Civico di Crema e del Cremasco Crema Piazzetta Winifred Terni De Gregory, 5 La sezione archeologica, ubicata al piano superiore del Museo, raccoglie reperti emersi per lo più in modo fortuito dai fiumi o durante lavori agricoli e, solo in rari casi, frutto di scavi sistematici. Prende avvio dalle faune fossili recuperate nei fiumi e risalenti al Paleolitico (resti di cervidi e bisonti), per poi passare al Neolitico, all'Età del Bronzo (corredo tombale proveniente da Spino d'Adda), all'età romana (tesoretto di Camisano) e tardo romana (mosaici della villa di Palazzo Pignano) con le testimonianze antropiche caratterizzanti il territorio. I Celti, i Romani e, in seguito, i Longobardi hanno lasciato numerose tracce dei loro insediamenti: monete, corredi tombali con scudi e armi, mosaici e anche una coppia di splendidi speroni in argento ageminato. Particolare rilevanza riveste la sezione di archeologia fluviale, allestita nei dismessi magazzini comunali, dove sono esposte quattro delle tredici piroghe monossili di proprietà del museo, databili tra il III e il XIII secolo d.C . La pinacoteca rappresenta il nucleo fondante del museo e permette un exursus tra i maggiori artefici del panorama cremasco e lombardo dal XV al XX secolo: Vincenzo Civerchio, Aurelio Buso, Carlo Urbino, Tommaso Pombioli, Gian Giacomo Barbelli, Giovan Battista Lucini, Mauro Picenardi, Angelo Bacchetta, Eugenio Giuseppe Conti, cui si aggiungono Alessandro Magnasco e Clemente Spera, Gaetano Previati. Dalla distrutta chiesa di Sant'Agostino provengono le maestose pale d'altare di Jacopo Palma il Giovane e Fra' Sollecito Arisi. Mentre da Palazzo Benzoni, ora sede della Biblioteca comunale, proviene una serie di 93 tavolette da soffitto. Una nutrita raccolta di sculture testimonia l'attività di Enrico Girbafranti, Achille Barbaro ed Amos Edallo. La sezione storia presenta una significativa collezione cartografica relativa al territorio cremasco con particolare riferimento alla dominazione veneta (1449-1797), cui si affiancano documenti, medaglie, sigilli, timbri, armi, divise che vanno dal XV al XX secolo ed un nutrito nucleo di reperti risorgimentali e garibaldini donati dal comm. Borgato di Milano.La sezione dedicata al teatro ed alla musica raccoglie testimonianze relative all'attività della Cappella musicale della Cattedrale, all'importanza dell'arte organaria cremasca, ma anche di musicisti e compositori come Francesco Cavalli, Giovanni Bottesini e Giovanni Vailati (celebre mandolinista cieco), di attori e scenografi attivi per il Teatro di Crema.Rilevante il settore grafica che raccoglie un nucleo di un migliaio di fogli con studi e progetti architettonici di Luigi Manini (1848-1936), scenografo del Teatro alla Scala, divenuto uno dei più apprezzati architetti attivi in Portogallo. La sezione etnografica, attraverso l'allestimento della Casa cremasca, con serva suppellettili, oggetti e strumenti necessari alla vita lavorativa e quotidiana nelle campagne di fine Ottocento. Parte della storia industriale della città è invece testimonianza dalla sala Restelli, dedicata alla produzione di macchine per scrivere, attività ampiamente diffusa a Crema nel corso del XX secolo attraverso le ditte Serio ed Olivetti.Nei chiostri del convento hanno trovato collocazione una serie di ferri battuti, antiche casseforti, lapidi, stemmi e monumenti scultorei che ricordano musicisti e notabili personaggi di Crema. Istituito alla fine del 1959, il Museo di Crema è caratterizzato da un nucleo di opere di proprietà dell'amministrazione comunale, depositi da parte di chiese della città di Crema, degli Istituti Ospedalieri e della Soprintendenza per i Beni Archeologici, cui si sono aggiunte numerose da donazioni di privati cittadini che con grande generosità hanno voluto dare illustrazione al patrimonio culturale cremasco. Le diverse sezioni costituenti il museo- archeologiche, storiche, artistiche ed etnografiche- illustrano la storia e la cultura del Cremasco dalla preistoria ai giorni nostri. row-ez2q~dbg8~jm3p Simboli dei quattro evangelisti, Motivi decorativi vegetali e zoomorfi Gandino Piazza Emancipazione La tovaglia quadrata è ricamata in seta color marrone chiaro su lino bianco a punto a doppia filza. Il ricamo leggero è steso a linea singola che solo in pochi punti si raddoppia. All'interno di una cornice con grandi foglie alternate sono organizzate decorazioni diverse stese su tutta la superficie: agli angoli vi sono quattro tondi con i Simboli degli Evangelisti, al centro una raggiera circolare con l'arme Giovanelli e intorno vari fiori e animali, tra cui l'aquila imperiale presente nello stemma dei committenti, disposti in modo simmetrico rispetto ai due assi mediani. Questa rara tovaglia è un interessante esempio cinquecentesco di ricamo su lino di area tedesca. Come indica la presenza dello stemma della famiglia Giovanelli al centro, il manufatto proviene dall'illustre casato gandinese, che probabilmente l'aveva fatto realizzare per proprio uso nell'ambito degli intensi rapporti commerciali instaurati con Vienna e la Germania nella seconda metà del Cinquecento. Giunta nella dotazione tessile della basilica di Gandino prima del 1639, la tovaglia è stata utilizzata in tempi recenti come drappo per coprire le bare dei bambini. Ricamata a doppio punto filza con lo stesso effetto di linea continua anche sul retro, è probabile che la tovaglia fosse utlizzata da entrambi i lati. Anche se all'interno della decorazione vi sono soggetti sacri la tovaglia è destinata alla tavola domestica, come conferma anche la scritta "Il Signore Iddio dà pane e vino, fare la preghiera e dite grazie. 1574", che esorta alla preghiera prima del pranzo. Questi tipi di ricami lineari su lino bianco, resi con un solo colore o al massimo due con effetto schematico e abbozzato, sono caratteristici della Svizzera e della Germania meridionale dal Cinquecento fino all'inizio del Seicento. row-7b8w.s99x_4yaj Polittico di Valle Romita Milano Via Brera, 28 row-sztq-qema-bdk8 Madonna in trono col Bambino tra San Nicola, San Francesco d'Assisi e il committente Antonio Fissiraga Lodi Piazza Ospitale All'interno di una cornice prospettica e bicroma è raffigurato un trono ligneo sormontato da una torretta verde con merlatura guelfa, due oculi con graticci; le cuspidi, decorate dai gattoni, racchiudono due monocromi: a sinistra un Santo eremita e centralmente San Giorgio che uccide il drago. Sotto il capocielo trapunto di stelle, siede la Madonna incoronata che regge il Bambino benedicente verso il committente Antonio Fissiraga che regge il modellino della chiesa e che indossa un'ampia guarnacca con collo di vaio, berretta con becchetto dello stesso colore e profilatura e ai calcagni gli speroni d'oro. Alle sue spalle il vescovo San Nicola e San Francesco d'Assisi che lo presenta alle figure sacre. Pende dall'architrave un uovo di struzzo. L'affresco, opera magistrale del Maestro della tomba Fissiraga rivela nelle figure allungate ed eleganti un orientamento di gusto pienamento gotico. Sono modellate con colori sfumati e racchiuse nell'umile scrigno del trono ligneo, possente nella struttura a edicola alleggertita dalla torretta traforata da oculi, mentre le cuspidi rivelano nell'uso del monocromo la conoscenza del ciclo dei Vizi e delle Virtù affrescato tra il 1303 e il 1305 da Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova. Allusione a questa decorazione è racchiusa anche nella figura di Antonio Fissiraga che dona il modellino della chiesa alla Vergine, diversa rispetto a quella odierna, così come Enrico dona la sua cappella alla Madonna della Carità. Il realistico uovo di struzzo che pende dall'architrave è forse memore della visione degli affreschi di Assisi e motivo già utilizzato in altre chiese francescane a testimonianza dell'Immacolata Concezione di Maria. Pur rivelando un linguaggio di matrice giottesca, il Maestro mostra qualche incertezza nella costruzione del trono ligneo, come il pilastrino tagliato per permettere di osservare nella sua completzza la scena dipinta. Il problema più dibattuto di questo affresco è la datazione, posta al 1327 dalla maggior parte degli studiosi, cioè al momento della morte di Antonio Fissiraga nelle carceri milanesi. Si deve a Boskovits l'ipotesi di considerare il 1327 come ante quem per l'opera, slegandola dalle sottostanti Esequie di Antonio Fissiraga del Maestro di San Bassiano, probabile allievo del Maestro della tomba Fissiraga. L'indagine sul dipinto fatta dalla scrivente, privo di qualsiasi documentazione, suggerisce un'altra possibile via, cioè che sia stato commisissionato dal Fissiraga stesso prima della sua prigionia milanese. Anche i dettagli della moda confortano questa ipotesi: il committente infatti indossa abiti che denotano non solo la sua estrazione sociale ma, soprattutto, la sua posizione di uomo libero, ulteriormente avvalorata dalla presenza degli speroni d'oro. La proposta di datazione, quindi, è quella di collocare l'esecuzione del dipinti murale fra il 1310 e il 1316 perr volontà del guelfo Signore di Lodi. row-y62j-y6u2.i4p7 Crocifisso di Teodote Pavia Piazza San Michele La fama della basilica di S.Michele è legata principalmente allo straordinario partito decorativo in arenaria, in realtà custodisce al suo interno un altro notevole capolavoro: il Crocifisso detto di Teodote, dal monastero di provenienza, il soppresso cenobio femminile di Santa Maria Teodote o della Pusterla (attuale Seminario Vescovile). E' un rarissimo manufatto di oreficeria ottoniana della seconda metà del X secolo, consistente in una croce di grandi dimensioni, alta due metri, in lamina d'argento sbalzata, con dorature diffuse, su anima lignea. Propone l'iconografia del "Christus Triumphans", in cui il Gesù crocifisso, in posizione frontale con la testa eretta e gli occhi aperti, vivo e ritto sulla croce, è ritratto come trionfatore sulla morte. Sono assenti i chiodi, la corona di spine, le ferite nelle mani, nei piedi e nel costato, il capo a tuttotondo è accuratamente lavorato e finemente caratterizzato nel dettaglio e nella fisionomia: con barba a due punte, capelli composti in linee uniformi parallele dorate, che spartiti sulla fronte da una scriminatura discendono sulle spalle e con vividi occhi resi con lapislazzuli e pasta vitrea blu. Alle estremità dei bracci della croce sono raffigurati, in alto entro due clipei le personificazioni del Sole e della Luna a indicare la doppia natura divina e umana di Gesù, a sinistra la Vergine e a destra S. Giovanni Evangelista, di profilo, entro tabelle rettangolari; inferiormente identificata da una iscrizione la committente Regingarda, badessa di S. Maria Teodote, affiancata dalla figura più piccola della Maddalena.La tradizione leggendaria ha considerato questo manufatto eccezionale una delle tre croci d'argento fatte eseguire da Abgaro, re di Edessa in Mesopotamia, nell'anno della morte di Gesù, le altre due sarebbero state inviate a Roma e a Gerusalemme. Alla figura storica del sovrano è legata la "leggenda di Abgar", riguardante il mandylion, una presunta raffigurazione del volto di Gesù su un telo che alcuni identificano con la Sindone, conservato inizialmente a Edessa.La Croce giunta in S. Michele nel 1799, viene posizionata nella prima cappella del braccio sud del transetto, inserita entro un'incorniciatura marmorea settecentesca, qui vi rimane sino al 1997, quando viene sostituita, perchè pertinente all'incorniciatura barocca in marmo, dal polittico ligneo a rilievo del XV secolo con "Cristo in Pietà, la Vergine col Bambino e Santi", unica opera superstite a Pavia della bottega Giacomo Del Maino e del figlio Giovan Angelo. Il Crocifisso viene quindi spostato nella nicchia simmetrica nel braccio settentrionale del transetto, restaurato nel 2002 e collocato in una teca climatizzata. row-cpm9~rwjz.y6ys Castiglione delle Stiviere Via Giuseppe Garibaldi, 50 La cassetta dei ferri chirurgici del dr. Pizzorno, medico che seguì le battaglie di Indipendenza Italiana, contiene 16 pezzi. E' presente una serie completa di coltelli per amputazione, compreso un coltello-sega (6° dall'alto). Si riconosce anche un trequarti per toracentesi, una pinza ossivora, uno scalpello per ossa (il ferro a forma di S), due trapani per la trapanazione del cranio con relativa impugnatura (sotto lo scalpello). Lo scomparto a sinistra contiene probabilmente una cannula endotracheale ed un'apribocca. Lo strumento simile ad un martello è una sega per sternotomia. Sono presenti anche: un altro trapano, uno scalpello a V, un'altra pinza ossivora, un uncino retrattore, una sonda di Nelaton, una sonda generica e due pennelli. Sono state infine identificate: una pinza per estrazione dei denti molari, una pinza per estrazione di calcoli vescicali attraverso l'uretere, una pinza ferma-teli o Backaus utilizzata per delimitare e bloccare i teli sul campo operatorio, un morsetto per chiudere tubi di cateteri, drenaggi, flebo ed un fornelletto ad alcool. La cassetta del dr. Pizzorno contiene lo strumentario per l'amputazione e la trapanazione del cranio che ogni medico in campagna militare doveva avere con sè, rispondendone addirittura con la vita. I due pennelli servivano per tenere pulito il campo operatorio quando si effettuava una trapanazione del cranio con esposizione della materia celebrale. La sonda di Nelaton era impiegata per reperire le pallottole all'interno dei tessuti: fu con questa sonda che l'inventore della stessa potè stabilire l'esatta ubicazione della palla di fucile che aveva ferito Giuseppe Garibaldi. Probabilmente è andata persa la sega per amputazione, dal momento che era uno strumento chirurgico indispensabile sul campo di battaglia. La pinza ossivora, la pinza per estrazione dentale e la pinza per estrazione di calcoli vescicali provengono dalla stessa manifattura così come documentato dalla zigrinatura sull'impugnatura. Tutti i ferri sono posteriori al 1859, potrebbero essere datati intorno agli anni Venti-Trenta, comunque tra le due guerre. E' da rilevare che tutti, ad eccezione della pinza per estrazione di calcoli vescicali e del morsetto, sono tuttora utilizzati. Il fornelletto ad alcool, per le sterilizzazioni estemporanee sul campo di battaglia, può essere datato all'epoca delle Guerre di Indipendenza. row-a962.qt4j-cju4 La baracca Gallarate Via De Magri, 1 Quest'opera polimaterica di Fausto Melotti è a tutto tondo ed è costituita da numerose parti unite attraverso l'impiego di un filo di ferro. Questo sospende le differenti componenti ad un'asta leggera anch'essa in ferro. In particolare all'asta sono sospesi un cilindro costituito da vari frammenti di ottone scuro saldati insieme, un cono, anch'esso in ottone, al quale è collegato in sospensione un disco metallico di minimo spessore, che ne esalta la levità dell'opera stessa. Quest'opera rappresenta la poliedricità del suo autore, che si potrebbe definire come personalità complessa del XX secolo appartenente al cultura dei decenni precedenti. Fausto Melotti, infatti, era fisico, matematico, ingegnere, musicista e musicologo, e per questa ragione la sua produzione artistica è prima di tutto concentrata sui dati invisibili della materia come il contrappunto, l'armonia, la sospensione, lo spazio, il vuoto, il pensiero, l'energia e la spiritualità. "L'opera d'arte nasce nel momento in cui tu vedi e ascolti - affermava - E questa data continuamente mutevole è la sua vera data di nascita". La scultura quindi non è un fatto materico dotato di forma definita e immutabile, ma un evento che esiste insieme all'osservazione dello spettatore e alla sua percezione dell'opera. È l'osservatore, dunque, ad interagire profondamente con l'opera che si offre alla sua visione come mutevole presenza che cambia aspetto in base alla luce, al punto di osservazione e ad altri eterogenee variabili.Quest'opera e la sua continua ricerca artistica nell'ambito del non visibile, materico e reale, rimanda ad altre emblematiche figure dell'arte italiana del Novecento, tra i quali Lucio Fontana e Carlo Belli, e, per alcuni aspetti, lo avvicina ad alcuni architetti razionalisti, quali Teragni, Figini e Pollini. row-frn7-ziu9_5rif Museo Archeologico Lomellino Gambolò Castello Litta-Beccaria, Piazza Castello Strutturato in quattro sale, espone circa 1200 reperti archeologici: nella prima sono ricostruiti i periodi della Preistoria e della Protostoria dell'area Lomellina; la seconda è dedicata alla storia del rito funebre, dal 1400 a.C. al II d.C.; la terza alla vita e al costume del periodo celtico (seconda età del ferro); la quarta testimonia l'età romana.I contesti archeologici documentati consistono principalmente in necropoli, i cui corredi funebri rappresentano un importante veicolo di conoscenza della cultura materiale delle varie civiltà che qui si sono succedute. Di sicuro interesse i corredi funebri della Prima Età del Ferro (900-396 a.C.) quando la cultura di Golasecca è rappresentata dalle sepolture a cremazione dalla Madonna delle Bozzole, quindi i corredi della Seconda Età del Ferro, appartenenti culturalmente all'area insubre e alle tribù liguri (Laevi) e celtiche (Marici), di questa fase sono illustrati l'abbigliamento maschile e femminile, la vita, il costume. A documentare l'evoluzione del rito funebre sono ricostruite alcune sepolture a cremazione e inumazione. Per l'età romana sono esposti i corredi funebri, in cui spiccano soprattutto i manufatti in vetro abbondanti nelle necropoli Lomelline del I sec. d.C., la coroplastica (divinità, coppie abbracciate, animali in terracotta), lucerne e ceramiche fini, tra queste esemplare di pregio è il vaso piriforme con rara decorazione dipinta a fasce e ondine nere. Il museo, fondato nel 1972 per volontà dell'Associazione Archeologica Lomellina, costituita proprio in quell'anno, e del Comune di Gambolò, nel 1976 viene inaugurato in una sede provvisoria e dal 25 ottobre 1986 ubicato nella prestigiosa sede del Castello Litta-Beccaria.Lo studio scientifico dei manufatti viene affidato alla dottoressa Gloria Vannacci Lunazzi, che cura anche il catalogo del museo. Il materiale raccolto è di proprietà dello Stato che lo ha concesso in deposito al museo. Nelle quattro sale espositive, allestite in un'ala al primo piano del corpo detto della "Manica Lunga" o "Loggia delle Dame, trovano degna collocazione entro bacheche in vetro i circa 1200 reperti archeologici provenienti dal territorio della Lomellina. row-bjvc-i2kx.ffq4 Sala degli Arcieri Mantova Piazza Sordello, 40 Il salone degli Arcieri costituiva il solenne ambiente d'ingresso dell'Appartamento Ducale ed è probabile che la denominazione sia da riferirsi al corpo di guardia che vi stazionava. Le parti alte delle pareti sono decorate da monumentali mensole sormontate da figure mostruose. Entro i riquadri si aprono tendaggi che nascondono paesaggi abitati da cavalli, di cui si intravedono solo le zampe e le code. Si tratta di una sorta di gioco che invitava gli osservatori a riconoscere la razza dell'animale dai pochi dettagli visibili. Nella Sala è oggi esposto il nucleo più celebre della pinacoteca del Museo di Palazzo Ducale con opere di Pieter Paul Rubens, Domenico Fetti, Antonio Maria Viani, Daniel van den Dijk. L'Appartamento Ducale, o di Vincenzo, venne fatto realizzare dal duca Vincenzo I Gonzaga all'inizio del Seicento su progetto di Antonio Maria Viani, al fine di ampliare gli spazi preesistenti della quattrocentesca Domus Nova. Pur nell'unità costituita dal carattere sontuoso e dalla vastità degli ambienti, gli apparati ornamentali delle singole sale presentano differenti soluzioni di gusto: in alcune stanze furono collocate decorazioni in legno dipinto e dorato provenienti dal Palazzo di S. Sebastiano, voluto dal marchese Francesco II nei primi anni del Cinquecento, mentre il grande salone degli Arcieri fu qualificato secondo canoni rispondenti al gusto più fantasioso del manierismo centro-europeo, importato a Mantova dallo stesso Viani che aveva lavorato a Monaco di Baviera. Il nucleo, che divenne in seguito residenza privilegiata di tutti i duchi di Mantova e del governatore austriaco, fu interessato da svariate operazioni di trasformazione e adattamento. row-xejx_tywm~a3jm Madonna con Bambino, sant'Andrea, san Nicola di Bari, santa Caterina d'Alessandria e donatore Bergamo Via Pignolo, 76 In un ambiente naturale aperto verso le montagne, che svettano contro il cielo rosato del tramonto, sono riuntiti in "sacra conversazione" la Madonna col Bambino, seduta su un trono, sul cui schienale pende un drappo in seta scura marezzata, e affiancata da santi: a sinistra compare sant'Andrea con la croce del suo martirio e a destra san Nicola vescovo con il pastorale, il libro e le tre sfere d'oro, con cui beneficiò tre fanciulle povere, e santa Caterina d'Alessandria con un grande libro in ricordo della disputa vinta con i filosofi. A sinistra su un piano inferiore rispetto a quello dei santi spunta il mezzo busto di profilo di un donatore a mani giunte, assorto nella contemplazione di Gesù Bambino. All'inizio del Cinquecento il pittore Francesco Rizzo di Bernardo, proveniente da Santa Croce, frazione di San Pellegrino in Val Brembana, è l'erede della bottega veneziana del conterraneo Francesco di Simone. La loro bottega è detentrice di una modalità artigianale di svolgere la professione e si affida frequentemente alla rielaborazione di idee di Giovanni Bellini, patriarca della pittura veneziana del tempo, ma anche di altri indiscussi maestri come Mantegna e Antonello da Messina, fermate in disegni tenuti in grande considerazione e trasmessi da maestro ad allievo per la continuazione dell'attività. A tali disegni tratti dagli originali di Giovanni Bellini a Venezia possono essere ricondotte molte delle sue Sacre conversazioni che presentano innumerevoli variazioni sul tema ma sono sostanzialmente monotone. L'opera in oggetto era destinata con ogni probabilità a ornare l'altare di una cappella patrizia in una chiesa, dove, a tempo debito, sarebbe stata collocata anche la sepoltura del donatore, raffigurato a mani giunte in basso a sinistra, come era avvenuto per la "Sacra conversazione Dolfin" di Bellini (1507), ubicata nella chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia. L'attribuzione a Francesco Rizzo è indubbia e l'esecuzione dell'opera dovrebbe cadere nel periodo tra il 1518 e il 1529, durante il quale l'artista realizza diverse opere per il territorio bergamasco (a Dossena, Nasolino, Lepreno, Endine), pur rimanendo ad abitare a Venezia. row-u8j7~kuq5-gmr9 Orsetti Welles Briosco Via Col del Frejus, 3 Scultura in acciaio Corten raffigurante un agglomerato di orsetti di differenti dimensioni fusi insieme l'uno nell'altro a creare un unico blocco. A seconda del punto di vista da cui si osserva la scultura, degli ordi sono visibili solamente alcune parti quali, ad esempio, la testa, vista di fronte, di profilo o da dietro, oppure l'intero corpo, nel quale si fondono sempre nuovi pezzi di altri orsetti. L'opera, esposta all'aperto, è alta circa 250 cm e larga 150 cm. L'opera, realizzata in 3 esemplari nel 2000 dallo scultore Erik Dietman (1937-2002), appartiene alla collezione di scultura contemporanea della Fondazione Pietro Rossini. Quella con l'artista svedese è una delle più costanti collaborazioni intraprese tra l'imprenditore e collezionista brianzolo Alberto Rossini e gli artisti della sua collezione. Dietman gli venne presentano da un amico comune, Jany Birdais, e da questo incontro nacque un rapporto di sincera amicizia, che sfociò in una proficua e continuativa collaborazione che perdurò fino alla morte dell'artista avvenuta nel 2002. Questa si trasformò anche in una serie di commissioni per opere da collocare all'interno del Parco di sculture di Briosco. Per la realizzazione di queste ultime vennero messi a disposizione di Dietman molti dipendenti e quasi tutti i settori dell'attività produttiva dell'azienda di famiglia, la Ranger Italiana S.p.A., compreso l'ufficio progetti e gli stessi figli di Rossini, che parteciparono attivamente alla creazione delle sculture. Tutte le opere realizzate presso la ditta, imponenti per dimensioni ma bizzarre a livello di soggetto, vennero prodotte a partire da un modello in legno realizzato manualmente dall'artista, la cui immagine fu in azienda digitalizzata e sviluppata in forma tridimensionale: una volta realizzata la composizione CAD, i dischi in acciaio Corten vennero tagliati, sovrapposti e sottoposti a fresatura con macchine a controllo numerico. La rifinitura dell'opera fu infine realizzata mediante trattamenti di sabbiatura e lucidatura della superficie.Il soggetto di quest'opera, "Orsetti", non è nuovo nella produzione di Dietman, ed è legato ad una matrice post-dadaista che parte dalla ricerca dell'object trouvè, l'oggetto comune che si trasforma in opera artistica. Questa scultura infatti deriva da un modello reale, l'Orsetto Bjorn, un comune peluche che l'artista svedese ha modificato, trasformato, ingrandito e riassemblato in una sorta di ready-made tecnologico. Dietman in un certo senso in quest'opera medita sulla vera natura dell'animale, che per la sua rotondità e le forme conosciute riporta alla dimensione dell'infanzia, tanto ludica, quanto memore di una serie di istinti primordiali che fanno parte delle prime fasi dell'evoluzione: per un artista appartenente alla generazione del secondo Dopoguerra, condizionato dall'orrore del conflitto mondiale e dell'Olocausto, infatti, le figure della leggerezza infantile e dell'innocenza diventano una via per esorcizzare quanto accaduto storicamente. Nella presente scultura l'orso ha abbandonato la propria natura solitaria e si trova circondato da una montagna di orsi più piccoli che si sono fusi insieme e trasformati in un colosso, ad omaggio del gigante del cinema Orson Welles, cui è riferito anche il titolo. row-xfbn-9472.a49t Fondo Carrara Bergamo Piazza G. Carrara, 82 Il Fondo Carrara -il più corposo tra quelli che costituiscono la Pinacoteca dell'Accademia Carrara- è rappresentato da 888 opere di varia origine. Un cospicuo numero di opere proviene dalla collezione del conte Giacomo Carrara, che, nel 1796, morendo lascia ad uso dell'Accademia Carrara, che comprendeva la Galleria e la Scuola di Pittura, da lui fondata, la sua ricca galleria di dipinti oltre ai disegni, alle stampe, alle medaglie e ai libri antichi. Parte dei dipinti provengono invece dal legato Orsetti. Altri legati arricchiscono il Fondo, come quelli di Carlo Marenzi, di Ludovico Petrobelli, della famiglia Secco Suardo e di Luigi Trécourt. Confluiscono, inoltre, nel Fondo Carrara i legati Frizzoni, Baglioni, Marenzi, Piccinelli, Gallicciolli, Caleppio e Presti Tasca, nonché i legati di Giovanni Marenzi e di Cesare Pisoni. Ereditate casa, collezione e sostanze paterne, il quarantenne Giacomo Carrara, erede di una facoltosa famiglia bergamasca, si reca a Roma nel 1757-58 in visita al fratello Francesco, per poi tornare a Bergamo e sposare nel 1759 la cugina Marianna Passi, da cui avrà un unico figlio, morto in fasce. Così la vita di Giacomo si svolgerà quasi costantemente a Bergamo, nell'impegno per l'accrescimento della collezione, oltre che nella raccolta di materiali sulla storia della pittura in città e nel territorio; studi che confluiranno nelle "Vite dei Pittori, Scultori ed Architetti bergamaschi" di Francesco Maria Tassi. Della ricchissima pinacoteca formata da Giacomo abbiamo un quadro completo nell'inventario redatto nel 1796 da Bartolomeo Borsetti, che fu per diciassette anni di restauratore della raccolta. Risulta un elenco di 1275 dipinti, suddivisi in undici sale secondo la tipica disposizione delle quadrerie settecentesche su più registri in altezza sulla parete e secondo un ordinamento che prevedeva alcune sale dedicate ai letterati, ai pittori, agli storici, ai poeti. Questi ambienti erano destinati anche ad una Scuola di Belle Arti e per questo era a disposizione degli allievi un cospicuo fondo di disegni e stampe antiche, ancora presente in Accademia Carrara. row-wfkh-h9t2.j35f Virgilio in cattedra Mantova Largo XXIV Maggio, 12 La scultura in marmo rosso di Verona rappresenta Virgilio seduto in cattedra, ritratto nell'atto di scrivere con stilo e tavoletta. L'opera è stata attribuita ad un maestro della scuola campionese di Verona, con una datazione che ancora oscilla tra la fine del XII e il primo quarto del XIII secolo. Il visitatore può ammirare l'altorilievo all'interno della sezione La città del principe, che mette in relazione le opere patrocinate dal principe e le modifiche sociali, politiche e territoriali promosse dai protagonisti della scena culturale italiana del Rinascimento. L'opera era in origine collocata sull'esterno di Palazzo della Ragione. L'edificio, situato al centro della città, rappresentava assieme al Palazzo del Podestà il governo comunale. Successivamente viene spostata all'interno, nel salone in cui si amministrava la giustizia. Gli studiosi sottolineano l'importanza storica di questa scultura quale simbolo riconosciuto dell'intera città. Virgilio, il più alto esponente della poesia latina, diventa così nume tutelare di Mantova, sua città natale, come indirettamente dimostrato anche dalla fitta presenza di questa stessa effigie nella monetazione comunale del XIV secolo. row-xxri_ever~3xzg Rosa Tirano Piazza Basilica, 30 Questo bell'esemplare di stampo per il burro è costituito da una formella di legno cava munita di impugnatura lungo uno dei lati minori. Il fondo dello stampo presenta il disegno intagliato concavo di una rosa il cui stelo reca sei foglie, il fiore è incorniciato da una greca geometrica di decorazione. In ambito montano l'uso di decorare le formelle di burro è assai diffuso. Tale azione, oltre ad una evidente valenza decorativa, serviva a marchiare i panetti di burro con un simbolo o una scritta che ne individuassero il produttore e la provenienza, una sorta di "marchio di qualità". Il burro estratto dalla zangola veniva impastato per privarlo dell'acqua, o latticello, e quindi pressato nello stampo; quest'ultimo, che veniva immerso in acqua bollente e poi in acqua fredda, gli imprimeva il disegno decorativo a bassorilievo intagliato sul fondo. L'esemplare del Museo Etnografico Tiranese, esteticamente molto ben curato, proviene dal comune di Castello dell'Acqua e risale verosimilmente all'Ottocento. row-g3am-74ak.wgqu Armeria Museo Morando Bolognini Sant'Angelo Lodigiano Piazza Bolognini, 2 L'armeria è stata allestita agli inizi del Novecento dal conte Morando Bolognini e si è mantenuta quasi intatta nella sua impostazione originale di gusto ottocentesco e romantico. L'allestimento, pur non rispondendo ai canoni di sistemazione scientifica, intesa come rispetto delle tipologie e delle epoche, offre un colpo d'occhio generale di notevole suggestione, anche grazie ai bei decori murali della vola della sala che raffigurano un pergolato e tralci di piante. Di particolare interesse risulta una "rotella da parata" di bottega lombarda del XVI secolo, che mostra nella parte centrale una scena di battaglia fra cavalieri, lavorata in parte a sbalzo e in parte a incisione, oppure le armi bianche di lusso di provenienza europea e orientale. Anche le armature, quasi tutte databili fra la fine del 1500 e l'inizio del 1600 e di provenienza bresciana, sono di ottima fattura, tra cui quella con la croce dei Cavalieri di Malta oppure quella di origine persiana del XVIII secolo in maglia di ferro e placche ageminate in argento. L'armeria riunisce circa 300 pezzi prevalentemente dei secoli XVI e XVII e alcuni rifacimenti romantici del 1800. Tra i vari oggetti si segnala una "rotella da parata", schinieri (parte di armatura a protezione delle gambe) e scarpe di ferro, armi bianche di lusso, armi in asta (alabarde, corsecche, picche, falcioni, brandistocchi, ecc..), armature e armi bianche lunghe di varia tipologia. row-r8gi_7an2-hfcb Il Quarto Stato Milano Piazza Duomo row-khkz~vg4s_x5in Somma Lombardo Via per Tornavento, 15 Il De Havilland DH.100 Vampire è stato il primo caccia a reazione ad essere impiegato dall'Aeronautica Militare ed il primo costituito dall'industria italiana. Il velivolo ha una lunghezza di 9.37 m, con un'apertura alare che raggiunge gli 11.58 m per un'altezza pari a 1.87 m, può raggiungere un peso massimo al decollo di 5.620 kg. Il motore è un turbogetto De Havilland Goblin 3 da 1.520 Kg-spinta che gli permette prestazioni, quali una velocità massima di 880 Km/h e un'autonomia di percorrenza di 1.965 km con serbatoi ausiliari. Monoplano ad ala media, il Vampire è dotato di fusoliera corta che termina con lo scarico del motore, posizionato subito dietro alla cabina di pilotaggio con le prese d'aria ricavate nello spessore dell'ala, direttamente a contatto con la radice alare. Dalla sezione mediana delle due semiali partono le travi di coda che terminano con i piani verticali collegati fra loro da un piano orizzontale, dotato di equilibratore nel bordo d'uscita. Lo scarico del turbogetto è direzionato in modo da indirizzare il flusso d'aria al di sotto del piano orizzontale di coda. La vetratura della cabina di pilotaggio presenta due montanti nella parte anteriore, nelle versioni biposto i due componenti dell'equipaggio sono disposti affiancati. Il carrello è del tipo triciclo anteriore, con la ruota anteriore disposta all'estrema prua, le gambe posteriori agganciare alle semiali, in corrispondenza delle travi di coda, si ritraggono verso l'esterno nello spessore alare. In tutte le versioni l'armamento è composto da quattro cannoni Hispani Mk V disposti all'estrema prua, nella parte inferiore della fusoliera. Nella versione FB5 la struttura alare venne irrobustita e vennero introdotti due piloni subalari, disposti all'esterno delle travi di coda, utilizzati per il trasporto di carichi offensivi per un peso complessivo massimo di 900 Kg. Tali piloni alari potevano essere utilizzati in alternativa per appoggiare i serbatoi supplementari di carburante. Il DH.100 nasce da una specifica della Royal Air Force britannica, il progetto del Vampire nasce nel 1941 e fu collaudato il 26 settembre 1943 da Geoffrey De Havilland; dal 1944 ne furono costruiti in sei Paesi oltre 4.000 esemplari utilizzati da oltre 30 forze aeree. E' stato il secondo jet da combattimento britannico ad entrare in servizio, preceduto dal Gloser Meteor, ma pur volando nella versione di serie nel 1944 non fece in tempo ad entrare in linea prima della fine della guerra. Facilmente riconoscibile per la configurazione a doppio trave di coda ebbe straordinaria diffusione nel dopoguerra; facile da pilotare, aveva la sua unica innovazione nel motore a getto. Le molte versioni prodotte trovarono impiego in diversi ruoli, quali intercettore puro, cacciabombardiere, caccia notturno ed addestratore. Il considerevole successo commerciale è la conseguenza della validità e della versatilità di questo progetto. Nel periodo di massimo impiego il Vampire fu impiegato contemporaneamente in 19 diversi reparti, schierati in Europa, In Medio e Estremo oriente. I vampire FB 5 vennero impiegati in missioni di attacco durante l'insurrezione della Malesia alla fine degli anni quaranta. Il Vampire fu acquistato da numerose forze aeree e per molte di esse rappresentò il primo velivolo a reazione. L'Italia ne acquistò la licenza nel 1949 utilizzando le riserve di sterline della Banca d'Italia, il cui valore era crollato per la svalutazione inglese. Furono prodotti 195 Vampire FB.52A, dei quali 89 usciti dalla linea di montaggio Macchi. Insieme a 19 aerei di produzione inglese, equipaggiarono dal 1949 al 1959 la scuola di Amendola, tre stormi (4°,6°e 2°) ed alcuni reparti minori dell'Aeronautica Militare. Con quattro Vampire guidati dal tenente G.B. Ceoletta, in seno al 4° Stormo, nacque nel 1952 la prima pattuglia acrobatica ufficiale italiana. Nel 1956 (durante la crisi di Suez) la Macchi esportò in Egitto 58 Vampire ricondizionati. row-p28e-i3mj~w75d Pinacoteca Malaspina Pavia Castello Visconteo, Viale XI Febbraio, 35 Il percorso espositivo prevede una selezione di oltre duecento dipinti italiani e d'Oltralpe dal XIII al XVI secolo ordinati per scuola pittorica e distribuiti in tre sale al piano nobile. Nella I sala opere da collezioni private e chiese, notevole il nucleo di dipinti trecenteschi su tavola: la 'Madonna col Bambino tra i SS. Francesco e Chiara' di Gentile da Fabriano, 'S. Agostino in cattedra' attribuito a Jacobello di Bonomo e tre tavolette di un polittico portatile di Jacopo del Casentino. La scuola veneta è rappresentata da autentici capolavori: la 'Veronica' di Giambono, la 'Madonna col Bambino' di Giovanni Bellini, il 'Redentore' di Cima da Conegliano, il 'S. Girolamo penitente' del Veronese e i 'SS. Francesco e Giovanni Battista' di Alvise Vivarini; quella toscana e quella emiliana da una 'Sacra Famiglia' di Correggio, dallo 'Sposalizio della Vergine' del Garofalo, dalla 'Madonna col Bambino e S. Giovannino' di Andrea del Sarto. Tra gli esempi più alti il 'Ritratto d'uomo' di Antonello da Messina. A testimoniare la scuola d'Oltralpe la 'Madonna col Bambino' di Hugo van der Goes e il 'Re Francesco I' dell'ambito di Clouet; tra i 'leonardeschi' Bernardino Luini e Giampietrino. Nel nucleo più cospicuo, costituito da opere lombarde, due capolavori: la 'Pala Bottigella' realizzata da Foppa per i coniugi Giovan Matteo Bottigella e Bianca Visconti e il 'Cristo portacroce' eseguito da Bergognone per la Certosa di Pavia. A conclusione del percorso, in sala torre, il modello ligneo del Duomo di Pavia di G.P. Fugazza del 1497, uno dei più grandiosi modelli lignei rinascimentali conservati. L'intitolazione della pinacoteca antica è un doveroso omaggio a Luigi Malaspina di Sannazzaro, collezionista d'arte e mecenate, cui si deve la fondazione nel 1833 del primo museo pavese, lo 'Stabilimento di Belle Arti' in piazza Petrarca, per ospitare una collezione privata destinata a pubblica fruizione. Passata al Comune nel 1880, la raccolta nel 1951 viene trasferita in castello. La sezione accoglie anche un corpus di quadri del legato G. C. Francesco Reale, opere provenienti dalla Galleria della Civica Scuola di Pittura, lacerti di affreschi da chiese e da prestigiosi palazzi cittadini e dipinti di vari collezionisti. row-v4un~hrtc~3sy4 Collezioni del Museo Etnografico dell'Alta Brianza - MEAB Galbiate Via Camporeso Il Museo Etnografico dell'Alta Brianza ha acquisito in alcuni anni di raccolta circa 2.500 oggetti che documentano la cultura della popolazione rurale della Brianza collinare raggruppate nelle sezioni tematiche dedicate alla bachicoltura, all'agricoltura tradizionale, alla cucina e all'alimentazione, alla cantina, alla stalla, al trasporto e al flauto di Pan; comprende anche una sezione staccata, dedicata alla caccia e all'uccellagione, che ha sede presso il Roccolo di Costa Perla, sulla strada che sale verso l'Eremo di Monte Barro. Le collezioni del museo sono costituite però anche da documenti sonori, filmati e fotografie d'epoca. Una sala, inoltre, è dedicata ai beni immateriali (canti, racconti, cerimonie, feste, conoscenze, credenze, tecniche produttive) e al dialogo antropologico che fonda il museo, mentre un ampio spazio è destinato alle mostre temporanee su vari temi della ricerca etnografica, in particolare in Brianza e nel Lecchese. Le collezioni sono ospitate in uno spazio espositivo - circa 600 metri quadrati - che è stato per secoli e fino a qualche decennio fa occupato dalle abitazioni e dalle stalle di alcune famiglie di contadini, divenuti operai nel '900. Questo spiega l'idea originaria del museo: quella di documentare e studiare la cultura della popolazione rurale, che ha caratterizzato con la sua presenza e il suo lavoro la Brianza collinare, rappresentata emblematicamente nel borgo e nei dintorni di Camporeso. Oggi, dunque, quegli stessi spazi raccontano i lavori, le tradizioni, le credenze e le forme espressive delle classi popolari dei secoli XIX e XX. L'illustrazione delle varie tematiche è affidata anche a filmati, registrazioni e fotografie, la cui raccolta è iniziata nel 1998, grazie al coinvolgimento di ricercatori, testimoni e istituzioni che hanno scelto di contribuire in maniera diretta a questo progetto. row-zrs5-sgxr~b93j Cristo in gloria tra angeli, i quattro Evangelisti e due monaci gerolomini, Caino uccide Abele, David e Golia, Sibille, Resurrezione di Lazzaro, Cristo e l'adultera, Sacrificio ebraico, Benedizione di Isacco, Angeli con i simboli della Passione Cremona Piazza del Comune Camillo Boccaccino dipinge l'abside ed il presbiterio.Nel catino absidale affresca il maestoso Cristo in gloria tra figure angeliche, i quattro Evangelisti e due monaci gerolomini, scena che spicca per ardimento compositivo e violenza cromatica. Al centro della volta colloca figure di Angeli che sorreggono gli strumenti della passione, mentre nei tondi l'Uccisione di Abele, la Benedizione di Isacco, Davide e Golia e un sacrificio ebraico. Seguono fasce decorative di ispirazione pompeiana alternate a quattro finte nicchie con le Sibille.Ai lati del presbiterio, nel fregio della trabeazione colloca una teoria di putti reggifestone e tondi a rilievo con i busti di Bianca Maria e Francesco Sforza, del figlio Galeazzo e del nipote Gian Galeazzo. Angeli, ghirlande, suppellettili e strumenti a corde popolano le lesene che scandiscono lo spazio delle pareti.Sulle pareti del presbiterio due ampie scene dedicate a Cristo e l'adultera (a sinistra) e la Resurrezione di Lazzaro (a destra). Nel 1535, col sostegno di Francesco II Sforza, prende avvio la decorazione della chiesa di San Sigismondo. I monaci gerolomini stipulano un contratto con Camillo Boccaccino per la realizzazione degli affreschi dell'abside e della volta del presbiterio. Dai disegni preparatori emerge che Camillo ricerca nuove formule decorative e ornamentali che tengano conto delle novità provenienti dai centri vicini (Mantova con Giulio Romano e Parma con Parmigianino).Nel catino absidale, ispirandosi all'impianto fortemente illusionistico realizzato da Correggio a Parma in San Giovanni, dipinge il Cristo in gloria tra figure angeliche, i quattro Evangelisti e due monaci gerolomini, scena che spicca per ardimento compositivo e violenza cromatica, e documenta il personale linguaggio del pittore basato su suggestioni pordenoniane, influenze di cultura veneta, mantovana (Giulio Romano) ed emiliana (Correggio, Parmigianino).Al centro della volta colloca figure di Angeli che sorreggono gli strumenti della passione, mentre nei tondi vi sono storie bibliche tratte dal Vecchio testamento che prefigurano la Passione di Cristo (Uccisione di Abele, Benedizione di Isacco a Giacobbe, Davide e Golia e un sacrificio ebraico). Seguono fasce decorative di ispirazione pompeiana alternate a quattro finte nicchie con le Sibille.Ai lati del presbiterio, nel fregio della trabeazione colloca una teoria di putti reggifestone e tondi a rilievo con i busti di Bianca Maria e Francesco Sforza, del figlio Galeazzo e del nipote Gian Galeazzo.Nel 1540 Camillo Boccaccino dipinge sulle pareti del presbiterio due ampie scene dedicate a Cristo e l'adultera (a sinistra) e sul lato destro la Resurrezione di Lazzaro, dove giunge ad esiti di estrema originalità e sottile sperimentazione manieristica. Gli occhi dei personaggi appaiono oggi privi di pupille, poichè l'artista aveva le aveva realizzate a secco con un legante proteico ed il colore è andato perso nel corso del tempo. La decorazione di San Sigismondo segna una profonda svolta nella pittura cremonese in direzione della "maniera" e diviene luogo di sperimentazioni compositive, arditezze illusionistiche e chiaroscurali. row-j9vy~nd7n-xu3d Giuseppe e la moglie di Putifarre Lovere Via Tadini, 40 L'opera raffigura un episodio dell'Antico Testamento incentrato su un tentativo di seduzione fallita. Protagonisti della scena sono la moglie di Putifarre, capo delle guardie del Faraone, e il servo Giuseppe che, dopo l'ennesimo tentativo di adescamento da parte della donna, si dà ad una fuga tanto precipitosa da lasciar cadere un pezzo della sua tunica. La donna si vendicherà dell'umiliazione e, usando la veste come prova, accuserà Giuseppe, che viene subito imprigionato. La composizione è pervasa da un'atmosfera tenebrosa che contrasta con la forte luminostà del corpo nudo della donna. Tutto si svolge con una gestualità accentuata. Una tenda vaporosamente panneggiata sullo sfondo schiaccia la scena in primo piano negando ulteriori rimandi ambientali. Acquistata dal conte Luigi Tadini insieme alla "Susanna al bagno", la bella tela raffigurante "Giuseppe e la moglie di Putifarre" fa parte della produzione, particolarmente apprezzata dai collezionisti, di Carlo Francesco Nuvolone, grande interprete del Barocco lombardo formatosi all'Accademia Ambrosiana di Milano con il padre Panfilo prima, e con il Cerano in seguito. Inizialmente attribuita a Guido Reni e allo stesso Panfilo Nuvolone, l'opera è stata restituita a Carlo Francesco, detto Panfilo come il padre. La gestualità accentuata e l'esibizione di un nudo femminile seducente, perfettamente in linea con la destinazione privata delle opere e con il linguaggio barocco della metà del XVII secolo, consentono di datare la tela tra il 1645 e il 1650. row-gu9k_vjjp-zs78 Gloria di san Filippo Neri Lodi Corso Umberto I, 63-65 Al centro della volta della biblioteca dei Filippini è raffigurata la Gloria di San Filippo Neri. In alto, fra le nubi, compare Sant'Agnese, dall'abito candido, che regge un piccolo agnello sul libro, mentre gli angeli svolazzanti si avvicinano alla parte inferiore dove un angelo regge la croce con Cristo Crocifisso mentre davanti a lui è posto il Santo presentato da San Nicola da Tolentino, riconoscibile per l'abito agostianiano e per il sole sul petto. Conclude la scena un angelo isolato che regge nella mano destra un candido giglio. L'antica biblioteca dei Filippini è un ambiente di grande suggestione, in quanto conserva ancora gli arredi lignei, di gusto prettamente rococò e caratterizzati da intagli con motivi di fiori e foglie, eseguiti da Angelo Cavanna. Aperta al pubblico nel 1792 su invito del governo austriaco, in seguito alle soppressioni francesi si arricchì dei fondi librari provenienti da altri monasteri della città come quello olivetano di S. Cristoforo e quello agostianiano di S. Agnese. Sulla volta l'affresco eseguito dal pittore milanese Federico Ferrario che si integra perfettamente nell'uso dei colori chiari e luminosi, negli scorci e nell'uso della diagonale, al gusto settecentesco della sala. Dal 1802 diviene proprietà della città di Lodi, costituendo il primo nucleo dell'attuale Biblioteca Laudense, che tuttora l'amministra. row-euhv.rr8c_ht4v Cristo crocifisso con la Madonna e San Giovanni Evangelista, Cristo Pantocratore con il Tetramorfo Sondrio Via Maurizio Quadrio, 27 Antichissima e preziosa, l'insegna processionale proveniente da Ambria per la sua forma è definita a "croce latina potenziata", poiché presenta superfici quadrangolari allargate all'incrocio dei bracci e alle estremità. Il fronte è realizzato con lamine d'argento sbalzate, cesellate e in parte dorate applicate ad un'anima di legno, che riproducono le immagini del Crocifisso al centro, di Maria e Giovanni dolenti nei riquadri del braccio orizzontale, di un angelo e di un'altra figura non identificata all'apice e al fondo della croce. Negli spazi tra i personaggi sono inserite gemme colorate lavorate a cabochon e piastrine di vetro. Il retro del manufatto, in un'unica lastra di rame dorata, è lavorato a bulino e fittamente punzonato sullo sfondo per dare risalto all'elegante figura di Cristo Pantocratore in trono entro un cerchio sorretto da quattro angeli. Le terminazioni dei bracci mostrano i simboli degli Evangelisti. Il supporto reggi-asta con sfera e i 19 cristalli di rocca sfaccettati sono stati aggiunti successivamente. Nulla o quasi si conosce della storia di questo manufatto prezioso, se non che proviene dalla chiesa di S. Gregorio di Ambria, un piccolissimo borgo ormai disabitato sul versante orobico valtellinese. Nascosta a lungo dai fedeli per paura che venisse rubata, da pochi anni la croce è esposta al Museo di Sondrio. Per varietà dei materiali e qualità formale questa opera di oreficeria sacra può essere considerata un unicum nel panorama locale, a fronte dei rari esempi di oreficeria medievale giunti sino a noi. L'analisi stilistica porta ad attribuirne l'esecuzione a una bottega lombarda attiva nel XII secolo. Il lato frontale della croce può essere messo in relazione con i crocifissi monumentali in lamina d'argento sbalzata e dorata di area padana di Vercelli, Pavia e Casale Monferrato (X-XI sec.). Il retro della croce è molto simile a quelli di una serie di lamine del XII secolo prodotte in ambito nord-italiano quasi identiche per soggetto, dimensioni e lavorazione; una di queste è esposta presso le Civiche Raccolte d'Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano. row-c84k.w7pc-sskz Milano Via Manzoni, 12 row-yp2t-93ae~673f Conversione dell'Innominato Lecco Via Don Guanella, 1 Nel dipinto è rappresentato l'incontro tra il cardinale Federico Borromeo e l'Innominato, narrata nel XXIII capitolo de "I Promessi Sposi"; all'interno di una cappella l'Innominato si piega in avanti, portandosi una mano al volto, mentre il cardinale Federico Borromeo alza gli occhi al cielo e allarga le braccia. Il raggio di luce, che penetra dalla finestra e colpisce i due protagonisti assume il valore, altamente simbolico, della grazia divina. L'opera fu eseguita da Arcangiolo Birelli (1859-1928) verso la fine del XIX secolo. Si ispira a un'incisione di Domenico Gandini, tratta dalla tela del pittore bolognese Alessandro Guardassoni, che fu esposta a Brera nel 1857 e, poi, andò dispersa. row-exya~y2xy.gukx Resurrezione di Cristo Varese Via Cola di Rienzo, 42 L'opera è un olio su tavola di formato rettangolare con orientamento verticale. Il dipinto è dominato dalla figura di Cristo, in piedi, seminudo, coperto solo da un panneggio bianco che gira tutto intorno al suo corpo. Gesù ha lo sguardo rivolto verso l'alto, il braccio destro disteso lateralmente mentre quello sinistro si leva in aria, reggendo la cordicella cui è legato lo stendardo crociato sventolante, intuibile appena poiché tagliato fuori dall'inquadratura. La testa e il corpo di Cristo sono circondati da nuvole rossastre, unico dettaglio ambientale percepibile poiché illuminato dalla luce che si espande dalla figura di Gesù, mentre il resto dello sfondo rimane immerso nell'ombra. Ai piedi di Gesù, tra soldati giacciono a terra impossibilitati a rivolgere lo sguardo verso di lui: sulla destra, un soldato di spalle, inginocchiato a terra, si copre a fatica il volto con lo scudo; sulla sinistra, un'altro soldato giace a terra supino, con la mano sinistra di copre il volto mentre soleva la destra verso l'alto, in direzione di Gesù; alle sue spalle, un terzo uomo ancora, di cui si intravede solo il capo coperto dall'elmo, si nasconde il volto nell'incavo nel braccio, poggiato su un gradino in pietra. Il dipinto fu acquistato nel 1995 presso la Compagnia di Belle Arti, dopo che era stato pubblicato per la prima volta nel volume "Pittura Lombarda 1450-1650" con l'autografia a Giulio Cesare Procaccini e una datazione suggerita intorno al 1619-20, sulla base di una probabile provenienza dalla collezione del nobile genovese Giovan Carlo Doria (1576-1620), nel cui inventario compare fra le numerose opere di Procaccini, una "Resurrezione" assente nei documenti precedenti il 1619.Ad oggi permane l'attribuzione al Procaccini ma incerta è invece la datazione, che ha diviso la critica su due differenti ipotesi: la prima ha collocato l'opera tra il 1610 e il 1615, anni della maturità pittorica dell'artista; mentre altri studiosi hanno suggerito una datazione compresa tra il 1607 e il 1609, di poco precedente alla realizzazione del "Martirio di San Sebastiano" per la chiesa di S. Maria presso S. Celso a Milano (ora al Musées Royaux di Bruxelles), con la quale sono state ritrovate notevoli affinità.L'opera potrebbe considerarsi uno dei suoi "bozzetti autonomi", ovvero una particolare produzione costituita da prove di piccolo formato eseguite dall'artista, differenti per livelli di finitura e libertà compositiva. In questa tavola la figura di Cristo appare condotta con estrema finezza nella resa dell'incarnato e nell'espressione dolce del volto, reminiscenze della pittura correggesca, mentre ai soldati viene riservato un uso più preponderante del chiaroscuro, per accentuare l'intensità dinamica dei loro moti contrapposti. Evidente è il debito dell'artista con la scultura, sua prima esperienza artistica prima di giungere alla pittura: ricordi michelangioleschi sono evidenti nella figura del soldato a sinistra, mentre al Giambologna si può ricondurre la posa delle gambe del Cristo. La cornice del dipinto è stata acquistata dall'Associazione Amici dei Musei presso Edoardo Testori e poi donata al Civico Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Castello di Masnago contestualmente all'acquisto del dipinto. La tavola è stata sicuramente restaurata ma al Castello di Masnago non c'è traccia di alcun intervento, forse avvenuto prima che l'opera fosse acquistata dal Comune di Varese. row-th3c.uie6~3iym Composizione pentagonale Gallarate Via De Magri, 1 L'opera, di taglio rettangolare e disposta orizzontalmente, rappresenta una serie di figure astratte tracciate da una linea nera di contorno, in alcuni punti piuttosto spessa, e da un certo numero di soggetti riconoscibili e trattati in modo geometrico, come il pesce, l'occhio, il serpente, le scale, la strada, le finestre e un profilo di donna. Al centro della composizione le linee confluiscono in modo tale da generare il pentagono che dà il titolo al dipinto. Come in altre opere del'artista le sfumature cromatiche sono calde e sono giocate sui toni bruni. Qui, inoltre, prevale la linea retta che si armonizza con alcune linee curve. Quest'opera appartiene certamente al periodo nel quale l'artista aderì all'Astrattismo e al Concretismo italiano. Nel dipinto, infatti, il linguaggio astratto proprio di Radice si mescola a quello figurativo, tipico del periodo bellico. Nell'opera sono infatti riconoscibili alcune strutture architettoniche e alcuni elementi naturalistici, che riflettono il particolare momento creativo dell'artista.Emblematica è anche la presenza del pentagono, originato dall'incastro di figure poste apparentemente su piani differenti, che da origine al nome. In qualche modo quest'opera si collega ai dipinti di Radice eseguiti negli anni Quaranta, in cui l'artista si dedica alla pittura figurativa realizzando una serie di opere note come "Crolli", dai quali al termine della Guerra Radice si distacca, tornando alla produzione astratta. row-n7dh-74ye_vszc Collezione dipinti Museo Diocesano d'Arte Sacra Lodi Via Cavour, 31 I dipinti si dispongono in tutte le sale del museo, compresa la cappella maggiore e lo scalone di accesso dalla cattedrale, in cui trovano posto dipinti di grande dimensione che si scalano cronologicamente fra il Cinquecento e gli anni Sessanta del Seicento come la Madonna col Bambino tra Santa Caterina d'Alessandria, Santa Marta, angeli e il committente di Francesco Carminati detto il Soncino, contemporaneo di Callisto Piazza, o l'Annunciazione di Camillo Procaccini. Ad episodi biblici si ispirano, invece, le altre due tele con Giuditta e Oloferne e Davide con la testa di Golia di Ercole Procaccini il Giovane, costitutenti il recto e verso di una delle due ante dell'antico organo del Duomo. Arrivati all'atrio di accesso alla cappella, trovano posto i rimanenti dipinti di grandi dimensioni, coevi a quelli dello scalone, tra cui spicca la Visitazione di Carlo Donelli detto il Vimercati, proveniente dall'alatre maggiore della chiesa delle Orsoline di Codogno, o il pregevole paliotto con la Deposizione di Cristo , utilizzato sino al 1964 per decorare l'altare maggiore barocco del duomo nel tempo di Pasqua. La cappella maggiore ospita lungo le pareti un nutrito gruppo di ex-voto, non tanto pregevoli dal punto di vista storico artistico quanto per le informazioni sulla storia del lavoro, del costume e della vita sociale del periodo a cui si riferiscono; al centro del baldacchino che conclude la sala spicca il dipinto con San Carlo Borromeo, probabilmente degli inizi dell'Ottocento. Nella Sala I vi sono raccolti gli affreschi realizzati da Callisto Piazza e strappati in occasione dei restauri del duomo del 1958-1964 promossi dall'architetto Alessandro Degani e dal vescovo Tarcisio Benedetti, di cui, purtroppo, non si conosce l'ubicazione originaria. Nella Sala II si trova l'affresco tardogotico del Maestro delle Storie di Santa Caterina con la Visitazione, in origine posto nella parete nord della cappella Sommariva e poi strappato con i restauri novecenteschi mentre sulla parete di destra trova posto la bella Madonna col Bambino di ambito di Giovanni da Milano, proveniente dal Santuario della Madonna della Fontana a Camairago. Entro la prima metà del XV secolo si colloca invece il Velo di San Bassiano, un'interessante tempera su seta riferibile alla bottega di Alberto Piazza, ritrovata nel 1519 sul corpo del Santo nel sarcofago posto in cripta. Di Alberto Piazza sono invece i due pannelli con San Sebastiano e San Bassiano, databili al 1514 circa, che dovevano forse costituire i pannelli laterali di un più ampio polittico, di cui rimane la parte superiori con l'Incoronazione della Vergine nella prima cappella destra e la Dormitio Virginis, tavola centrale, nel seminario cittadino. Nella Sala III vi sono un gruppo di opere di artisti anonimi, tutte Settecentesche, di modestra fattura, mentre spiccano le splendide miniature, putroppo tagliate da corali, di Francesco Binasco provenienti dall'Abbazia Olivetana di Villanova Sillaro. La Sala IV, detta anche del "Tesoro" per la presenza di una parte degli oggetti donati dal vescovo Carlo Pallavicino alla cattedrale nel 1495, si trovano dipinti settecenteschi, tra cui spicca il pregevole ovale con Sant'Agnese, proveniente da Camairago. Le ultime sale, dalla V alla VIII sono dedicate all'arte contemporanea lodigiana, con opere donate da artisti locali nel corso degli anni. La collezione del Museo Diocesano d'Arte Sacra è ospitata all'interno delle sale che costituiscono un'ala del palazzo vescovile. I dipinti qui conservati provengono per la maggior parte dalla cattedrale, dal vescovado e da varie parrocchie del lodigiano, e sono posti in questo luogo per ragioni di tutela o di precario stato di conservazione. Non è possibile individuare un nucleo collezionistico nè stabilire quali siano stati i criteri espositivi o di scelta delle opere, qui esposte a partire dal 1980, quando il museo venne inaugurato e aperto al pubblico. row-xxca_r3be-9b2h Lecco Corso Matteotti, 32 La fibbia di cintura in bronzo, del tipo "a cinque pezzi", presenta sullo scudetto dell'ardiglione una caratteristica decorazione a cerchi concentrici. Il manufatto, databile alla metà del VII sec. d.C., proviene da una tomba altomedievale individuata negli scavi effettuati presso l'antica pieve di S. Stefano a Garlate. row-h368_ytst_c5gx Raccolta d'arte della Galleria Comunale d'Arte dei Musei Civici Lecco Via Don Guanella, 1 La Galleria Comunale d'Arte raccoglie i fondi donati al Museo Civico di Lecco negli anni Trenta - Quaranta del Novecento comprendenti una cospicua raccolta di stampe, incisioni e dipinti del XVII e XVIII secolo ed un gran numero di mobili e arredi. A partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso le collezioni sono state incrementate con nuove di opere, per lo più di arte contemporanea, giunte ai Musei Civici mediante donazioni: tra queste il "Ritratto di Lucia Stoppani" di Giovanni Battista Todeschini (1857-1938), giunto ai Musei grazie alla donazione delle Gallerie Commerciali Bennet, Centro Meridiana di Lecco, "La mia Famiglia" di Orlando Sora (1903-1981), donata dalla figlia dell'artista, un consistente nucleo di dipinti dei paesaggisti lecchesi Carlo (1842-1908) e Luigi Pizzi (1882-1947), ceduto da un discendente della famiglia e in calco ingesso con "Marsia scorticato" di Giuseppe Mazzoleni (1908-1940), offerta da Giuseppe Kramer Badoni. La volontà di valorizzare queste donazioni e, nello stesso tempo, lo spostamento delle opere d'arte contemporanea nella sede staccata del Palazzo delle Paure, hanno creato l'occasione per un nuovo riallestimento della Galleria, proponendo al visitatore un percorso organico sull'evoluzione dell'arte nel territorio lecchese tra il XVIII e XX. Il primo nucleo delle raccolte della Galleria d'Arte si formò nella prima metà del Novecento con l'acquisizione di fondi privati, tra i quali la collezione di stampe Confalonieri, il legato Carlo Todeschini e il legato Fagioli Cornelio. Nel 1942 fu aperta al pubblico la Pinacoteca, allestita a Palazzo Belgiojoso con un'organica sistemazione che si articolava in tre settori: dipinti del XVII e del XVIII secolo, la donazione Fagioli Cornelio completa di mobili e arredi e una selezione dedicata al "Paesaggio Lecchese". Questo allestimento durò pochissimo. Nel 1951 molte opere furono assegnate a vari uffici comunali e quanto restava fu ammassato nei depositi. Un lungo lavoro di inventariazione e di restauro avviato all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso ha portato alla sistematizzazione delle collezioni e alla selezione delle opere da esporre nella Galleria, che venne inaugurata nel 1983. row-qi55_h927~rhtp Inferno del Don Giovanni San Benedetto Po Piazza Teofilo Folengo, 22 Quinta e fondale realizzati per teatrini ambulanti di burattini e marionette. La quinta presenta un'ampia apertura centrale e delimita lo spazio scenico lateralmente; la scena copre tutto il fondo del teatrino, in gergo denominato baracca. I due elementi scenici sono stati dipinti su carta, incollata su tela e raffigurano una scena infernale. Al centro, in alto, vola il volto di una figura demoniaca con bocca dentata aperta, tra due imponenti ali verdi. A destra si riconoscono due putti infernali, con capelli infuocati e orecchie appuntite, ed un drago con il corpo ricoperto da squame e ali verdi. In alto a sinistra domina un drago con cresta bionda e ali blu, mentre in basso è stata disegnata una spaventosa figura maschile dalla grande testa demoniaca e aguzzi canini. Quinta e fondale, fanno parte della Collezione raccolta in molti anni da Gottardo Zaffardi e da lui stesso smembrata in due parti: la prima fu acquistata dalla Civica Scuola d'Arte Drammatica di Milano, la seconda dal Museo Civico Polironiano. La maggior parte degli oggetti conservati a San Benedetto Po provengono dalla illustre compagnia genovese dei Pallavicini.Il teatro dei burattini appartiene al cosiddetto teatro delle figure, che accomuna nella tradizione italiana i burattini, le marionette ed i pupi. Di fatto, sotto la categoria Teatro delle figure vengono riunite forme di spettacolo estremamente differenziate, che hanno in comune la caratteristica di mettere in scena fantocci animati con varie tecniche anzichè attori in carne ed ossa. Dall'età napoleonica, sino alla prima metà dell'Ottocento, furono attive nell'Italia settentrionale numerose compagnie marionettistiche; alcune recitavano in teatri stabili, ma la maggior parte di esse si esibì in modalità ambulante, spostandosi di continuo di luogo in luogo alla ricerca di un proprio pubblicoNel repertorio del marionettista figuravano soggetti di carattere storico, melodrammatico, coreografico, romanzesco, religioso e agiografico, comico e d'attualità. All'interno del repertorio il posto d'onore era però riservato, nell'Ottocento, alle grandi produzioni di soggetto storico-letterario e operistico, che maggior presa facevano sull'immaginario popolare. Secondo Fely Pallavicini la scena, conservata presso il Museo Civico Polironiano, era usata dalla famiglia Pallavicini per il soggetto di Don Giovanni all'Inferno e potrebbe essere opera dello scenografo Doria. row-eaya-tf5a-niez Collezioni della Casa Museo Villa Monastero Varenna Viale Giovanni Polvani, 4 Entro la cornice suggestiva di un lussureggiante giardino botanico, ricco di specie esotiche ed autoctone, con rare collezioni di palme, agrumi, conifere, ortensie, glicini, rose, camelie ed essenze floreali dai variopinti colori, il complesso di Villa Monastero, nato dalla trasformazione di un antico monastero femminile cistercense in una dimora signorile, offre al visitatore un percorso museale che si sviluppa sia nel parco, con sezioni dedicate alle varie tipologie ed arricchite da sculture e rilievi e elementi architettonici, che all'interno della villa. Qui, su due piani, sono disposte quattordici sale riccamente arredate, principalmente secondo il gusto eclettico della seconda metà dell'800, frutto del gusto del penultimo proprietario privato della Villa, il tedesco di Lipsia, Walter Erich Jakob Kees (1864-1906). Ulteriori acquisizioni sono, inoltre, riconducibili ai proprietari successivi della dimora, i milanesi di origine svizzera De Marchi. Delle collezioni fa parte anche una preziosa raccolta di strumenti scientifici appartenuti al Professor Giovanni Polvani (1892-1970), presidente della Società Italiana di Fisica e del Consiglio Nazionale delle Ricerche e rettore dell'Università degli Studi di Milano, che furono utilizzati per lo studio dell'ottica, dell'elettrodinamica, della meccanica statistica, donati nel 2007 dall'Istituto di Fisica Generale Applicata dell'Università di Milano. Le quattordici sale della villa offrono ai visitatori la possibilità di respirare l'atmosfera di un lungo ed intenso passato. Antiche vestigia dovute alla vita monastica, tra cui un significativo affresco quattrocentesco di ambito lariano, preziosi mobili realizzati per i Kees nei prestigiosi laboratori veneziani di Michelangelo Guggenheim (1837-1914), rare ed eleganti tappezzerie in carta che imita il cuoio impresso di produzione tedesca, arredi di ambito maggiolinesco dovuti ai milanesi De Marchi, collezioni di vetri nei modi di Antonio Salviati (1816-90) e di altre manifatture veneziane, francesi, boeme e tedesche, oltre a sculture, dipinti, porcellane e maioliche ottocentesche, accompagnano il visitatore in un percorso di grande suggestione, che culmina in un inconsueto bagno in stile pompeiano, dalle cui finestre si domina una straordinaria vista del lago nel punto più centrale. row-r3fd.phev-vh44 motivi decorativi Milano Via Manzoni, 12 row-m5nz_k2jm_wkbf Collezione del MAGA Gallarate Via De Magri, 1 L'edificio del MAGA è un complesso architettonico di circa 5000 metri quadrati, costituito da due corpi edilizi attigui e comunicanti: il primo è un fabbricato industriale degli anni Trenta del Novecento, ristrutturato per diventare sede museale; il secondo è un edificio costruito ex novo, caratterizzato da una fronte curvilinea in laterizio, affacciata sulla piazza circolare antistante. Per quanto riguarda l'organizzazione interna, gli spazi sono progettati in maniera estremamente flessibile, per potersi adattare alle esigenze del pubblico e coinvolgerlo nella fruizione delle opere d'arte. All'incrocio dei due corpi di fabbrica sono collocati la biglietteria, il bookshop, il guardaroba, la caffetteria, la sala convegni, la biblioteca, l'archivio e gli uffici. Dalla biglietteria si accede allo spazio dedicato alle mostre contemporanee, che si estende tra piano terra e primo piano. Al secondo piano ha inizio la collezione permanente, che usufruisce di particolari sistemi espositivi a pannelli estraibili. Il percorso segue un criterio cronologico e tematico attorno a tre nuclei fondamentali: l'arte in Italia tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta; le ricerche sulla pittura informale e lo Spazialismo; l'arte dagli anni Settanta alla contemporaneità. A piano terreno è situata un'area predisposta per le collezioni di studio adibita alla conservazione delle opere del museo, visitabile su richiesta. L'atto di nascita della collezione del MAGA coincide con l'edizione del primo Premio di pittura Città di Gallarate, ideato nel 1949 da Silvio Zanella. Durante la prima edizione furono acquisite 19 opere che costituirono il primo nucleo della collezione. Il 15 ottobre 1966 fu aperta al pubblico la Civica Galleria d'Arte Moderna di Gallarate in concomitanza con l'VIII edizione del Premio. Questa prima collezione era composta da 85 dipinti, 3 sculture e 25 opere grafiche provenienti dal Premio e dalle donazioni dei cittadini di Gallarate, fornendo un panorama completo della pittura italiana contemporanea. Nel 1970 la Civica Galleria venne trasferita, dismettendo la sede di via XXV Aprile a favore di una nuova spaziosa sede in via Milano 21, che negli anni raggiungerà i 1090 metri quadrati di estensione. Nel 2009 venne costituita dal Comune di Gallarate la Fondazione Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea "Silvio Zanella", con la partecipazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali quale socio fondatore, e della Regione Lombardia e della Provincia di Varese come partner istituzionali. Nel marzo 2010 è stato inaugurato il nuovo polo espositivo. Le opere attualmente conservate al MAGA testimoniano le più importanti correnti dell'arte italiana del XX e del XXI secolo, tra le quali: il Novecento, l'arte figurativa del secondo dopoguerra, l'astrattismo e le sue influenze sulla figurazione pittorica e scultorea, il naturalismo astratto, il neonaturalismo padano, il concretismo, l'arte cinetica, l'arte ambientale, l'arte informale, l'arte concettuale, la "pittura-pittura", la transavanguardia, il post-moderno, l'arte dei "nuovi-nuovi", gli anacronisti e la pittura colta, il nuovo realismo, il nuovo futurismo, l'astrazione ridefinita, l'astrazione povera, l'arte multimediale ed infine il design italiano. Numerose sono le opere acquisite attraverso il Premio Città di Gallarate, mentre alcune tele sono esposte grazie ad accordi di deposito temporaneo o alla politica di acquisti attuata direttamente dal Museo. Le sezioni principali della collezione sono due: opere d'arte contemporanea e grafica (1711 opere). row-b3bm_zvwm.rief carro di Diana Milano Via Manzoni, 12 row-pxy6-t3ht_ed5u Stemma Morelli Teglio Via Fabio Besta, 1 All'interno di una luminosa stanza al primo piano dell'ala sud di palazzo Besta è collocata una bella stufa monumentale d'epoca composta da due parti: quella inferiore è la camera di combustione, a sezione curvilinea con perimetro spezzato, che aderisce alle due pareti d'angolo della sala; la fronte è decorata con un pannello centrale mistilineo color mattone che contrasta con il colore chiaro del resto della struttura. Superiormente il corpo radiante della stufa ricorda un'elegante guglia spezzata, slanciata e a tutto tondo; all'apice, sopra un cornicione modanato, è posto uno stemma d'alleanza in stucco riconducibile alle famiglie Morelli e Arosio, trattenuto ai lati da due aquile ad ali spiegate che con il becco sorreggono una grande corona. La stufa fa parte degli arredi introdotti dopo l'acquisto del palazzo dalla famiglia Morelli, che fece eseguire alcuni lavori di trasformazione dell'edificio nel corso del XVIII secolo. Fra gli interventi rientra la realizzazione delle due stüe settecentesche, le sale affiancate interamente rivestite di legno che si trovano al primo piano del corpo sud. Questi ambienti erano definiti anche "stanze d'inverno" poiché servivano probabilmente come camere da letto nei periodi più freddi. Per riscaldare la stanza orientale veniva usata la monumentale stufa, caricata dall'esterno grazie ad uno sportello posto nel corridoio sud del loggiato al primo piano, come di consueto nel contesto valtellinese per evitare eventuali danni ai rivestimenti lignei interno causati dalla fuoriuscita di fumo o faville.La stufa "Morelli", pur nella sua semplicità lontana dagli esiti sfarzosi della produzione coeva, può essere datata alla prima metà del Settecento o poco oltre. row-85m3~a2dj-y4ky Planimetria del sistema idrografico del ducato di Mantova Mantova Piazza Sordello, 40 Questa tavola in scagliola, della seconda metà del XVII secolo, è stata inserita nella struttura in legno di un tavolo a quattro gambe da presumersi di fattura novecentesca. Sul piano bianco si trova rappresentata un'interessante planimetria del sistema idrografico del ducato gonzaghesco di fine Seicento, con l'evidenziazione in azzurro dei corsi d' acqua e dei canali del territorio oltre alla descrizione del sistema lacustre che attorniava la città dei Mantova. La planimetria è compresa entro una riquadratura nera, i cui i lati più corti presentano bande più larghe percorse da un motivo romboidale. E' stata ipotizza l'attribuzione a Giacinto Stancario, che a partire dal 1676 venne nominato dal duca di Mantova scultore di corte a vita e fabbricante di tavolini in scagliola. La scagliola nasce nel XVI secolo come imitazione della tarsia marmorea e di pietre preziose ed utilizza come basi di fabbricazione il gesso unito ad un collante organico ed a pigmenti colorati a base di terre e pietre macinate. L'effetto decorativo è assai vivace e lucente come il marmo. row-mtdd~53ds-uq4k Paesaggio con animali, Decorazione a finti tendaggi Castiglione Olona Via Roma, 29 L'ampio salone del primo piano del Palazzo dei Castiglione di Monteruzzo, altrimenti detto Corte del Doro, doveva essere originariamente diviso in due aree da un tramezzo. Nonostante la parete divisoria originale oggi non esista più, la decorazione pittorica mostra ancora la netta divisione tra i due spazi, sebbene lo stato di conservazione della stessa non sia ottimale. Gli affreschi del primo ambiente raffigurano finti tendaggi con motivi ornamentali sui quali sono dipinti pappagalli appoggiati a rami intrecciati con nastri recanti motti di carattere mistico e sentenze morali. Al di sopra dei tendaggi si aprono monocromi raffiguranti paesaggi con castelli, boschi e levrieri che inseguono conigli e lepri.Nella seconda parte, la più complessa e la meglio conservata, le raffigurazioni si articolano su tre registri: la parte alta è dominata da un fregio rosso dove fiori bianchi a quattro petali si alternano a girali di foglie e medaglioni contenenti stemmi nobiliari. Nella parte intermedia, che corrisponde alla zona più ampia della parete, la scena è occupata da alberi, uccelli e lepri stagliati contro uno sfondo rosso intenso. Infine in basso corre una decorazione che riproduce un finto paramento murario marmoreo, declinato in differenti colori da una lastra all'altra. Le decorazioni superstiti del Palazzo dei Castiglione di Monteruzzo riprendono la medesima tipologia decorativa diffusa nei territori della Lombardia per oltre mezzo secolo, a partire dall'inizio del Quattrocento. Non è possibile riconoscere in essi la mano di un artista preciso, tuttavia i dipinti denunciano una chiara ripresa delle decorazioni realizzate nel 1423 all'interno della "Camera dei Putti" di Palazzo Branda, sebbene lo stile più aggiornato e sicuro di questi affreschi sia indice di una realizzazione più tarda. Ad almeno vent'anni di distanza tornano su queste pareti gli stessi pappagallini reggicartiglio presenti in Palazzo Branda, così come i medesimi accostamenti cromatici nella decorazione che mima una scena di caccia ambientata in mezzo agli alberi. Fu dunque la bottega del cosiddetto "Maestro del 1423", attivo nel palazzo del cardinale Branda Castiglioni, a dettare il modello per le successive decorazioni interne dei palazzi castiglionesi: all'epoca infatti, la ripetizione di iconografie tratte da precedenti cicli pittorici, non veniva considerata una sterile imitazione, bensì la garanzia di un lavoro inserito nel solco della tradizione, in accordo con il gusto del circuito di committenze locali. row-tfau_673t-si5a Trionfo della Verità nelle Arti e nelle Scienze sopra l'Ignoranza Morbegno Via Malacrida Al centro della volta ribassata del salone d'onore di palazzo Malacrida è affrescata una grande medaglia ovale dove è rappresentato il "Trionfo della Verità nelle Arti e nelle Scienze sopra l'Ignoranza". La scena luminosa si apre verso il cielo popolato di putti volanti e di fanciulle in vaporosi abiti colorati. Si tratta delle personificazioni delle arti e delle scienze, riconoscibili grazie ai rispettivi attributi iconografici: la Pittura è intenta a dipingere lo stemma dei Malacrida, seguono la Musica, l'Architettura e l'Astronomia sedute su un'ampia nuvola; più in alto, appoggiate ad un grande globo sospeso, compaiono la Geografia e la Geometria. La Verità, rappresentata da una donna con un libro aperto e un lume nelle mani, svetta su tutte le altre figure, mentre sale leggera verso il cielo. All'opposto, dalle nuvole precipita una fanciulla bendata, allegoria dell'Ignoranza. Il medaglione centrale, opera del pittore di origine valtellinese Cesare Ligari, è incorniciato dalle numerose quadrature dipinte da Giuseppe Coduri detto il Vignoli, al quale spetta anche la decorazione delle pareti con illusionistiche architetture e paesaggi che fingono una sala più ampia del vero, aperta verso l'esterno.Il tema centrale dell'esaltazione delle arti e delle scienze è molto presente nella cultura figurativa veneziana dell'epoca rococò, ambiente di formazione del Ligari, così come i colori chiari e luminosi, la composizione mossa e l'ardita prospettiva di sotto in su, elementi tipici dell'arte del Settecento che ebbe in Tiepolo il più noto artefice e maestro.Si deve a Giampietro Malacrida la commissione delle decorazioni ad affresco e stucco che fanno della dimora di Morbegno uno scrigno tra i più significativi del barocchetto valtellinese. Nel 1761 il padrone di casa incaricò il Ligari di dipingere ben cinque soffitti, ma per dissidi sorti in merito ai pagamenti l'incarico venne revocato quando l'artista aveva concluso solo la volta del salone d'onore e quella della attigua saletta delle Grazie. row-d7x2-jmqv_a546 Trinità Bergamo Via Pignolo, 76 Al centro della pala, con una sorprendente soluzione iconografica messa a punto dal Lotto che supera la tradizionale rappresentazione della Trinità come combinazione di simboli delle tre persone divine, si trova Cristo, raffigurato come Redentore, risorto, con le braccia abbassate e le mani aperte nell'ostentazione delle piaghe. Sospeso sull'arcobaleno della fede, è circondato da una cortina di nubi chiare, da cui fanno capolino dei cherubini. Dietro di lui è la sagoma di Dio, rappresentato come un'ombra chiara, quasi trasparente, con le mani alzate. La forte luce che emana la sua figura va a sottolineare le creste delle nuvole, facendone una delle sperimentazioni più ardite eseguite dall'artista in territorio bergamasco. Tra Cristo e Dio Padre si trova la colomba dello Spirito Santo. Sotto le nuvole un meraviglioso paesaggio di folta vegetazione e pendici boscose, ripreso da un punto di vista elevato, spinge lo sguardo verso un orizzonte indefinibile. La pala proviene dall'altare maggiore della demolita chiesa bergamasca della Santissima Trinità. In seguito alle soppressioni napoleoniche, è acquistata nel 1808 dal sacerdote Giovanni Battista Conti e, alla sua morte, è donata alla chiesa bergamasca di Sant'Alessandro della Croce. Il dipinto è una delle manifestazioni più eloquenti della capacità di Lotto di ricreare le iconografie sacre alla luce delle propria sensibilità artistica, dando forma al significato religioso più profondo e coinvolgente. La fortuna del dipinto è attestata da una serie di copie di ambito lombardo realizzate tra XVI e XVII secolo. Tra queste, l'opera di Giovan Battista Moroni nella parrocchiale di Albino (1556), cui seguono la copia di Giovan Pietro Lolmo all'Accademia Carrara di Bergamo (1582) e ben quattro versioni elaborate da Enea Salmeggia.